Il
Crocifisso non è un sasso da lanciare (da L'Eco di Bergamo, 20/09/2002)
Adesso anche i Crocifissi fanno litigare. Se ne è parlato molto, troppo e
quindi sarebbe stato meglio non parlarne ancora. Ma, siccome sono stati i
politici a sequestrare il problema, è utile che anche i credenti ci ripensino.
Ma da credenti.
Ne aveva parlato il Papa, domenica scorsa, a Castelgandolfo. Il sabato prima, 14
settembre, ricorreva la festa liturgica dell'esaltazione della Croce. La festa
ricorda, come tutti sanno, l'antica tradizione secondo la quale Elena, madre
dell'imperatore Costantino, avrebbe scoperto a Gerusalemme la vera croce di
Cristo, poco dopo l'anno 320. Ricordando la festa e il valore cruciale del
Crocifisso come simbolo centrale di tutta la fede, il Papa ne aveva raccomandato
la venerazione: dunque ne aveva parlato come capo della Chiesa, a dei credenti,
in occasione di una festa liturgica. In quel contesto tutto si spiegava.
Quello che è venuto dopo – la proposta del ministro Moratti, il rilancio in
grande stile della Lega, le polemiche – si spiega molto di meno. Soprattutto
suonano strane proprio le affermazioni dei grandi difensori del Crocifisso. La
Lega Nord, in particolare, vorrebbe i crocifissi «in tutti i pubblici uffici e
le pubbliche amministrazioni della Repubblica»: così recita la legge
presentata dal partito di Bossi, primo firmatario il vicecapogruppo alla Camera,
Federico Bricolo.
La proposta è stata fatta come esplicita contrapposizione alla «tolleranza
degli intolleranti», come ha affermato lo stesso onorevole Bricolo, alludendo
esplicitamente ai musulmani.
Intanto è curioso che questa passione teologica di Bossi e dei suoi sia
scoppiata proprio all'indomani dell'attacco ai «vescovoni», colpevoli,
precisamente, di essere troppo tolleranti verso gli immigrati. È interessante
il diverso punto di vista della Chiesa, da una parte e della Lega, dall'altra.
Il partito di Bossi sostiene il Crocifisso come emblema della cultura
occidentale, i vescovi, invece, parlano dell'immigrazione.
La Lega lotta per un simbolo religioso; la Chiesa difende degli uomini.
Naturalmente, la posizione della Chiesa è discutibile. Ed è discussa, infatti.
Succede sempre quando, in nome della fede, la Chiesa arrischia affermazioni o
iniziative dentro gli intricati problemi della società. E il problema
dell'immigrazione è intricatissimo.
D'altronde, però, o il Crocifisso «dice» qualcosa degli uomini di oggi e
delle loro sofferenze o si rischia di far morire un'altra volta l'uomo che vi si
trova inchiodato.
Il credente sa che il suo Dio è morto ed è morto in croce. Quella morte è
segno di una straordinaria condiscendenza. In parole più semplici: «Dio ha
tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito»: è Gesù stesso che ne
parla così, nel capitolo terzo del Vangelo di Giovanni, nel suo lungo dialogo
con quell'intellettuale curioso che è Nicodemo.
«Dare» nel linguaggio biblico, significa, consegnare alla morte, lasciar
morire. La croce è segno di quel «dare», di quel «consegnarsi» di Dio. Dio
dà tutto, infatti e la croce è l'immagine struggente, inenarrabile di quel
dono.
Ma, come sempre, il dono dice molto ai destinatari, dice poco agli altri.
Per credere che nella croce Dio si dona agli uomini, bisogna credere a Dio,
anzitutto, e poi credere che si dona proprio in quel condannato a morte
straziato in un lontano venerdì, quando il cielo «si fece buio su tutta la
terra fino alle tre del pomeriggio».
Che cosa è rimasto, di tutto questo, nei Crocifissi collocati polemicamente
nelle stazioni e nelle aule giudiziarie? Poco, pochissimo. Il segno per
eccellenza dell'amore di Dio è diventato un proiettile da lanciare contro
qualcuno.
In questa vicenda le polemiche ci guadagnano molto. Le fede rischia di perderci
tutto.
Alberto Carrara