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ELIMINAZIONE DEI PREGIUDIZI (schema lezione)

 

Dobbiamo cercare di vedere le cose senza alcun preconcetto, usiamo così il metodo critico che è un atteggiamento dello spirito più che un vero e proprio metodo scientifico.

Esso ricerca senza presupporre niente.

Questa non è una banalità.

Il metodo critico secondo alcuni è inattuabile perché è impossibile che uno si spogli delle sue persuasioni.

Questo è vero, ma possiamo metterle fra parentesi (epoche).

Chi ha fede (la sua ricerca ha ricevuto una risposta) può ancora cercare: certo, poiché chi ha fede non è un uomo disimpegnato con la filosofia.

 

L’evidenza è un vedere le cose come stanno. Contro l’evidenza si scaglia lo scetticismo che sostiene che non esiste alcuna verità poiché il cercatore (skeptikos), non l’ha trovata.

Ma così com’è insostenibile la posizione scettica, tanto è insostenibile chi presupponga di conoscere la verità assolutamente (dogmatismo esagerato: affermazione presupposta alla ricerca filosofica, di conoscere la verità).

Conoscenza della verità

Così com’è insostenibile la posizione scettica, tanto è insostenibile chi presupponga di conoscer la verità (dogmatismo esasperato: affermazione presupposta alla ricerca filosofica, di conoscere la verità).

Fenomenologia della conoscenza

Come conosciamo la conoscenza?

  1. Abbiamo esperienza immediata della conoscenza? No.

Infatti vediamo le cose colorate, non vediamo il vedere. Noi sappiamo di conoscere per riflessione: l’autocoscienza è una coscienza riflessa.

  1. Come arriviamo a formarci il concetto di conoscenza?

Dobbiamo distinguere fra realtà che hanno un’identità fisica (i miei sentimenti) e le realtà che hanno un’identità intenzionale (il rosso che vedo, la radio che sento). La conoscenza consiste nell’identità intenzionale. Abbiamo coscienza di conoscere perché abbiamo coscienza di queste due diverse unità: non possiamo dire nostre (come sentimento) certe realtà che sono altro da noi.

Ecco, la presenza di altro da noi è la conoscenza.

Adesso si capisce che non si coglie il conoscere ma solo l’oggetto conosciuto.

  1. Dobbiamo dunque distinguere fra l’atto del conoscere e l’oggetto conosciuto. Per questo è falso dire che tutto ciò che si conosce è nella coscienza (idealismo).

Teoria della conoscenza e critica della conoscenza

  1. Non si dimostra la verità della conoscenza in generale.
    1. Non si può dimostrare l’esistenza delle cose in generale, perché l’esistenza di ciò che è conosciuto non ha bisogno di dimostrazioni, appunto perché è immediatamente colta.

Per ciò che non è immediatamente colto non c’è una chiave miracolosa che ci da il potere di un’assoluta evidenza, evitando la fatica di studiare ogni cosa, di far il processo critico di ogni singola scienza (teologia naturale, cosmologia etc.).

L’illusione che ci sia un’unica scienza che possa dare la garanzia a tutte le nostre certezze deriva da due motivi:

            Dal fatto che si è affascinati dal mondo esterno

            Dall’illusione che si possa risolvere il problema dell’esistenza dei corpi senza che si determini la natura, l’essenza.

Facciamo un esempio per spiegarci (riguardo al primo motivo): dell’esistenza di Dio e dell’anima, si deve occupar la metafisica  non la teoria della conoscenza mentre dell’esistenza dei corpi esterni occorre la teoria della conoscenza; non si capisce perché questa disparità di trattamento. Come si diceva prima il mondo esterno pone dei problemi.

Riguardo al secondo motivo cioè l’illusione di poter risolvere il problema dell’esistenza del mondo esterno senza indicarne la natura.

E’ un’illusione perché si ammette che spetti alle scienze dire quale sia la natura delle erbe, degli animali etc., Ma che un mondo di corpi esista dovrebbe essere compito della teoria della conoscenza.

ORA per dimostrar che esiste qualcosa debbo affermare che cosa esiste.

La dimostrazione dell’esistenza delle cose può essere data soltanto in particolare dalle scienze che studiano la realtà.

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La fede       

La differenza fra fede e opinione dipende dal fatto che, nel caso della fede - umana e soprannaturale - la volontà muove l'intelletto ad asserire con certezza, senza il timore che sia vera l'opinione contraria, fondandosi sulla testimonianza e l'autorità di un altro.

Non bisogna confondere la fede con la credenza la quale, nel linguaggio ordinario, viene assimilata all'opinione. Si dice, ad esempio: “Credo che Maria sia uscita, ma non ne sono sicuro”; dove il termine “credo” equivale a “opino” o “mi pare”.

 

 Certezza di fede ed evidenza

Nella fede non vi è, a differenza che nell'opinione, il timore di sbagliarsi. Pertanto, dal punto di vista della sua fermezza, la fede è un tipo di certezza. La certezza, infatti, si può distinguere in certezza di evidenza, fondata sulla manifestazione obiettiva della verità, o certezza di fede, basata sull'autorità di un testimone, manifestata dall'evidenza della sua credibilità. Dal punto di vista dell'essenza del conoscere, la prima è sempre più perfetta della seconda; tuttavia, la certezza di fede, nonostante l'oscurità della conoscenza, può essere più perfetta quanto alla fermezza dell'adesione.

 

 La libertà della fede

La certezza di fede è libera perché dipende dalla volontà; mentre la certezza di evidenza è libera soltanto indirettamente, in quanto cioè vi è la libertà di prendere in considerazione o meno ciò che è evidente. La caratteristica di libertà della certezza di fede si manifesta nel modo seguente: conosciuta l'autorità del testimone per l'evidenza della sua credibilità, e conosciuta la sua testimo­nianza intorno ad una verità, la mente non si sente ancora trascinare all'assenso. Solo la volontà si dispone a muovere l'intel­letto all'assenso, poiché in quelle circostanze, il credere si presenta come un bene per l'uomo. Siccome però tale bene non è assoluto, ma particolare, la volontà non ne viene necessariamente attratta: essa può portare l'attenzione dell'intelletto altrove e impedire così l'assenso.

Chi crede ha dei motivi sufficienti che lo inducono a credere: non crede senza fondamento. Tuttavia, non è l'oggetto che causa l'adesione dell'intelligenza; per questo vi è sempre la libertà di assentire o meno. E ciò vale anche nel caso della testimonianza di un testimone senz'altro credibile: ad esempio, le verità rivelate da Dio e non evidenti, di per se stesse non possono muovere l'intellet­to all'assenso.

 

 La credibilità

In definitiva, si crede qualcosa perché si vede che la scienza e la veracità del testimone ne garantiscono la verità (evidenza di credibilità). Credere a qualcosa è sempre anche credere a qualcuno. Si noti che noi accogliamo un gran numero di verità naturali sulla base di testimonianze altrui: la maggior, parte delle notizie, delle descrizioni geografiche, delle vicende storiche, delle conclusioni scientifiche che non sono alla portata di una personale sperimenta­zione. ecc. Inoltre, molte verità che ora ci appaiono evidenti, le abbiamo accolte in precedenza prestando fede a persone dotate di maggiore esperienza e di più elevata sapienza. Diffidare sistemati­camente di tutto ciò che ci viene proposto di credere, significa limitare drasticamente il nostro bagaglio di cognizioni e rendere impossibile la nostra vita nella società. Il sospetto assunto come metodo non porta a nulla.

A volte, quando si conoscono bene le qualità del testimone e concordano fra loro testimonianze diverse, l'influenza della volontà è di scarso rilievo; tuttavia, la decisione è sempre necessaria. Certamente l'atto di fede è formalmente intellettivo, non volitivo o emotivo; e non è meno ovvio che, affinché uno possa credere, è necessario che un altro sa ia Tuttavia nel soggetto che crede, la fede in ultimo termine si basa sul suo volere e non sul suo sapere. Come diceva Newman, “crediamo perché amiamo”.

 

 La Fede soprannaturale

Nella Fede soprannaturale si credono le verità divine predicate da uomini che offrono certe garanzie di essere stati inviati da Dio per comunicare tali verità. Ma, in realtà, è Dio stesso che parla al credente attraverso lo strumento umano. L'accoglimento della parola di Dio porta con sé un decisivo impegno esistenziale: perciò esso presuppone la retta disposizione della volontà verso il bene. Inoltre, in quanto si tratta di verità e beni soprannaturali, che quindi trascendono la capacità umana, l'intelligenza necessita dell'azione illuminante del lumen fidei e la volontà della mozione della grazia soprannaturale. “Il credere, dice S. Tommaso, è l'atto dell'intelletto che assente alla verità divina, imperato dalla

volontà mossa da Dio mediante la grazia”.

Per la Fede si crede alla stessa Verità prima, la quale è infallibile e, pertanto è più stabile della luce dell'intelletto umano. Ne segue che la Fede gode di una certezza maggiore - in quanto a fermezza di adesione - della scienza o dei primi principi, pur avendo un'evidenza minore. La forza con cui il credente assente alle verità di fede è persino superiore a quella con cui riconosce i principi primi della ragione. Tanta intima sicurezza dell'uomo di Fede nell'aderire a verità razionalmente non evidenti, è il parados­so di un'oscura chiarezza, che può essere a malapena percepito da chi non è disposto a ricevere il dono di una certezza che lo elevi al di sopra di se stesso.

 

 L'errore

 

. Nescienza, ignoranza ed errore

Innanzi tutto è necessario distinguere fra nescienza, ignoranza ed errore. La nescienza è la semplice assenza del sapere. L'igno­ranza aggiunge un'ulteriore caratteristica alla pura mancanza di conoscenza: essa è infatti la privazione di un sapere per il quale si possiede un'attitudine naturale. Infine, l'errore consiste nell'affer­mare come vero il falso. Pertanto, paragonato all'ignoranza, l'erro­re aggiunge un nuovo atto; si può infatti essere ignorante senza affermare qualcosa intorno a ciò che si ignora, e in tal caso non si sbaglia; invece l'errore consiste nel formulare un giudizio falso intorno a ciò che si ignora.

 

 La falsità

E’ chiaro che il falso si contrappone al vero. Sappiamo già che “dire che non è ciò che è, o che è ciò che non è, è falso; e dire che è ciò che è, e che non è ciò che non è, è vero” . Se la verità è adeguazione dell'intelletto con la realtà, la falsità è proprio la loro inadeguazione.

Il bene dell'intelletto è la conoscenza della verità. Di conse­guenza, gli abiti che perfezionano l'intelletto in quanto conosce si chiamano anche “virtù” (dianoetiche), poiché facilitano alla mente la realizzazione di atti buoni. La falsità, invece, non è soltanto carenza di verità, ma ne è anche la corruzione. Infatti, è diversa la disposizione di colui che è del tutto privo della conoscenza della verità, da quella di chi ha una opinione falsa, la cui valutazione dei fatti è contaminata dall'errore. Come la verità è il bene dell'intelletto, la falsità è il suo male. San Tommaso arriva a dire che la falsità negli esseri conoscenti è paragonabile sul piano fisico al mostruoso: qualcosa che non appartiene alla fine dell'intelligenza, la quale è di per sé ordinata alla verità.

 

 La falsità si dà soltanto nella mente

Come la verità anche la falsità è presente principalmente nella mente. Ma, mentre riconosciamo nelle cose una verità ontologica, non è possibile parlare di “falsità ontologica”. A rigore di termini, le cose non possono essere false, perché omne ens est verum. Nonostante che alcuni propugnino la “filosofia del sospetto”, sta di fatto che le cose sono sempre identiche a se stesse, non hanno alcuna spaccatura interna che ne renderebbe impossibile una coerente percezione. Ciò nonostante, la realtà non appare all'uomo in tutta la sua pienezza: nel fenomeno ci si dà l'essere, ma questi non si esaurisce nel suo mostrarsi, ha in sé un plus di realtà, che va al di là del fenomeno. Ciò rende possibile che alcune cose appaiano ad un soggetto determinato come in realtà non sono, dando luogo, pertanto, all'errore: vengono dette, allora, “false”. Si parla, ad esempio, di una “moneta falsa” perché, sebbene essa sia un autentico disco di metallo coniato, è priva di corso legale.

Può essere formalmente falso soltanto il giudizio della mente. Secondo Tommaso d'Aquino, la falsità dipende dal procedere difettoso del pensiero, così come un parto mostruoso dipende da un difetto della natura. Nell'ambito conoscitivo, il male è l'errore, il quale sta nell'intelletto e non nella realtà. Da questo segue che ogni valutazione erronea deriva dal difetto di qualche principio conoscitivo.

Nell'uomo, l'errore segue spesso a un ragionamento scorretto, nel quale la conclusione falsa non è un'attualizzazione adeguata di ciò che è potenzialmente contenuto in premesse vere. Invece, ciò che è sempre in atto sfugge all'errore. Non vi può essere errore nell'astrazione delle essenze, ottenuta grazie alla luce intenzionale - sempre in atto - dell'intelletto agente: “quelli che astraggono non mentono”; in modo naturale, l'intelletto agente penetra con sicurezza la natura delle cose, anche se non ne può pienamen­te comprendere la loro realtà più intima. È possibile invece l'errore dove vi sia passaggio dalla potenza all'atto; infatti, ciò che è in potenza è suscettibile di perfezione o di privazione.

Come ogni male, anche la falsità non si dà di per sé, poiché l'intelligenza tende naturalmente a raggiungere il proprio fine, cioè la conoscenza della verità. Solo per accidens può sbagliarsi, analogamente a quanto avviene negli esseri non spirituali, i quali di solito realizzano il proprio fine e soltanto talvolta vi vengono meno.

 

 L'errore come privazione

Da quanto detto si deduce che non esiste positivamente l'errore: nessuno conosce propriamente il falso; piuttosto, non conosce il vero. L'errore, ripetiamo, è una privazione. La conoscenza falsa è un'anomalia della conoscenza, un male naturale, che viene meno al­la propria regola di adeguazione con la realtà, così come un atto umano che non rispetti i principi etici è moralmente cattivo.

L'errore consiste in una mancanza di conoscenza: non deriva da dati ben conosciuti, sorge perché questi mancano e non ci si rende conto della loro assenza'. Nel giudizio erroneo si prende la parte (ciò che si conosce) per il tutto, cioè per la conoscenza completa o almeno per quella sufficiente a dare un giudizio vero. Si ha allora un'apparenza, nella quale ciò che è sbagliato sembra vero. È  ovvio che non si debba confondere la nozione di apparenza con quella di fenomeno: mentre quest'ultimo, infatti, si riferisce ad una parziale manifestazione dell'essere, quella si riferisce invece al suo parziale occultamento. L'errore consiste, dunque, nell'abbandonarsi alle ap­parenze: non nasce in seguito a una qualche evidenza, ma perché non si prende in considerazione ciò che è necessario alla formula­zione di un giudizio. Come facevamo già notare, l'errore si può presentare a conclusioni di un ragionamento non corretto; altre volte dipende dall'accettazione di una testimonianza falsa.

Oltre all'errore teoretico esiste anche l'errore pratico. La ragione realizza, infatti, i principali tipi di atto: quello essenzia­le, intorno al suo proprio oggetto; e l'altro, in quanto dirige le altre potenze. L'errore pratico si produce in questa seconda specie di atti, quando cioè gli orientamenti della volontà e delle facoltà inferiori non si adeguano alla regola morale proposta dalla ragione e, quindi, alla realtà.

L'intelligenza per se stessa non può sbagliare. Come qualsiasi ente ha l'essere relativo alla propria forma, così anche la facoltà conoscitiva ha l'atto di conoscere relativo alla similitudine della cosa conosciuta. Orbene, un ente di natura non può mancare dell'essere che gli spetta secondo la propria forma, tuttavia può essere privo di alcune cose accidentali o complementari: un uomo può non avere i due occhi, ma non può cessare di essere uomo. In modo simile, la potenza conoscitiva non può sbagliare nell'atto di conoscere quanto alla similitudine della cosa da cui è informata, anche se può errare rispetto a ciò che è accidentale o da essa derivato. La vista, ad esempio, non si sbaglia riguardo al sensibile proprio, anche se a volte può cadere in errore rispetto ai sensibili comuni e a quelli per accidens. Nel caso dell'intelligenza avviene quanto segue: come il sensibile proprio informa direttamente il senso, così anche l'intelletto viene informato dalla similitudine dell'essenza della cosa. Pertanto, l'intelletto non si sbaglia intorno a ciò che è; ma può cadere in errore nell'atto di comporre e dividere, cioè di giudicare, poiché può attribuire alla cosa, di cui conosce l'essenza, qualcosa di improprio o ad essa opposto.

 

 Il riconoscimento della falsità

L'intelligenza, inoltre, può conoscere la falsità. Allo stesso modo che, per una certa riflessione, ci rendiamo conto della verità di un giudizio, sempre per riflessione possiamo mettere in evidenza la falsità, e così, riconosciutala, possiamo uscire dall'errore. “Ciò che si manifesta in modo evidente e obiettivo nel fatto di correggersi è l'evidente nella sua stessa evidenza e l'apparente secondo la propria apparenza”.

C'è dell'inavvertenza nell'errore, manca cioè una riflessione che invece dovrebbe esserci. Tale assenza di attenzione è dovuta alle sollecitazioni, a volte molto forti, dei sensi, all'eccessiva fretta, alle dimenticanze, alla stanchezza, ecc. In fin dei conti, la possibilità dell'errore rivela i limiti della condizione umana: si tratta di un evento specificamente umano al quale i bruti non arrivano e nel quale gli angeli non cadono. Inoltre, la nostra stessa costituzione psicosomatica fa sì che non siamo pienamen­te consapevoli dei limiti della nostra conoscenza, e quindi è possibile che a volte giudichiamo intorno a un problema senza renderci conto che non lo conosciamo sufficientemente.

 

 La causa dell'errore

La falsità, essendo una privazione, non ha una causa efficien­te, ma difettiva. L'errore, invece, in quanto è un giudizio, esige una causa efficiente.

Poiché il giudizio falso non è dovuto all'evidenza, la sua causa si trova spesso nella facoltà intellettuale che muove l'intelletto, cioè la volontà. Questa non vuole l'errore per sé stesso, poiché ciò comporterebbe l'averlo già riconosciuto come errore, ma soltanto in quanto il giudizio corrispondente appare come un bene, poiché si presenta come la meta della ricerca della verità.

Voler giudicare senza evidenza è una forma, per quanto piccola, di presunzione. Una tale decisione può essere più o meno deliberata, e secondo i casi può essere diversa la fermezza dell'adesione all'errore, nella quale sono compresi, soggettiva­mente, i diversi stati della mente, da noi già esaminati (certezza, opinione, ecc.). La volontà, per indurre all'assenso l'intelletto, lo porta a concentrarsi su alcuni aspetti della cosa, reali ma incompleti, o su alcune apparenze. Quando la volontà si o­rienta al male, è perché lo ritiene un bene e, pertanto, presup­pone un errore nell'intelligenza'; ma tale errore, a sua volta, è causato dalla volontà, la quale fa giudicare buono ciò ch'essa vuole in quel momento, a motivo di una passione o di un abito cattivo.

In un certo senso, lo stesso dubbio può essere già un errore. Il dubbio non è una meta desiderabile e, a volte, non e nemmeno legittimo come situazione iniziale, scientifica o pre­scientifica, perché la retta disposizione del soggetto dovrebbe portare all'accettazione delle certezze che inizialmente gli sono date, anche se deve sempre sforzarsi di passare dall'oscurità alla luce. Quando si ignora tutto intorno a un determinato argomen­to, la posizione iniziale è quella dell'ignoranza, ben diversa da quella del dubbio: in quella infatti la mente riconosce di non sapere, in questa sembra propendere già verso la negazione.

Da quel che abbiamo appena detto, segue che, almeno in questioni di rilevanza esistenziale, le disposizioni morali del soggetto hanno una grande importanza per raggiungere la verità ed evitare l'errore. Se dobbiamo ricercare soltanto i nostri interessi personali, come sembrano ritenere alcune teorie gnoseologiche contemporanee, ci faremo dominare facilmente dalle apparenze che consideriamo convenienti ai nostri propositi. Se, invece, ricerchiamo il bene in se stesso rimarrà aperta, anche se sempre stretta, la via verso la verità, la quale, come il bene, trova il proprio fondamento nell'essere reale.

 

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