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Anselmo d'Aosta

Credere per comprendere

Monaco, abate, vescovo, filosofo e santo: Anselmo d'Aosta fu uno splendido esempio di connubio tra fede e ragione. Celeberrima la sua prova dell'esistenza di Dio. Lottò per la libertà della Chiesa e pagò con l'esilio.

Vescovo, Dottore della Chiesa e Santo, Anselmo d'Aosta (la città nella quale venne alla luce nei 1033 o, forse, l'anno seguente) o di Canterbury (la diocesi di cui fu arcivescovo a partire dal 1093), si staglia come una figura di primissimo piano della filosofia, della teologia e della santità di ogni tempo.

La svolta fondamentale della vita di Anselmo coincide con il suo ingresso nella celebre abbazia benedettina di Bec, in Normandia: gli anni che vi trascorrerà, caratterizzati dallo studio e dalla preghiera, saranno particolarmente fecondi e faranno emergere in lui quelle straordinarie doti intellettuali e morali che lo imporranno come il più grande maestro dei suoi tempi, senza peraltro impedirgli di governare e amministrare con eccezionale accortezza il monastero del quale dal 1079 era diventato abate.

In effetti, fin dalla sua prima opera, il celebre Monologion ("Soliloquio"), Anselmo dichiara l'intenzione di voler parlare di Dio non facendo riferimento alla Sacra Scrittura, ma basandosi sul linguaggio comune; e ancora, nel Proslogion ("Colloquio"), l'opera nella quale è contenuta la celeberrima prova ontologica dell'esistenza di Dio, Anselmo esprime con chiarezza la sua impostazione metodologica nei termini seguenti: "Io non tento, Signore, di sprofondarmi nei tuoi misteri perché la mia intelligenza non è adeguata, ma desidero capire un poco della tua verità che il mio cuore già crede e ama. Io non cerco di comprenderti per credere, ma credo per poterti comprendere".

Il programma anselmiano è ben definito: chiarire mediante la ragione ciò che si possiede con la fede, ovvero - come gli avevano chiesto i monaci stessi - non imporre la verità rivelata, ma, per quanto possibile, renderla accessibile attraverso il ragionamento. In ciò, Anselmo palesa una salda fiducia nelle capacità razionali dell'uomo: di qui scaturisce la sua convinzione che la fede debba cercare l'intelligenza (fides quaerens intellectum), per trovare in essa una sicura alleata in grado di gettare luce sui misteri della rivelazione e aiutare così il credente ad avvicinarsi sempre più convintamene alla verità.

Ma se per un verso la fede deve cercare ausilio e conferma nella ragione e nelle sue argomentazioni, per un altro - come sì è accennato poco sopra, riportando le parole del Santo Dottore - la ragione stessa non può che muoversi nel solco tracciato dalla fede, pena il suo smarrirsi e inaridirsi: sarà la famosa formula credo ut intelligam ("credo per comprendere") a sintetizzare mirabilmente e con convinzione e a indicare la volontà della fede rispetto allo sforzo razionale. Come è facile notare, al centro della grande lezione anselmiana sta la certezza che esista un accordo perfetto e fecondo tra fede e ragione: la prima rappresenta l'indispensabile punto di partenza di qualunque speculazione, la seconda costituisce lo strumento principe per sostenere e corroborare ciò che si possiede con la fede.

Ha scritto a questo riguardo Claudio Leonardi: "Anselmo costruisce un sistema teologico in cui la tradizione patristica, in particolare agostiniana, viene accolta pienamente, ma viene anche integrata dalla dialettica: in tal modo egli é in grado di apprezzare una teologia legata ai simboli e alle figure dell'allegoria, insieme a una teologia legata alle argomentazioni logiche. Il suo intellectus fidei è una dimensione conoscitiva complessa, ma chiaramente ancorata ai due termini che la esprimono: intelletto e fede. È questa la grande unità metodologica di Anselmo".

Ricorda:

"Nella teologia scolastica il ruolo della ragione filosoficamente educata diventa ancora più cospicuo sotto la spinta dell'interpretazione anselmiana dell'intellectus fidei. Per il santo Arcivescovo di Canterbury la priorità della fede non è competitiva con la ricerca propria della ragione. Questa, infatti, non è chiamata a esprimere un giudizio sui contenuti della fede; ne sarebbe incapace, perché a ciò non idonea. Suo compito, piuttosto, è quello di saper trovare un senso, di scoprire delle ragioni che permettano a tutti dì raggiungere una qualche intelligenza dei contenuti di fede. Sant'Anseìmo sottolinea il fatto che l'intelletto deve porsi in ricerca di ciò che ama, più ama, più desidera conoscere". (Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Fides et ratio, n. 42).


le prove razionali dell'esistenza di Dio

Il Monologion

Anselmo elabora una prima serie di prove nell'opera che si intitola Monologion. Il tratto comune di queste prove è l'esistenza di una gerarchia di perfezioni, che la ragione coglie nella realtà del mondo sensibile. Una pianta è più perfetta di una pietra, un atto di coraggio lo è più di un atto di viltà.

Ora, in base a che cosa possiamo giudicare una cosa più perfetta di un'altra? Dove desumiamo il criterio che ci permette di operare quella che è una inevitabile, anzi essenziale, componente del nostro modo di conoscere, ossia il paragonare le diverse cose?

Se possiamo giudicare del più e del meno, argomenta A., è perché abbiamo presente qualcosa che sia massimo, cioè insuperabile in quell'ordine. Se esiste un più o meno buono, un più o meno giusto, è perché esiste un massimamente buono, un massimamente giusto. Cioè qualcosa che sia buono e giusto in modo assoluto e insuperabile.

Ma per poter essere assolutamente e insuperabilmente perfetto, qualcosa deve essere infinito: se non lo fosse, potrebbe essere superato da qualcosa.

Dunque esiste un massimamente perfetto, che è infinitamente perfetto: ed è appunto ciò che diciamo Dio, l'Essere Infinito e infinitamente perfetto.

Il Proslogion

Quella del Proslogion è una prova detta a priori.Si traduce spesso tale espressione come "prescindente dal dato sensibile", ma bisognerebbe purificare tale spiegazione da un inquinante riferimento al kantismo: (...) non esiste un disprezzo o una diffidenza nei confronti del sensibile in quanto tale. Il mondo corporeo, sensibile è stato creato da Dio, e Dio ha visto "che era cosa buona". Prova a-priori quindi non significa una prova che escluda il sensibile, quanto una prova che si impernia sulle evidenze che si presentano (che ineriscono) allo spirito umano, sulle evidenze che è strutturalmente impossibile negare, e il cui valore non è smentibile da qualsivoglia esperienza. Comunque si giudichino le prove a-priori è bene non dimenticare perciò che il loro riferimento una concezione realistica della conoscenza: esse fanno appello non ad una ragione come "scatola chiusa", ma ad una ragione come aperta alla realtà, e nella fattispecie la realtà su cui la ragione fa leva è la realtà dello spirito, cioè la realtà del soggetto umano.

Richiamiamo le linee essenziali dell'argomento di S.Anselmo.

1. Vi è nello spirito umano, nello spirito di ogni uomo, un'idea, una conoscenza originaria e incancellabile, quella dell'Id quo maius cogitari nequit, Ciò di cui non si può pensare niente di più grande, cioè l'idea di Dio, la conoscenza di Dio.

Chi, come il suo avversario il monaco Gaunilone nel Liber pro insipiente, volesse negare questa presenza, secondo Anselmo, si contraddirebbe. Infatti come si può negare di avere l'idea di Dio, senza sapere ciò che si nega? Ma sapere ciò che si nega vuol dire precisamente avere l'idea di ciò che si nega, cioè avere l'idea di Dio, dell'Id quo maius cogitari nequit. Anche chi nega Dio, anche l'ateo, deve sapere chi è ciò che nega. Dunque tutti hanno tale idea, tale idea è strutturale ad ogni mente umana, ad ogni uomo.

2. Tale idea di Dio non ci dice semplicemente (ovviamente in modo imperfetto) che cos'è Dio, ma ci dice anche che Dio è. Ci attesta la Sua esistenza, al tempo stesso che ci dice qualcosa della sua essenza. Come un raggio di luce che entri in una stanza, ci dice sia qualcosa di che cos'è la luce, sia che la fonte della luce esiste.

Infatti l'id quo maius, l'Essere perfettissimo, per essere tale (per essere pensato) non può essere pensato come non esistente: deve infatti essere insuperabile (altrimenti non sarebbe perfettissimo, non sarebbe l'Id quo maius cogitari nequit); ma sarebbe superabile se fosse un Essere perfettissimo che avesse tutte le perfezioni, fuorché l'esistere; sarebbe superabile, cioè da un Essere perfettissimo, che oltre ad avere tutte le perfezioni (dell'essenza), avesse anche la perfezione di esistere. Detto in termini algebrici affermare che l'Id quo maius non esista sarebbe come dire: X+1>X (dove x=tutte le perfezioni essenziali, ossia la infinita bontà, la infinita conoscenza, la infinita conoscenza, etc.; e 1=la perfezione consistente nell'esistere); ma è impossibile che X+1>X, se abbiamo assunto che X è assolutamente massimo, è ciò che di più grande esiste, l'Id quo maius, il maximus. Dunque Dio esiste.

3. All’obiezione di Gaunilone, che osservava come allora potremmo dire di avere l'idea delle isole beate, e da tale idea trarre la conclusione, evidentemente infondata, che le isole beate esistono, Anselmo replicava che il caso dell'idea di Dio è assolutamente unico, e non ha paragone con alcuna altra idea. Solo dell'Essere perfettissimo si può dire che la sua esistenza è inclusa nell'essenza: per ogni "altro" ente ciò non vale.

La prova a-priori ha avuto successo anche presso filosofi come Cartesio, Leibniz ed Hegel, che si sono allontanati dalla weltanschaung cristiano-medioevale. Nondimeno tali pensatori hanno concepito anche in termini teoretici in modo diverso dai medioevali la prova ontologica: fondamentalmente la differenza sta nel fatto che mentre per questi ultimi l'idea di Dio era qualcosa di non oggettivabile, uno sfondo onniavvolgente che permea la conoscenza mentale senza poter essere afferrato in modo esaustivo, senza poter essere incapsulata in un concetto collocabile accanto ad altri, ma sovrastando ogni concetto, nei citati pensatori moderni l'idea di Dio viene ridotta ad una delle tante idee, su cui la ragione esercita un potere di comprensione e di manipolazione.

Quanto appena ricordato va tenuto presente se si vuole avvicinarsi al significato che per i medioevali aveva la prova a-priori. Essa non significa un possesso conoscitivo dell'Infinito, né una affermazione di autosufficienza del pensiero nei confronti del mondo sensibile e dell'oggettività dei rapporti umani come veicolo essenziale per incontrare l'Infinito. Ci sembra piuttosto che la prova ontologica, per quanto possa suscitare dubbi e perplessità abbia il senso di evidenziare i seguenti punti:

1) la conoscenza umana non è dispersa frammentarietà di sensazioni e pensieri, fluttuanti nel vuoto, ma si riannoda attorno a un Centro, che non può essere che l'Infinito e l'Eterno;

§         Ciò è agli antipodi del concetto di mente come teatro di cui avrebbe parlato Hume, agli antipodi cioè di una polverizzazione, di una disintegrazione della conoscenza umana in un caos di atomi conoscitivi.

§         Ma è anche qualcosa di più di quanto poteva ammettere Aristotele, che pure raccoglieva in unità gli aspetti conoscibili del "mondo esterno", riannodandoli attorno ai tanti centri, ai tanti nuclei delle sostanze: il filosofo greco infatti lasciava sullo sfondo l'unità del soggetto umano, che invece la presenza dell'idea di Dio, ovvero il suo essere immagine di Dio, fonda appieno.

2) l'uomo, parallelamente, è proteso verso tale Realtà (lo stesso Tommaso d'Aquino, che pure rifiuta la prova ontologica nella sua valenza conoscitiva, le riconosce in qualche modo una valenza sul piano del desiderio);

3) tale protensione è appunto una molla verso una pienezza, che l'uomo non possiede di suo, escludendo perciò un possesso già attuato. In questo senso la dimostrabilità a-priori di Dio non va vista come esclusiva di un incontro storico, concreto, visibile; non va cioè vista come fattore di ripiegamento su di sé, di intimistico soggettivismo.

perché un Dio uomo?

Anche affrontando questo tema, teologico, A. mostra di voler cercare il più possibile le ragioni della fede.

Se Dio si è fatto Uomo, in Cristo, ci deve essere una ragione. Ed essa è la necessità di soddisfare la giustizia, violata infinitamente nel peccato originale da Adamo ed Eva, e riparabile soltanto da un atto infinitamente riparatore.

Quale appunto è stato, e poteva solo essere, quello operato dallo stesso Infinito, a cui conveniva pertanto unirsi alla natura umana, diventare cioè Uomo, per poter riparare al peccato di Adamo.

 

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