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Il Realismo Scolastico

 

1. - RITORNO AL REALISMO.

I vari sistemi che abbiamo brevemente considerato non offrono una soluzione al problema della conoscenza che regga a un sereno esame critico, anzi contrastano coi dati più evidenti che il filosofo deve spiegare ma non può negare, e ci indicano la soluzione del problema nel male abbandonato realismo.

E' vero che un ritorno netto al realismo è sembrato e sembra tuttora a parecchi filosofi un regresso ad una posizione ingenua superata da due secoli di critica: è perciò che sono state proposte soluzioni intermedie che tendono a conciliare i postulati della moderna filosofia critica con le affermazioni del realismo classico. Basti ricordare il tentativo del Rosmini nel secolo scorso - rinnovato fino ai nostri giorni dai suoi discepoli e da filosofi per lui simpatizzanti - in quella corrente di pensiero denominato dallo Sciacca spiritualismo cristiano.
Analoghi tentativi di conciliazione troviamo nella scuola di Lovanio col Mercier, in Italia con lo Zamboni e coi vari sostenitori di un realismo mediato.

Siamo convinti che questi tentativi, lodevoli nell'intenzione, sono inefficaci nell'attuazione perché vogliono conciliare l'inconciliabile; e che la vera soluzione del problema della conoscenza sta nel realismo immediato della scolastica il quale non rinnega quanto di buono vi è nella filosofia moderna, ma difende quanto di perennemente vero vi ha nella filosofia antica, rivendicando il valore della ragione umana nella conoscenza del vero assoluto.

2. - IL REALISMO SCOLASTICO.

Il problema da risolvere era: possiamo conoscere la verità, conoscerla con certezza, con certezza filosoficamente giustificata di fronte ad ogni critica?

La filosofia scolastica risponde di sì, affermando la capacità della nostra mente di conoscere con certezza la verità nel senso genuino della parola, cioè conformità della nostra cognizione con la cosa in sé, con la realtà oggettiva.

Come lo dimostra?

A). Giova osservare che una vera dimostrazione non è né possibile necessaria, trattandosi di una affermazione che appare per sé evidente a chi vi si accosta con animo sereno e scevro da pregiudizi. Abbiamo detto che non è possibile dimostrare che la nostra ragione è capace di conoscere la verità, perché bisognerebbe avere un'altra ragione per giudicare della bontà della nostra. Criticare la ragione è assurdo, osservava vivacemente il Mattiussi a chi - con Kant - voleva fare la Critica della Ragione. Con che cosa la criticherete e la giudicherete voi se non con la ragione stessa? e poi, se giungerete alla conclusione che la ragione è buona vi si dirà, e giustamente, che per far questo avete supposto in tutta la vostra dimostrazione il valore della ragione, ossia che avete supposta come vera la conclusione che volete provare. Se invece arriverete a trovarla fallace, ricordatevi bene che non avrete dimostrato nulla; perché con quale buona ragione avete potuto scoprire che la ragione è cattiva?  

Errarono quindi ed errano quanti con Cartesio ecc. pongono un dubbio universale positivo o negativo, reale o metodico, all'inizio del problema critico, perché da tale dubbio iniziale è impossibile uscire, non avendo altro strumento di conoscenza all'infuori di quelle facoltà di cui si dubita e si cade necessariamente nell'assurda posizione scettica già sopra confutata.

Dovremo allora ammettere dogmaticamente o ciecamente l'attitudine della nostra mente a conoscere la verità? Neppure, perché questa attitudine possiamo vederla e si crede dogmaticamente o ciecamente a quel che non si vede. Noi infatti possiamo riflettere sul nostro pensiero, perché il nostro pensiero è trasparente a se stesso, e vederne così immediatamente la natura, visione immediata che non è adesione cieca, vale più di qualunque critica dimostrazione e non può essere negata o messa in dubbio perché chi negasse o mettesse in dubbio la testimonianza immediata della coscienza dovrebbe rinunciare alla filosofia, a qualunque filosofia. Questa riflessione, in cui consiste la vera fenomenologia, ci mostra l'autentica natura del nostro conoscere e ci dà la conoscenza esplicita e formale della nostra attitudine al vero che è già implicita e virtuale in ogni atto di conoscenza diretta, per cui l'animo riposa tranquillo e sicuro, conscio delle solide basi su cui poggia il genuino realismo. 

B). La riflessione ci mostra come la natura del nostro conoscere è di attingere la realtà oggettiva per conformarsi ad essa: siamo quindi capaci di conoscere con certezza la verità assoluta.

1. - La natura del nostro conoscere è di attingere la realtà oggettiva.

Nella nostra conoscenza - sia sensibile che intellettuale - noi abbiamo coscienza di apprendere non le nostre sensazioni o le nostre idee, ma una realtà che viene bensì a contatto col nostro pensiero, ma è indipendente dal nostro pensiero, che non è perché è conosciuta, ma è conosciuta perché è; oggetto immediato della conoscenza è dunque l'essere, la realtà oggettiva, non il pensiero o le modificazioni soggettive. E così deve essere.
Infatti, l'oggetto termine della conoscenza per natura deve (se non per durata), precedere la conoscenza. Ma ripugna che la conoscenza preceda se stessa; dunque l'oggetto della conoscenza è necessariamente presupposto al pensiero; non è il pensiero stesso, ed anche quando facciamo oggetto di pensiero un nostro pensiero, questo è realtà oggettiva presupposta al nuovo pensiero.
L'avere trascurato questo dato della conoscenza primitivo ed evidente, ha indotto certi filosofi alla falsa supposizione che immediatamente conosciamo le nostre idee, dalle quali dobbiamo passare alle cose e per fare questo passaggio è sorta la famosa questione del ponte, che fu il problema e il tormento dei cartesiani ed è il problema e il tormento dei moderni realisti mediati; problema insolubile perché - dicono bene gli idealisti - non si esce dal pensiero col pensiero e certi caratteri della nostra conoscenza cui appellano i realisti mediati per fare il passaggio, daranno luogo alle distinzioni idealistiche fra io empirico e trascendentale, ma non varranno a fare uscire dall'immanenza per passare alla trascendenza.
Ma abbiamo detto che di ponte non c'è bisogno, perché sensazione e idee sono nelle cose come in un loro termine e le hanno in sé come sentite e pensate. Le sensazioni e le idee non sono l'oggetto della cognizione, ma il mezzo con cui conosciamo, come la lente che non è veduta, ma ci fa vedere. Solo mediatamente le conosciamo; immediatamente si conoscono le cose, ed è errato chiudersi nelle idee e poi domandarsi se corrispondano alle cose.
La natura dunque del conoscere è attingere l'essere, la realtà oggettiva sia per mezzo dei sensi coi quali sperimentiamo la reale esistenza delle cose, sia per mezzo dell'intelletto che intus legit nelle cose, cioè ne penetra la natura.
Questo necessario riferimento all'essere, alla realtà oggettiva, appare ancor più chiaro nel giudizio; quando infatti affermo che "oggi piove" non intendo dire "io penso che oggi piove", ma che è così nella realtà, al di là del mio pensiero; ed escludendo l'opposto, non intendo solo escludere il pensiero mio del non piovere, ma la realtà in sé del non piovere.
In questo senso ogni affermazione trascende il pensiero, è affermazione di realtà in sé e per sé. La natura quindi del conoscere è attingere l'essere, più o meno perfettamente, ma immediatamente si può graduare la conoscenza, ma non si può mediarla.

2. - La natura del nostro conoscere è di conformarsi alla realtà oggettiva.

Alla riflessione il conoscere appare non solo come un apprendere la realtà, ma un conformarsi ad essa; vediamo infatti che nei giudizi e nei ragionamenti il nostro intelletto cerca di adeguarsi alla realtà che apprende tanto che fino al momento in cui non è sicuro di conformarsi alle cose sospende il suo assenso.
a) Nei giudizi di esperienza. Se non vedo chiaramente se piove o non piove, cerco di investigare; e se non riesco a distinguere, non affermo né nego; sospendo il giudizio e cerco, non per saper il contenuto del mio pensiero, che so bene quale è, ma per potere adeguare veramente il mio pensiero alla realtà.
b) Nei giudizi analitici. Quando dico che 2 + 2 = 4 ho coscienza di affermare l'identità tra il soggetto e il predicato, perché vedo che realmente è così, e se dicessi il contrario la mia affermazione non corrisponderebbe alla realtà. Che se avessi un momento di esitazione, sospenderei anche qui il mio giudizio finché non vedessi chiaramente cosa realmente facciano 2 + 2.
c) Nei ragionamenti. Quando ci viene proposta una proposizione non immediatamente nota, per es. il teorema di Pitagora, la mente rimane perplessa; al solo esame dei termini non vede le ragioni di affermarlo né di negarlo, fluttua tra il sì e il no. Ma allo svolgersi della dimostrazione appaiono gli argomenti che provano la verità del teorema e la mente si sente inclinata ad aderirvi; se però ci sono dei dubbi e delle difficoltà, l'assenso non è pieno e incondizionato; solo al termine della dimostrazione, sciolte le difficoltà e dileguati i dubbi, la mente esclama "Adesso vedo, è evidente" e con certezza aderisce a quell'affermazione perché conforme alla realtà.

3. - Siamo quindi capaci di conoscere con certezza la verità assoluta.

La natura del conoscere è di attingere la realtà e di conformarsi ad essa; ma in questa adeguazione del conoscere alla realtà, sta la verità assoluta; dunque la natura della nostra mente è di conoscere la verità, conoscerla con certezza, il cui criterio è appunto l'evidenza.
Non si può dire che la natura è fallace perché è assurdo. Natura infatti dice tendenza ad uno scopo, movimento ad un termine; la natura del conoscere è tendenza ad apprendere l'essere; movimento a conformarsi all'essere. Se fosse fallace, tenderebbe al non essere, si muoverebbe verso il nulla; ma tendere al nulla, muoversi verso il nulla è non tendere, non muoversi: la natura non sarebbe natura, negherebbe se stessa il che è assurdo.
Noi dunque abbiamo la capacità di conoscere la verità; non dico tutta la verità, perché abbiamo coscienza della nostra limitazione, e neppure dico che la verità che conosciamo, la conosciamo perfettamente perché la nostra conoscenza è imperfetta (non nel senso che sia difforme dalla realtà, ma che non arriva ad esaurirla); abbiamo la capacità di conoscere la verità con certezza, non dico che tutte le nostre cognizioni siano certe perché non sempre il nostro intelletto riesce ad adeguarsi alla realtà (donde la fatica della ricerca e dello studio), ma che possiamo arrivare a conoscenze certe, e di fatto vi arriviamo quando la realtà ci è evidentemente proposta; allora abbiamo una certezza assoluta che non ammette dubbi. L'errore è impossibile nella nostra cognizione che si svolge secondo natura; esso può avvenire solo per accidens, per un intervento della volontà più o meno consapevole, che determina l'intelletto a irriflessione nel giudicare, a fermarsi ad una considerazione parziale dell'oggetto. Senso e intelletto per sé sono infallibili, non dicono e non possono dire che la verità.

Così, nonostante la diffidenza che la filosofia moderna, più o meno infetta di scetticismo, ha per la ragione umana, noi abbiamo piena fiducia che con la nostra ragione, purché procediamo con circospezione e prudenza, senza passione o pregiudizi, possiamo conoscere la verità, conoscerla con certezza, e con certezza filosoficamente legittimata.

3. - GENESI E SVILUPPO DELLA CONOSCENZA.

Dimostrato il fatto che la mente è capace di conoscere la verità, resta a spiegare il modo con cui arriva a conoscerla. Ecco in breve riepilogata la dottrina scolastica in armonia coi dati dell'esperienza.

l. La mente riceve gli elementi delle sue cognizioni mediante i sensi. Rigettiamo le idee innate di Platone, Cartesio, ecc. e affermiamo che nulla è nell'intelletto che non abbia in qualche modo tratto origine dai sensi. Così si spiega l'assoluta mancanza di certe idee (colori) a chi manca di qualche senso (vista), il ritardo dell'attività dell'intelletto finché la parte sensitiva non abbia raggiunto una certa perfezione e, in generale, quella connessione manifesta tra i fenomeni della vita intellettiva e quelli della vita sensitiva.

2. La cognizione sensitiva è dunque l'alba e l'inizio di tutto l'ordine conoscitivo umano. I sensi esterni quando operano nello stato normale, attingono con certezza, senza tema di illusioni, l'oggetto loro proprio e proporzionato che venga in debita maniera presentato e ci danno l'irrecusabile testimonianza della reale esistenza dei diversi sensibili percepiti. Il senso però nulla dice della loro costituzione entitativa: apprende infallibilmente questo colore, quel suono, ma non dice quale sia la natura del colore e del suono, se siano qualità semplici o complesso di vibrazioni e moti. Questo dovrà prudentemente dedurlo l'intelletto esaminando quale sia la natura delle cose; è perciò indifferente dal lato critico la questione agitata tra percezionisti e interpretazionisti.

3. I dati dei sensi esterni vengono riuniti dal senso comune, conservati nella memoria sensitiva, riprodotti nel fantasma o immagine complessiva delle qualità raccolte in uno stesso soggetto. Qui si ferma la conoscenza sensitiva sufficiente alla vita animale per discernere le varie cose e dirigere i movimenti. Ma nell'uomo v'è di più.

4. Il fantasma è presentato all'intelletto; questa per intima forza di natura, intus legit, legge le note essenziali astraendo, universalizzando, spiritualizzando; il fantasma rappresenta questa cosa, questa sostanza, questo uomo, e l'intelletto ne astrae l'idea universale di ente, di sostanza, di uomo, ecc.; idee dapprima più universali che poi a poco a poco col moltiplicarsi dei dati dell'esperienza, coi rapporti e confronti fra una nozione ed un'altra, vanno sempre più determinandosi e danno una conoscenza più completa e perfetta delle cose.
Per mezzo delle idee noi quindi conosciamo realmente le cose, la loro natura, benché con più o meno perfezione e in quel modo che, è proprio della nostra natura; le cose nella realtà sono concrete e singolari, noi invece le conosciamo in modo astratto e universale: ciò che noi conosciamo, è realmente nelle cose, benché non nello stesso modo. Questo è da tenersi presente sia per risolvere il famoso problema degli universali (che ha dato appunto origine a tanti errori filosofici da Platone a Kant e da Kant a tanti filosofi moderni), sia per spiegare la genuina natura della nostra cognizione, che non è un mero specchio in cui passivamente è riprodotta la realtà, ma è cognizione attiva, attività però che non è creazione o deformazione dell'oggetto, ma verace apprendimento dell'oggetto secondo la natura del conoscente.

5. Alla formazione dei primi concetti segue naturalmente l'intuizione dei primi principi (di contraddizione, di ragion sufficiente, di causalità, ecc.) che perciò sono reali e oggettivi, non vuoti schematismi mentali. Infatti, accennando per ora solo al principio di non contraddizione  , per reale necessità ciò che è, mentre è, non può non essere, il no e il sì sono incompatibili nello stesso oggetto, sotto il medesimo rispetto, e la mente l'afferma non per bisogno che essa abbia di pensare così, ma per necessità intrinseca delle cose che alla mente si impongono.

6. Dopo l'intuizione dei primi principi la mente procede nella ricerca della verità per via di ragionamento deduttivo e induttivo: ragionamento deduttivo quando da giudizi più universali scende a conclusioni più particolari; ragionamento induttivo quando invece dal particolare passa all'affermazione universale, dopo avere con l'esperimento conosciuto ciò che appartiene all'essenza di un oggetto, per es. di un uomo, e fondandosi sulla necessaria verità che ciò che appartiene alla natura di un oggetto si verifica in tutti gli oggetti della stessa specie: se l'uomo di natura sua è mortale, tutti gli uomini necessariamente sono mortali; e se è della natura dell'acqua bollire a cento gradi, tutta e sempre l'acqua bollirà a cento gradi. L'induzione ha particolare importanza nelle scienze, le quali - col moltiplicarsi delle esperienze - arrivano non solo a semplici ipotesi, ma anche a conoscenze certe della realtà: non solo a formulare leggi semplicemente statistiche, ma anche alla conoscenza di vere leggi naturali.

7. Dalla genesi dei nostri concetti e dalla natura dell'essere intelligente umano, composto di anima e di corpo, consegue che l'oggetto proporzionato alla nostra intelligenza è la natura delle cose sensibili. Delle cose spirituali che trascendono i sensi, la nostra mente non può averne concetto immediato e adeguato; può però conoscerne con certezza l'esistenza per il rapporto che esse hanno con le cose sensibili, e della loro natura si può formare un concetto analogo.

Così a poco a poco si è venuto costruendo il grande edificio delle scienze e della filosofia, frutto del laborioso travaglio delle più elette intelligenze umane, prezioso patrimonio dell'umanità che le nuove generazioni devono continuare e perfezionare per trasmetterlo sviluppato e arricchito alle future generazioni.

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La fede       

La differenza fra fede e opinione dipende dal fatto che, nel caso della fede - umana e soprannaturale - la volontà muove l'intelletto ad asserire con certezza, senza il timore che sia vera l'opinione contraria, fondandosi sulla testimonianza e l'autorità di un altro m.

Non bisogna confondere la fede con la credenza la quale, nel linguaggio ordinario, viene assimilata all'opinione. Si dice, ad esempio: “Credo che Maria sia uscita, ma non ne sono sicuro”; dove il termine “credo” equivale a “opino” o “mi pare”.

 

 Certezza di fede ed evidenza

Nella fede non vi è, a differenza che nell'opinione, il timore di sbagliarsi. Pertanto, dal punto di vista della sua fermezza, la fede è un tipo di certezza. La certezza, infatti, si può distinguere in certezza di evidenza, fondata sulla manifestazione obiettiva della verità, o certezza di fede, basata sull'autorità di un testimone, manifestata dall'evidenza della sua credibilità. Dal punto di vista dell'essenza del conoscere, la prima è sempre più perfetta della seconda; tuttavia, la certezza di fede, nonostante l'oscurità della conoscenza, può essere più perfetta quanto alla fermezza dell'ade­sione.

 

 La libertà della fede

La certezza di fede è libera perché dipende dalla volontà; mentre la certezza di evidenza è libera soltanto indirettamente, in quanto cioè vi è la libertà di prendere in considerazione o meno ciò che è evidente. La caratteristica di libertà della certezza di fede si manifesta nel modo seguente: conosciuta l'autorità del testimone per l'evidenza della sua credibilità, e conosciuta la sua testimo­nianza intorno ad una verità, la mente non si sente ancora trascinare all'assenso. Solo la volontà si dispone a muovere l'intel­letto all'assenso, poiché in quelle circostanze, il credere si presenta come un bene per l'uomo. Siccome però tale bene non è assoluto, ma particolare, la volontà non ne viene necessariamente attratta: essa può portare l'attenzione dell'intelletto altrove e impedire così l'assenso.

Chi crede ha dei motivi sufficienti che lo inducono a credere: non crede senza fondamento. Tuttavia, non è l'oggetto che causa l'adesione dell'intelligenza; per questo vi è sempre la libertà di assentire o meno. E ciò vale anche nel caso della testimonianza di un testimone senz'altro credibile: ad esempio, le verità rivelate da Dio e non evidenti, di per se stesse non possono muovere l'intellet­to all'assenso.

 

 La credibilità

In definitiva, si crede qualcosa perché si vede che la scienza e la veracità del testimone ne garantiscono la verità (evidenza di credibilità). Credere a qualcosa è sempre anche credere a qualcuno. Si noti che noi accogliamo un gran numero di verità naturali sulla base di testimonianze altrui: la maggior, parte delle notizie, delle descrizioni geografiche, delle vicende storiche, delle conclusioni scientifiche che non sono alla portata di una personale sperimenta­zione. ecc. Inoltre, molte verità che ora ci appaiono evidenti, le abbiamo accolte in precedenza prestando fede a persone dotate di maggiore esperienza e di più elevata sapienza. Diffidare sistemati­camente di tutto ciò che ci viene proposto di credere, significa limitare drasticamente il nostro bagaglio di cognizioni e rendere impossibile la nostra vita nella società. Il sospetto assunto come metodo non porta a nulla.

A volte, quando si conoscono bene le qualità del testimone e concordano fra loro testimonianze diverse, l'influenza della volontà è di scarso rilievo; tuttavia, la decisione è sempre necessaria. Certamente l'atto di fede è formalmente intellettivo, non volitivo o emotivo; e non è meno ovvio che, affinché uno possa credere, è necessario che un altro sa ia Tuttavia nel soggetto che crede, la fede in ultimo termine si basa sul suo volere e non sul suo sapere. Come diceva Newman, “crediamo perché amiamo”.

 

 La Fede soprannaturale

Nella Fede soprannaturale si credono le verità divine predicate da uomini che offrono certe garanzie di essere stati inviati da Dio per comunicare tali verità. Ma, in realtà, è Dio stesso che parla al credente attraverso lo strumento umano. L'accoglimento della parola di Dio porta con sé un decisivo impegno esistenziale: perciò esso presuppone la retta disposizione della volontà verso il bene. Inoltre, in quanto si tratta di verità e beni soprannaturali, che quindi trascendono la capacità umana, l'intelligenza necessita dell'azione illuminante del lumen fidei e la volontà della mozione della grazia soprannaturale. “Il credere, dice S. Tommaso, è l'atto dell'intelletto che assente alla verità divina, imperato dalla

volontà mossa da Dio mediante la grazia”.

Per la Fede si crede alla stessa Verità prima, la quale è infallibile e, pertanto è più stabile della luce dell'intelletto umano. Ne segue che la Fede gode di una certezza maggiore - in quanto a fermezza di adesione - della scienza o dei primi principi, pur avendo un'evidenza minore. La forza con cui il credente assente alle verità di fede è persino superiore a quella con cui riconosce i principi primi della ragione. Tanta intima sicurezza dell'uomo di Fede nell'aderire a verità razionalmente non evidenti, è il parados­so di un'oscura chiarezza, che può essere a malapena percepito da chi non è disposto a ricevere il dono di una certezza che lo elevi al di sopra di se stesso.

 

 L'errore

 

. Nescienza, ignoranza ed errore

Innanzi tutto è necessario distinguere fra nescienza, ignoranza ed errore. La nescienza è la semplice assenza del sapere. L'igno­ranza aggiunge un'ulteriore caratteristica alla pura mancanza di conoscenza: essa è infatti la privazione di un sapere per il quale si possiede un'attitudine naturale. Infine, l'errore consiste nell'affer­mare come vero il falso. Pertanto, paragonato all'ignoranza, l'erro­re aggiunge un nuovo atto; si può infatti essere ignorante senza affermare qualcosa intorno a ciò che si ignora, e in tal caso non si sbaglia; invece l'errore consiste nel formulare un giudizio falso intorno a ciò che si ignora.

 

 La falsità

E’ chiaro che il falso si contrappone al vero. Sappiamo già che “dire che non è ciò che è, o che è ciò che non è, è falso; e dire che è ciò che è, e che non è ciò che non è, è vero” . Se la verità è adeguazione dell'intelletto con la realtà, la falsità è proprio la loro inadeguazione.

Il bene dell'intelletto è la conoscenza della verità. Di conse­guenza, gli abiti che perfezionano l'intelletto in quanto conosce si chiamano anche “virtù” (dianoetiche), poiché facilitano alla mente la realizzazione di atti buoni. La falsità, invece, non è soltanto carenza di verità, ma ne è anche la corruzione. Infatti, è diversa la disposizione di colui che è del tutto privo della conoscenza della verità, da quella di chi ha una opinione falsa, la cui valutazione dei fatti è contaminata dall'errore. Come la verità è il bene dell'intelletto, la falsità è il suo male. San Tommaso arriva a dire che la falsità negli esseri conoscenti è paragonabile sul piano fisico al mostruoso: qualcosa che non appartiene alla fine dell'intelligenza, la quale è di per sé ordinata alla verità.

 

 La falsità si dà soltanto nella mente

Come la verità anche la falsità è presente principalmente nella mente. Ma, mentre riconosciamo nelle cose una verità ontologica, non è possibile parlare di “falsità ontologica”. A rigore di termi­ni, le cose non possono essere false, perché omne ens est verum. Nonostante che alcuni propugnino la “filosofia del sospetto”, sta di fatto che le cose sono sempre identiche a se stesse, non hanno alcuna spaccatura interna che ne renderebbe impossibile una coe­rente percezione. Ciò nonostante, la realtà non appare all'uomo in tutta la sua pienezza: nel fenomeno ci si dà l'essere, ma questi non si esaurisce nel suo mostrarsi, ha in sé un plus di realtà, che va al di là del fenomeno. Ciò rende possibile che alcune cose appaiano ad un soggetto determinato come in realtà non sono, dando luogo, pertanto, all'errore: vengono dette, allora, “false”. Si parla, ad esempio, di una “moneta falsa” perché, sebbene essa sia un autentico disco di metallo coniato, è priva di corso legale.

Può essere formalmente falso soltanto il giudizio della mente. Secondo Tommaso d'Aquino, la falsità dipende dal procedere difettoso del pensiero, così come un parto mostruoso dipende da un difetto della natura. Nell'ambito conoscitivo, il male è l'errore, il quale sta nell'intelletto e non nella realtà. Da questo segue che ogni valutazione erronea deriva dal difetto di qualche principio conoscitivo.

Nell'uomo, l'errore segue spesso a un ragionamento scorretto, nel quale la conclusione falsa non è un'attualizzazione adeguata di ciò che è potenzialmente contenuto in premesse vere. Invece, ciò che è sempre in atto sfugge all'errore. Non vi può essere errore nell'astrazione delle essenze, ottenuta grazie alla luce intenzionale - sempre in atto - dell'intelletto agente: “quelli che astrag­gono non mentono”; in modo naturale, l'intelletto agente penetra con sicurezza la natura delle cose, anche se non ne può pienamen­te comprendere la loro realtà più intima. È possibile invece l'errore dove vi sia passaggio dalla potenza all'atto; infatti, ciò che è in potenza è suscettibile di perfezione o di privazione.

Come ogni male, anche la falsità non si dà di per sé, poiché l'intelligenza tende naturalmente a raggiungere il proprio fine, cioè la conoscenza della verità. Solo per accidens può sbagliarsi, analogamente a quanto avviene negli esseri non spirituali, i quali di solito realizzano il proprio fine e soltanto talvolta vi vengono meno.

 

 L'errore come privazione

Da quanto detto si deduce che non esiste positivamente l'errore: nessuno conosce propriamente il falso; piuttosto, non conosce il vero. L'errore, ripetiamo, è una privazione. La conoscenza falsa è un'anomalia della conoscenza, un male naturale, che viene meno al­la propria regola di adeguazione con la realtà, così come un atto umano che non rispetti i principi etici è moralmente cattivo.

L'errore consiste in una mancanza di conoscenza: non deriva da dati ben conosciuti, sorge perché questi mancano e non ci si rende conto della loro assenza'. Nel giudizio erroneo si prende la parte (ciò che si conosce) per il tutto, cioè per la conoscenza completa o almeno per quella sufficiente a dare un giudizio vero. Si ha allora un'apparenza, nella quale ciò che è sbagliato sembra vero. È  ovvio che non si debba confondere la nozione di apparenza con quella di fenomeno: mentre quest'ultimo, infatti, si riferisce ad una parziale manifestazione dell'essere, quella si riferisce invece al suo parziale occultamento. L'errore consiste, dunque, nell'abbandonarsi alle ap­parenze: non nasce in seguito a una qualche evidenza, ma perché non si prende in considerazione ciò che è necessario alla formula­zione di un giudizio. Come facevamo già notare, l'errore si può presentare a conclusioni di un ragionamento non corretto; altre volte dipende dall'accettazione di una testimonianza falsa.

Oltre all'errore teoretico esiste anche l'errore pratico. La ragione realizza, infatti, i principali tipi di atto: quello essenzia­le, intorno al suo proprio oggetto; e l'altro, in quanto dirige le altre potenze. L'errore pratico si produce in questa seconda specie di atti, quando cioè gli orientamenti della volontà e delle facoltà inferiori non si adeguano alla regola morale proposta dalla ragione e, quindi, alla realtà.

L'intelligenza per se stessa non può sbagliare. Come qualsiasi ente ha l'essere relativo alla propria forma, così anche la facoltà conoscitiva ha l'atto di conoscere relativo alla similitudine della cosa conosciuta. Orbene, un ente di natura non può mancare dell'essere che gli spetta secondo la propria forma, tuttavia può essere privo di alcune cose accidentali o complementari: un uomo può non avere i due occhi, ma non può cessare di essere uomo. In modo simile, la potenza conoscitiva non può sbagliare nell'atto di conoscere quanto alla similitudine della cosa da cui è informata, anche se può errare rispetto a ciò che è accidentale o da essa derivato. La vista, ad esempio, non si sbaglia riguardo al sensibile proprio, anche se a volte può cadere in errore rispetto ai sensibili comuni e a quelli per accidens. Nel caso dell'intelligenza avviene quanto segue: come il sensibile proprio informa direttamente il senso, così anche l'intelletto viene informato dalla similitudine dell'essenza della cosa. Pertanto, l'intelletto non si sbaglia intorno a ciò che è; ma può cadere in errore nell'atto di comporre e dividere, cioè di giudicare, poiché può attribuire alla cosa, di cui conosce l'essenza, qualcosa di improprio o ad essa opposto.

 

 Il riconoscimento della falsità

L'intelligenza, inoltre, può conoscere la falsità. Allo stesso modo che, per una certa riflessione, ci rendiamo conto della verità di un giudizio, sempre per riflessione possiamo mettere in evidenza la falsità, e così, riconosciutala, possiamo uscire dall'errore. “Ciò che si manifesta in modo evidente e obiettivo nel fatto di correg­gersi è l'evidente nella sua stessa evidenza e l'apparente secondo la propria apparenza”.

C'è dell'inavvertenza nell'errore, manca cioè una riflessione che invece dovrebbe esserci. Tale assenza di attenzione è dovuta alle sollecitazioni, a volte molto forti, dei sensi, all'eccessiva fretta, alle dimenticanze, alla stanchezza, ecc. In fin dei conti, la possibilità dell'errore rivela i limiti della condizione umana: si tratta di un evento specificamente umano al quale i bruti non arrivano e nel quale gli angeli non cadono. Inoltre, la nostra stessa costituzione psicosomatica fa sì che non siamo pienamen­te consapevoli dei limiti della nostra conoscenza, e quindi è possibile che a volte giudichiamo intorno a un problema senza renderci conto che non lo conosciamo sufficientemente.

 

 La causa dell'errore

La falsità, essendo una privazione, non ha una causa efficien­te, ma difettiva. L'errore, invece, in quanto è un giudizio, esige una causa efficiente.

Poiché il giudizio falso non è dovuto all'evidenza, la sua causa si trova spesso nella facoltà intellettuale che muove l'intelletto, cioè la volontà. Questa non vuole l'errore per sé stesso, poiché ciò comporterebbe l'averlo già riconosciuto come errore, ma soltanto in quanto il giudizio corrispondente appare come un bene, poiché si presenta come la meta della ricerca della verità.

Voler giudicare senza evidenza è una forma, per quanto piccola, di presunzione. Una tale decisione può essere più o meno deliberata, e secondo i casi può essere diversa la fermezza dell'adesione all'errore, nella quale sono compresi, soggettiva­mente, i diversi stati della mente, da noi già esaminati (certezza, opinione, ecc.). La volontà, per indurre all'assenso l'intelletto, lo porta a concentrarsi su alcuni aspetti della cosa, reali ma incompleti, o su alcune apparenze. Quando la volontà si o­rienta al male, è perché lo ritiene un bene e, pertanto, presup­pone un errore nell'intelligenza'; ma tale errore, a sua volta, è causato dalla volontà, la quale fa giudicare buono ciò ch'essa vuole in quel momento, a motivo di una passione o di un abito cattivo.

In un certo senso, lo stesso dubbio può essere già un errore. Il dubbio non è una meta desiderabile e, a volte, non e nemmeno legittimo come situazione iniziale, scientifica o pre­scientifica, perché la retta disposizione del soggetto dovrebbe portare all'accettazione delle certezze che inizialmente gli sono date, anche se deve sempre sforzarsi di passare dall'oscurità alla luce. Quando si ignora tutto intorno a un determinato argomen­to, la posizione iniziale è quella dell'ignoranza, ben diversa da quella del dubbio: in quella infatti la mente riconosce di non sapere, in questa sembra propendere già verso la negazione.

Da quel che abbiamo appena detto, segue che, almeno in questioni di rilevanza esistenziale, le disposizioni morali del soggetto hanno una grande importanza per raggiungere la verità ed evitare l'errore. Se dobbiamo ricercare soltanto i nostri interessi personali, come sembrano ritenere alcune teorie gno­seologiche contemporanee, ci faremo dominare facilmente dalle apparenze che consideriamo convenienti ai nostri propositi. Se, invece, ricerchiamo il bene in se stesso rimarrà aperta, anche se sempre stretta, la via verso la verità, la quale, come il bene, trova il proprio fondamento nell'essere reale.

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