LA BIBBIA NELL’ARTE

 

 

Il profeta Isaia

Affresco di Melozzo degli Ambrosi (1438-1494), detto da Forlì perché originario di quella città.

 

Nella volta della sacrestia di Loreto, Melazzo rappresentò una cupola marmorea divisa in otto spicchi finestrati. Da ogni finta apertura, delimitata da elaborate cornici dipinte, si affaccia un angelo che regge uno degli strumenti della passione di Gesù.

Il profeta è un vecchio con una pronunciata calvizie e una corona di capelli canuti.

La testa reclinata, sorretta dalla mano sinistra, comunica un senso di quiete, contraddetta però dall’indice destro puntato verso il basso in segno di richiamo, più che di accusa.

L’angelo che sta sopra la giura di Isaia regge la colonna della flagellazione, in conformità allo stesso vaticinio scritto sulla lapide: “ Ho offerto la schiena a chi mi batteva la faccia a chi mi strappava la barba. Non ho sottratto il mio volto agli sputi e agli insulti” ( Is 50,6). L’immagine del profeta è costruita con consumata abilità tecnica; la vigoria della figura è resa dal delicato chiaroscuro delle ampie falde della veste bianca e dal concitato incresparsi delle pieghe del mantello bicolore.

 

Giuditta decapita Oloferne

della pittrice Artemisia Gentileschi.

 

Il dipinto, approntato tra il 1612 e il 1613, raffigura l’episodio culminante del Libro di Giuditta, un deuterocanonico dell’Antico Testamento: Oloferne, un generale assiro che assedia la città israelita di betulla, è ammaliato dalla bella Giuditta, un’abitante della città che si è recata da lui fingendosi una traditrice del suo popolo. Dopo un festino, Oloferne piomba nel sonno dell’ubriachezza, e Giuditta gli mozza il capo ponendo fine all’assedio e al periodo della conquista assira. L’episodio è narrato con grande realismo.  Artemisia, seguace del Caravaggio, illumina le figure con una sciabolata di luce. La scena è truculenta, ma il volto di Giuditta, tutto intento a compiere il suo compito, dà quasi l’idea che non si tratti di una esecuzione ma di un rito.

 

 

L’Annunciazione, del Beato Angelico ( ca 1400-1455).

 

Questo capolavoro del maestro, conservato nel Museo Diocesano di Cortina (AR), è una sintesi della storia della salvezza. L’angelo annunzia a Maria che diventerà la madre del Figlio di Dio e che con lui sarebbe stato finalmente superata la colpa originale di Adamo ed Eva. Le figure dei progenitori scacciati dal Paradiso Terrestre si intravedono sul fondo della composizione.  Maria è seduta in meditazione sotto un loggiato corinzio di fattura classica; l’ angelo le si fa davanti ed ella rimane turbata da questa figura splendente che il pittore ha di fatto reso con le vesti intessute d’oro e con le ali di singolare bellezza; il dialogo tra la Vergine e l’angelo è scritto a lettere d’oro tra i volti, mentre lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, investe Maria della sua potenza. Le antiche profezie sono ricordate dal busto del profeta Isaia posto nel tondo sopra la colonna: “ Ecco la Vergine sarà incinta, partorirà un figli, ed egli sarà chiamato Emmanuele. Questo significa Dio con noi”.

 

Reliquiario

 

In argento sbalzato del IV secolo, trovato nella basilica milanese dei Ss. Nazario e Celso. Su una delle facce è raffigurata l’adorazione dei Magi. Sono del tutto assenti gli elementi popolari legati ad analoghe composizioni d’epoca successiva. Maria non si trova in una stalla diroccata, ma è seduta come una regina su un alto trono ed è circondata dagli offerenti in atteggiamento di vassallaggio, che dal punto di vista formale ricordano da vicino bassorilievi d’epoca classica. Lei è la Madre del Figlio di Dio, e mostra il Salvatore a questi anonimi rappresentanti dell’umanità.

 

L’entrata di Gesù a Gerusalemme,

del pittore senese Duccio di Boninsegna.

 

L’opera,commissionata il 9 ottobre 1308, fu terminata nel giugno del 1311 per essere collocata, come dossale, sull’altare maggiore della cattedrale senese, E’ dipinta su entrambi i lati: davanti, lo spazio principale è occupato da una Maria in trono, attorniata da file di santi, sul retro sono raffigurate le Storie della passione di Gesù. L’entrata di Gesù in Gerusalemme fa parte di quest’ultima serie. In uno spazio non grande, il pittore ha concentrato i fatti essenziali della vicenda: Gesù, in sella a un asino e circondato dai discepoli, sta per varcare le porte della Città Santa, la gente davanti a lui è festosa, agita rami di olivo e stende i mantelli per terra. Gerusalemme che si erge grandiosa su un cielo prezioso di foglia d’oro, è la città fatale: la presunta architettura del tempio incombe, e pare quasi ricordare la profezia secondo cui nessun profeta muore lontano da Gerusalemme.

 

 

Crocifissione,

dipinta tra il 1523 e il 1525 dal pittore Mathias Grünewald.

 

In una visione essenziale, il Maestro condensa il tema che lo ha ossessionato per tutta la vita: la presenza del dolore nella storia degli uomini e nel mondo. Il corpo di Gesù, monumentale nella sua drammaticità, è straziato e deformato. Pare quasi che abbia voluto ritrarre il cadavere di uno dei contadini massacrati durante le rivolte scoppiate in Germania tra il 1523 e il 1525. Le due figure statuarie al suo fianco sono impassibili, come due muti testimoni della tragedia che si sta consumando. Tutto, compresa la natura rappresentata dal fosco cielo di sfondo, pare non avere la minima speranza: più che “ tutto è compiuto” pare voglia dire: “tutto è finito”. Ma è la luce che illumina il Crocifisso a proporre una svolta positiva al dramma: è la luce della risurrezione, dell’evento sconvolgente che avrà luogo da lì a tre giorni.

 

 

La cena di Emmaus,

del pittore Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio.

 

Il dipinto non è di grandi dimensioni, ed è un microcosmo in cui il maestro non solo rappresenta un momento preciso dell’evento narrato nel vangelo di Luca, ma condensa sapientemente umanità e divinità, realtà e misticismo. La scena, illuminata da un fascio di luce esterna che penetra dall’angolo superiore di sinistra, è ambientata in una stanza dalle dimensioni indefinibili. Dell’arredo si scorgono unicamente il tavolo coperto da tovaglia bianca, e una sedia in stile “ savonarola”; la tavola è imbandita per una lauta cena; dei quattro personaggi, l’oste, in piedi, qualifica quella che potrebbe essere scambiata per una cena in casa di amici come un posto da locanda; i due discepoli, Cleopa e il suo compagno, sono seduti l’uno alla sinistra e l’altro di fronte al Risorto. L’atto di benedizione compiuto da Gesù sul pane viene accolto con stupore dai due: l’uno allarga le braccia, con un gesto che libera la gioia che aveva sentito nel cuore, ma della quale non sapeva darsi ragione, l’altro si appoggia ai braccioli della sedia per alzarsi e toccare il mastro risorto. L’unico che rimane nell’indifferenza è il locandiere, che non comprende né il gesto ne lo stupore dei due discepoli. Gesù non è ancora scomparso dalla loro vista e offre al committente una meditazione sulla sua personalità di risorto; il suo volto giovanile e senza barba rimanda a una tradizione che affonda le sue radici nell’iconografia paleocristiana, ripresa da Michelangelo nel Cristo del Giudizio Universale della Cappella Sistina. Cristo giovane è segno della perennità, di una vita rinnovata dalla risurrezione.

 

L’evangelario di Henri le Lion,

scritto e miniato attorno al 1173. La miniatura a tutta pagina descrive l’episodio della Pentecoste così com’è raccontato negli Atti degli Apostoli: gli apostoli sono seduti su due file e nel mezzo c’è Maria, la madre di Gesù; sette colombe racchiuse entro cerchi, simbolo della perfezione, incombono sul loro capo. Una fascia recante una scritta separa questo gruppo da una raffigurazione simbolica: da una raccolta entro un nimbo con la croce, segno del Padre e del Figlio, partono sette torrenti che fluiscono i direzione delle colombe, segno dei doni dello Spirito Santo. Agli angoli, apostoli e profeti recano un cartiglio con i loro più importanti pronunciamenti, e a lato dei sette fiumi ci sono due figure regali, Davide e Salomone, con delle sentenze a loro attribuite nelle Scritture.

 

Il Buon Pastore

Mosaico del mausoleo di galla Placidia a Racenna, secolo V. Il mosaico si trova sopra la porta di accesso al mausoleo, e raffigura Gesù, vincitore della morte mediante la croce, nelle vesti del Buon Pastore. Il riferimento è alla parabola narrata da Gesù stesso: “ Io sono il  buon pastore. Il buon pastore è pronto a dare la vita per le sue pecore” ( Gv 10,11).

La lunetta è stata eseguita da un mosaicista bizantino imbevuto di cultura classica; la figura di Gesù, con la testa circondata da un nimbo, segno della sacralità e vestito di una preziosa tunica con lumeggiature d’oro, è eseguita con rara perizia; la torsione del busto è un espediente per dare non solo realtà al soggetto, ma conferire anche un dinamismo che non renda l’immagine troppo astratta. Le pecore sono di un realismo che nell’arte figurativa si ritroverà soltanto otto secoli dopo. Il paesaggio, ricco di pietre e arbusti, è un rimasuglio dell’interesse per la natura propria dell’arte ellenistica.

 

Cristo pantocrator

(che tiene tutto nelle mani, onnipotente), nell’abside della basilica di Sant’Angelo in Formis, affrescato tra il 1072 e il 1087. Sotto un padiglione multicolore che reca al vertice la colomba, simbolo dello Spirito Santo, Gesù, il Signore di ogni cosa (pantocratore), è seduto su un trono decorato; la destra è alzata in segno di insegnamento mentre con la sinistra tiene aperto un libro in cui è scritto:”Ergo sum alfa et omega…(Io sono il principio e la fine)”: intorno alla figura centrale, quasi librate nel cielo, le quattro figure apocalittiche simbolo degli evangelisti. Sotto una fascia che percorre tutto l’abiside, tre figure angeliche: sono gli arcangeli Gabriele, Michele e Raffaele, i messaggeri di Dio. La raffigurazione sta a significare il dominio di Gesù, il Figlio dii Dio, sull’intera creazione. La sua volontà di salvezza è rivelata nella Scrittura e tutto ciò è comunicato agli uomini, sostenuti dal suo aiuto.

 

La Trinità

 

Affresco di Masaccio, dipinto nel 1428 e conservato nella chiesa fiorentina di Santa Maria Novella. L’artista si colloca nell’alveo di una tradizione secolare. Quanto alla prospettiva l’affresco è perfettamente in sintonia con la teoria e la pratica dell’architetto fiorentino Filippo Brunelleschi ( 1377-1446). Il pittore e storiografo Giorgio Vasari ( 1511-1574), pieno di ammirazione, scrisse che “ pare che sia bucato, quel muro”. Masaccio collocò la raffigurazione della Trinità in un sacello architettonico di pieno stile umanistico. Disposti accanto alla croce di Gesù, Maria e Giovanni non solo più solo testimoni affranti dal dolore, ma sembrano intercedere intercedere in favore dei due oranti inginocchiati sul gradino dell’altare. Più in basso, sotto la mensa, come si trattasse di un sepolcro di famiglia ( da cui non è assente il richiamo alla sepoltura di Abramo), sta adagiato uno scheletro con la scritta:

 

“IO FU’ GIA’ QUEL CHE VOI SIETE: E QUEL CHE SON VOI ANCO SARETE”.

 

 Le figure invadono gli spazi gerarchizzati dell’architettura dipinta. Più in alto il Padre: è la realtà di Dio, inaccessibile eppure pensabile. Il Padre ha inviato nel mondo il Figlio, che si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Il patibolo è piantato sul piano dell’ambiente medio, lo stesso su cui stanno Maria e Giovanni. 

 

Tra il Padre e il Figlio, Masaccio ha posto l’immagine dello Spirito, quasi a commentare la parola di Gesù: “ Io e il Padre siamo una cosa sola”. Fuori del sacello, nell’ambito “ mondano” e inginocchiati sul gradino dell’altare, ci sono gli offerenti e lo scheletro: vita e morte, due realtà proprie degli uomini. Masaccio nel presentare il mistero della Trinità non ricorre al simbolo, ma alla forma e alle figure, perché, grazia a Gesù, la Trinità si è rivelata nella storia.

 

 

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