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BENEDETTO XVI |
Il veggente di Patmos
Cari fratelli e sorelle,
nell’ultima catechesi eravamo arrivati alla meditazione sulla figura
dell’apostolo Giovanni. Avevamo dapprima cercato di vedere quanto si può
sapere della sua vita. Poi, in una seconda catechesi, avevamo meditato il
contenuto centrale del suo Vangelo, delle sue Lettere: la carità, l’amore.
E oggi siamo ancora impegnati con la figura di Giovanni, questa volta per
considerare il Veggente dell’Apocalisse. E facciamo subito
un’osservazione: mentre né il Quarto Vangelo né le Lettere
attribuite all’Apostolo recano mai il suo nome, l’Apocalisse fa
riferimento al nome di Giovanni ben quattro volte (cfr 1,1.4.9; 22,8). E’
evidente che l’Autore, da una parte, non aveva alcun motivo per tacere il
proprio nome e, dall’altra, sapeva che i suoi primi lettori potevano
identificarlo con precisione. Sappiamo peraltro che, già nel III° secolo,
gli studiosi discutevano sulla vera identità anagrafica del Giovanni
dell’Apocalisse. Ad ogni buon fine, lo potremmo anche chiamare “il
Veggente di Patmos”, perché la sua figura è legata al nome di questa isola
del Mar Egeo, dove, secondo la sua stessa testimonianza autobiografica,
egli si trovava come deportato “a causa della parola di Dio e della
testimonianza di Gesù” (Ap 1,9). Proprio a Patmos, “rapito in
estasi nel giorno del Signore” (Ap 1,10), Giovanni ebbe delle
visioni grandiose e udì messaggi straordinari, che influiranno non poco
sulla storia della Chiesa e sull’intera cultura cristiana. Per esempio,
dal titolo del suo libro – Apocalisse, Rivelazione – furono
introdotte nel nostro linguaggio le parole “apocalisse, apocalittico”, che
evocano, anche se in modo improprio, l’idea di una catastrofe incombente.
Il libro va compreso sullo sfondo della drammatica esperienza delle sette Chiese d’Asia (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiàtira, Sardi, Filadelfia, Laodicéa), che sul finire del I° secolo dovettero affrontare difficoltà non lievi – persecuzioni e tensioni anche interne – nella loro testimonianza a Cristo. Ad esse Giovanni si rivolge mostrando viva sensibilità pastorale nei confronti dei cristiani perseguitati, che egli esorta a rimanere saldi nella fede e a non identificarsi con il mondo pagano, così forte. Il suo oggetto è costituito in definitiva dal disvelamento, a partire dalla morte e risurrezione di Cristo, del senso della storia umana. La prima e fondamentale visione di Giovanni, infatti, riguarda la figura dell’Agnello, che è sgozzato eppure sta ritto in piedi (cfr Ap 5,6), collocato in mezzo al trono dove già è assiso Dio stesso. Con ciò, Giovanni vuol dirci innanzitutto due cose: la prima è che Gesù, benché ucciso con un atto di violenza, invece di stramazzare a terra sta paradossalmente ben fermo sui suoi piedi, perché con la risurrezione ha definitivamente vinto la morte; l'altra è che lo stesso Gesù, proprio in quanto morto e risorto, è ormai pienamente partecipe del potere regale e salvifico del Padre. Questa è la visione fondamentale. Gesù, il Figlio di Dio, in questa terra è un Agnello indifeso, ferito, morto. E tuttavia sta dritto, sta in piedi, sta davanti al trono di Dio ed è partecipe del potere divino. Egli ha nelle sue mani la storia del mondo. E così il Veggente vuol dirci: abbiate fiducia in Gesù, non abbiate paura dei poteri contrastanti, della persecuzione! L’Agnello ferito e morto vince! Seguite l’Agnello Gesù, affidatevi a Gesù, prendete la sua strada! Anche se in questo mondo è solo un Agnello che appare debole, è Lui il vincitore!
Una delle principali visioni dell’Apocalisse ha per oggetto questo Agnello nell’atto di aprire un libro, prima chiuso con sette sigilli che nessuno era in grado di sciogliere. Giovanni è addirittura presentato nell’atto di piangere, perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo (cfr Ap 5,4). La storia rimane indecifrabile, incomprensibile. Nessuno può leggerla. Forse questo pianto di Giovanni davanti al mistero della storia così oscuro esprime lo sconcerto delle Chiese asiatiche per il silenzio di Dio di fronte alle persecuzioni a cui erano esposte in quel momento. E’ uno sconcerto nel quale può ben riflettersi il nostro sbigottimento di fronte alle gravi difficoltà, incomprensioni e ostilità che pure oggi la Chiesa soffre in varie parti del mondo. Sono sofferenze che la Chiesa certo non si merita, così come Gesù stesso non meritò il suo supplizio. Esse però rivelano sia la malvagità dell'uomo, quando si abbandona alle suggestioni del male, sia la superiore conduzione degli avvenimenti da parte di Dio. Ebbene, solo l’Agnello immolato è in grado di aprire il libro sigillato e di riverlarne il contenuto, di dare senso a questa storia apparentemente così spesso assurda. Egli solo può trarne indicazioni e ammaestramenti per la vita dei cristiani, ai quali la sua vittoria sulla morte reca l’annuncio e la garanzia della vittoria che anch’essi senza dubbio otterranno. A offrire questo conforto mira tutto il linguaggio fortemente immaginoso di cui Giovanni si serve.
Al centro delle visioni che l’Apocalisse espone ci sono anche quelle molto significative della Donna che partorisce un Figlio maschio, e quella complementare del Drago ormai precipitato dai cieli, ma ancora molto potente. Questa Donna rappresenta Maria, la Madre del Redentore, ma rappresenta allo stesso tempo tutta la Chiesa, il Popolo di Dio di tutti i tempi, la Chiesa che in tutti i tempi, con grande dolore, partorisce Cristo sempre di nuovo. Ed è sempre minacciata dal potere del Drago. Appare indifesa, debole. Ma mentre è minacciata, perseguitata dal Drago è anche protetta dalla consolazione di Dio. E questa Donna alla fine vince. Non vince il Drago. Ecco la grande profezia di questo libro, che ci da fiducia! La Donna che soffre nella storia, la Chiesa che è perseguitata alla fine appare come Sposa splendida, figura della nuova Gerusalemme dove non ci sono più lacrime ne pianto, immagine del mondo trasformato, del nuovo mondo la cui luce è Dio stesso, la cui lampada è l’Agnello.
Per questo motivo l’Apocalisse di
Giovanni, benché pervasa da continui riferimenti a sofferenze,
tribolazioni e pianto - la faccia oscura della storia -, è altrettanto
permeata da frequenti canti di lode, che rappresentano quasi la faccia
luminosa della storia. Così, per esempio, vi si legge di una folla
immensa, che canta quasi gridando: “Alleluia! Ha preso possesso del suo
Regno il Signore, il nostro Dio, l'Onnipotente. Rallegriamoci ed
esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché son giunte le nozze dell’Agnello,
e la sua sposa è pronta” (Ap 19,6-7). Siamo qui di fronte al tipico
paradosso cristiano, secondo cui la sofferenza non è mai percepita come
l’ultima parola, ma è vista come punto di passaggio verso la felicità e,
anzi, essa stessa è già misteriosamente intrisa della gioia che scaturisce
dalla speranza. Proprio per questo Giovanni, il Veggente di Patmos, può
chiudere il suo libro con un’ultima aspirazione, palpitante di trepida
attesa. Egli invoca la venuta definitiva del Signore: “Vieni, Signore
Gesù!” (Ap 22,20). E’ una delle preghiere centrali della
cristianità nascente, tradotta anche da san Paolo nella forma aramaica: “Marana
tha”. E questa preghiera “Signore nostro, vieni!” (1 Cor 16,22)
ha diverse dimensioni. Naturalmente è anzitutto attesa della vittoria
definitiva del Signore, della nuova Gerusalemme, del Signore che viene e
trasforma il mondo. Ma, nello stesso tempo, è anche preghiera eucaristica:
“Vieni Gesù, adesso!”. E Gesù viene, anticipa questo suo arrivo
definitivo. Così con gioia diciamo nello stesso tempo: “Vieni adesso e
vieni in modo definitivo!”. Questa preghiera ha anche un terzo
significato: “Sei già venuto, Signore! Siamo sicuri della tua presenza tra
di noi. E’ una nostra esperienza gioiosa. Ma vieni in modo definitivo!”. E
così, con san Paolo, con il Veggente di Patmos, con la critianità
nascente, preghiamo anche noi: “Vieni, Gesù! Vieni e trasforma il mondo!
Vieni già oggi e vinca la pace!”. Amen!
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Vaticana