Sant’Alfonso Maria de’ Liguori

 

 

Alfonso Maria de Liguori venne al mondo a Marianella di Napoli il 29 settembre 1696, figlio primogenito di Don Giuseppe de Liguori, energico e pio capitano comandante le galere reali, e della nobile e virtuosa Anna Cavalieri. I de Liguori tra gli otto figli che ebbero tre furono sacerdoti (Alfonso, Antonio, Gaetano) due monache (Barbara, Maria Anna), una figlia morì subito (Maddalena) e solo due continuarono la stirpe (Teresa e l'ultimogenito Ercole, che raccolse di diritti di primogenitura). La nascita del primogenito Alfonso, avvenuta il 29 settembre, fu confortata dalla profezia del santo Francesco di Gironimo: "Questo figliolo vivrà vecchio vecchio, né morirà prima dei 90 anni; sarà vescovo e farà grandi cose per Gesù Cristo".

 

 

Alfonso fu un bambino che cominciò ad imparare tutto, mostrando una incredibile prontezza nell'apprendere. Il padre cominciò a riporre su di lui le speranze del prestigio della sua famiglia. Donna Anna, invece, provvedeva alla educazione religiosa del piccolo. Anzi, Alfonso era come immerso nella pietà religiosa familiare; più tardi ricorderà: Quanto di bene riconosco in me nella mia fanciullezza, e se non ho fatto del male, di tutto sono tenuto alla sollecitudine di mia madre. Di Alfonso fanciullo si ricorda soprattutto il seguente episodio che denuncia una straordinaria sensibilità. Durante un passeggiata con i compagni al bosco, sotto la guida dei Padri Filippini, dovette cedere alle insistenze dei compagni perché giocasse con loro a bocce con le arance. Lui, che non sapeva giocare, vinse trenta partite di fila e i soldi scommessi. Al che uno degli avversari si adirò, lo ingiuriò e condì il tutto con una sonante parola volgare. Alfonso arrossì, restituì il denaro dicendo: Perché offendere Dio per tanto poco? E si allontanò silenzioso tra gli alberi. I compagni continuarono i loro giochi. Quando fu l'ora del ritorno cercarono di lui; lo trovarono assorto in preghiera innanzi a una immagine della Madonna.

Colui che lo aveva amareggiato scoppiò in pianto: Ho offeso un santo!
A don Giuseppe stava molto a cuore che suo figlio imparasse dai migliori maestri. E doveva imparare tutto: lingua italiana e latina dal celebre G. B. Vico, filosofia, scienze, poesia, pittura e  musica col valente maestro Greco. E Alfonso mostrava una straordinaria versatilità nella pittura e nella musica, soprattutto.Tra i suoi dipinti ricordiamo il "Crocifisso"e la "Madonna".

 

 

Suo padre, don Giuseppe, lo seguiva con simpatia, ma anche con severo controllo. Alfonso non aveva molti svaghi: la sua giornata era troppo piena. Ma giocava volentieri a carte con alcuni coetanei di nobile famiglia. Il padre gli aveva concesso un'ora di gioco alla sera e ne aspettava con impazienza il ritorno. Alfonso alcune volte fece ritardo. Una sera, vedendo che Alfonso ritardava e volendo dargli una lezione, tolse dal tavolo del figlio tutti i libri e lo coprì di tanti mazzetti di carte da gioco. Alfonso ascoltò con umiltà la sfuriata: Questo è il tuo studio, e questi sono gli autori che ti fo ritrovare!
Il versatile ingegno del giovane Alfonso, stimolato dalla severa esigenza paterna, ottenne clamorosi frutti: a soli sedici anni di età, il 21 gennaio 1713, Alfonso fu proclamato dottore in legge. Un fatto di alto prestigio per i de Liguori. Non potendo per divieto di legge esercitare prima dei vent'anni, il giovane Alfonso si dedicò alla vita sociale e religiosa con intensità.

 

Ritratto di Alfonso giovane.


Perfezionò i suoi studi, interveniva ai vari circoli culturali presso eminenti giuristi, ove si trattava di tutto. Spinto dall'orgoglio del padre frequentò variamente la vita dell'alta società con i suoi vezzi e i suoi incanti, salotti e teatro; venne a contatto col mondo politico, pieno di intrighi e compromessi. Ma non mancò di mescolarsi al popolo minuto e di dedicarsi alle opere di assistenza agli ammalati e dei poveri. Frequentava assiduamente le varie Congregazioni: quella dei Filippini, quella dei nobili, quella della Misericordia; partecipava puntualmente agli appuntamenti. Don Giuseppe si ben presto in azione per trovare una degna fidanzata al proprio figlio, sul quale aveva riposto le speranze del futuro della sua casa. Ma tanta sollecitudine non trovava adeguato riscontro in Alfonso. Tra i vari partiti decise per la figlia del principe di Presicce Francesco de Liguori: Teresina, figlia unica con una ragguardevole eredità, non parente. Quando la cosa sembrava ormai fatta, la madre della fidanzata diede alla luce un maschio. Povero don Giuseppe! Vedere svanire così l'eredità! Gli si raffreddò l'interesse di accasare il figlio... e si raffreddò sensibilmente verso i principi di Presicce. La faccenda divenne ancora più incresciosa quando, sei mesi dopo la nascita, il bambino morì e don Giuseppe si fece di nuovo avanti. Tale comportamento contrariò molto i principi di Presicce e in special modo Teresina, la quale protestò vivacemente: Quando era vivo il mio fratellino, io non ero buona per Alfonso de Liguori; ora che è morto, sono buona. Si vede che si vuole la roba e non me. Bastantemente ho conosciuto cosa sia il mondo. Non voglio più vivere così. Voglio sposarmi con Gesù Cristo! Così disse così fece. Ma questo pasticcio non dispiacque certo al Alfonso il quale riuscì a scansare in vari modi anche un altro fidanzamento che il padre gli aveva preparato con la figlia del duca di Presenzano. Le cause patrocinate da Alfonso erano state tutte coronate da immancabile successo, e il suo nome era citato nei tribunali e nei pubblici ritrovi insieme a quello dei più bravi giuristi e oratori forensi.
Nel1723 gli fu offerta la difesa di una lite sorta tra il Granduca di Toscana e il duca Orsini di Roma, per rivendicare una tenuta di ingente valore (cinque-seicentomila ducati). Il duca Orsini affidò la sua difesa ad Alfonso che si preparò con puntigliosità. Nel giorno del dibattito l'aula del tribunale era insolitamente gremita. La lite aveva suscitato molto rumore. Alfonso parlò con la sua consueta lucidità, mostrando una sbalorditiva padronanza nel labirinto delle leggi sui diritti feudali. La sua parola fu coronata da un fragoroso applauso, che faceva ben sperare nel successo. Poi la doccia fredda, gelata anzi: Le vostre argomentazioni - ribatté con calma il suo avversario - si basano sul falso. Un documento da voi citato ha una clausola che vi dà completamente torto. Eccola!


La clausola non chiariva affatto la questione, ma l'interpretazione a sfavore di Alfonso fu accolta senza riserve dai giudici: a sostenere col suo influsso il Granduca di Toscana era sceso in campo nientemeno che l'imperatore d'Austria. Alfonso umiliato lasciò immediatamente l'aula. Alcuni storici di S. Alfonso hanno cercato di spiegare questa intricata vicenda. Oggi si è convinti che Alfonso avesse ragione. Ma la storia è che egli venuto a contatto in modo brusco con una sconfitta bruciante, si decise: Mondo, mondo, ti ho conosciuto; tu non fai più per me. Addio, tribunali non mi vedrete mai più. I tre anni che seguirono la sua decisione furono caratterizzati da aspri conflitti con il padre, con gli amici e col bel mondo che aveva lasciato. Fu il vescovo di Troia, fratello della moglie di don Giuseppe a vincere le resistenze e l'orgoglio del padre: Lasciatelo andare; Iddio lo chiama, il vostro dovere è di non resistere più alla volontà manifestata da Lui.

 
La riconciliazione spirituale col figlio don Giuseppe la raggiunse qualche tempo dopo, nel 1729, quando passando davanti alla chiesa dello Spirito Santo - dove predicava Alfonso già sacerdote - decise di entrarvi. Uno spettacolo commovente si presentò ai suo occhi. Tutti pendevano dalle labbra del giovane sacerdote e molti occhi erano pieni di lacrime. Il suo stesso cuore fu toccato dalla parola del figlio. Tornato a casa lo abbracciò di tutto cuore e lo benedisse. I tre anni prima di ricevere il sacerdozio Alfonso li aveva impiegati soprattutto nella catechesi ai piccoli, ai poveri e agli ignoranti. Quando fu consacrato sacerdote il 21 dicembre 1726, Alfonso aveva già le idee chiare: essere sacerdote per la povera gente che era immersa nella completa ignoranza religiosa nonostante la città di Napoli brulicasse di preti e abati.
I rioni più popolari lo ebbero come missionario instancabile. I centri della malavita napoletana subirono l'influenza risanatrice della sua opera. C'era sempre molta gente intorno al suo confessionale, da dove molti ritornavano convertiti. Erano frequenti i casi di delinquenti che si ravvedevano, anzi divenivano i suoi migliori discepoli e collaboratori. Pietro Barbarese e Luca Nardone ne furono i casi più clamorosi. Alfonso aveva cominciato ad adunare di sera presso alcune cappelle  della città ogni sorta di gente del popolo: scugnizzi, saponari, muratori, barbieri, falegnami ed altri. Qui li istruiva e li animava alla vita cristiana ed alla penitenza. Quei poveri erano felici di essere oggetto di tanta attenzione, il fervore di queste adunanze era salito alle stelle e molti si erano dati a vita penitente, forse troppo, tanto che Alfonso una sera dovette riprenderli per alcuni eccessi rigorosi. In quei tempi difficili con le ventate rivoluzionarie che arrivavano anche a Napoli, il governo aveva sguinzagliato per le strade sbirri e spie ai quali queste adunanze apparvero assai sospette: tanto da denunciarle alla polizia. Anche alcuni sacerdoti della città osservarono di nascosto questo miscuglio di gente per cogliervi "eresie" da condannare. La conclusione fu che Napoli vide ambedue le corti (ecclesiastica e civile ) intervenire contro queste "sette".


Ma Alfonso chiarì subito ogni equivoco col cardinale e col re. Anzi, capita la cosa, il cardinale diede particolare impulso a quest'opera. Ebbe così inizio l'opera delle "Cappelle Serotine", che divennero vere scuole popolari di dottrina cattolica e di apostolato familiare. Sin dal 1724 Alfonso si era iscritto alla missione di Propaganda, perché sentiva impellente l'urgenza di evangelizzare. Le missioni al popolo furono lo strumento che lo portò a diretto contatto con la gente bisognosa di evangelizzazione. Predicò molte missioni con la Congregazione di Propaganda, poi scelse una strada ancora più dura. Nel 1729 entrò come convittore nella Congregazione della Sacra Famiglia, detta dei Cinesi, fondata dal P. Matteo da Eboli. Alcuni di questi membri erano partiti per evangelizzare la Cina e le Indie; a Napoli era stato aperto un collegio di ragazzi cinesi in attesa di diventare sacerdoti evangelizzatori della loro patria.

Nel 1731 un grave terremoto danneggiò alcune zone della Calabria della Puglia e della Basilicata.

Diverse compagnie di missionari si recarono in quei luoghi per portare sostegno e conforto alle popolazioni colpite. La compagnia, cui partecipò Alfonso, prese la via della Puglia. Fu una campagna intensissima.


A causa delle molte fatiche sostenute, Alfonso cadde seriamente ammalato e per ordine dei superiori dovette concedersi un po’ di riposo.

 In giugno, superata la malattia che lo portò alle soglie della morte, fu inviato a riposarsi fuori Napoli, ad Amalfi. Vi andò per via mare. Ma la piccola imbarcazione sbattuta dai venti e dal mare impetuoso lo sbarcò sulla spiaggia di Minori.

Il Vicario di Scala gli consigliò come luogo più tranquillo, raccolto e dall'aria salubre, l'antico romitorio di S. Maria dei Monti.  Con lui c'erano altri cinque missionari bisognosi di rinfrancare le loro forze. Ben presto quella piccola chiesa, dove si venerava una statua della Madonna che oggi è chiamata Regina Redemptoristarum, si affollò di rozzi pastori e numerosi montanari.
Alfonso al contatto con quelle persone semplici, buone ma abbandonate e prive di ogni aiuto spirituale, cominciò a maturare un segreto disegno che poi Dio tirerà fuori al momento giusto. Nel settembre dello stesso anno Alfonso ricevette il segno di quella chiamata che sentiva dentro di sé.

 

Suor Maria Celeste Crostarosa

Suor Maria Celeste Crostarosa, la grande mistica del monastero di Scala, gli comunicò la rivelazione avuta dal Signore: "Ecco colui da me scelto per essere il fondatore di una congregazione di sacerdoti che darà gloria al mio nome".

 

Alfonso voleva rifiutare questo segno. Sentiva sì, quella chiamata, ma si poteva affidare alle visioni di una monaca? Ritiratosi a Napoli, volle consigliarsi con i più illuminati sacerdoti e dovette subire in questo periodo indicibile sofferenze e aspre contrarietà da parte di amici e da parenti. Ma uomini di esperienza e di spirito, come il vescovo di Castellammare di Stabbia mons. Tommaso Falcoia, lo spinsero ad ubbidire a quella voce che essi riconoscevano venire realmente dall'alto.


Il 5 novembre, cavalcando un asinello, lascia definitivamente la città natale alla volta di Scala, per seguire la vocazione di dedicarsi alla salvezza delle anime, specialmente più abbandonate. Il 9 novembre nella cattedrale di scala, alla presenza di due vescovi, mons. Guerriero di Scala e mons. Falcoia di Castellammare, e di molta gente il nuovo Istituto iniziò il suo cammino.

Primi compagni di Alfonso furono alcuni sacerdoti di grande spicco don Vincenzo Mandarini, don Silvestro Tosquez, don Gennaro Sarnelli, don Pietro Romano, don Cesare Sportelli, don Giovanni Mazzini e il fratello laico Vito Curzio.


 

Nella preghiera e nella riflessione Alfonso preparò le Regole del nuovo Istituto. Nella grotta di Scala, ove si ritirava a pregare e a far penitenza, gli apparve più volte la Madonna in segno di conforto e di prezioso aiuto.
Da questo momento la vita di Alfonso diventa anche la storia dell'Istituto da lui fondato, a parte la parentesi di tredici anni (1762-1775) come vescovo della diocesi di S. Agata dei Goti.


La Congregazione fondata da Alfonso incontrò subito le ire e le persecuzioni di chi non comprese e anche i contrasti interni di alcuni che non condivisero le vedute di Alfonso, con conseguenti defezioni, tanto che ad un certo punto Alfonso rischiò di restare completamente solo... Ma poi da allora (1733) fino al 25 febbraio 1749, giorno in cui Papa Benedetto XIV approvò le Regole dell'Istituto, fu un crescendo di fervore e di prodigiosa espansione. L'apostolato della penna si affiancò all'attività missionaria tanto cara ad Alfonso. Sin da giovane aveva fatto voto di non perdere mai tempo. Pertanto ogni ritaglio di tempo che gli restava dal suo stressante ed estenuante apostolato missionario, Alfonso lo dedicava allo scrivere. Quanto ha scritto? Tanto. Tantissimo. Quando nel 1871 si trattò di elevare S. Alfonso al grado di Dottore della Chiesa, il Papa Pio IX, al vedere schierate sul tavolo le opere del Santo, esclamò pieno di meraviglia: Poveretto! quanto ha scritto! E qualcuno aggiunse subito: Santo Padre, e quanto bene ha scritto! Con i suoi scritti fu in grado di far teologia con colori sfavillanti e popolarità geniale agli analfabeti. Fu quasi il maestro elementare religioso del popolo; ha nutrito i suoi lettori con dogmi, teologia, ascetica, apologetica rinfrancandoli con un fiume di citazioni e aneddoti.


Ha scritto di tutto. 111 opere, grandi e piccole. I sacerdoti lo hanno caro per la su Teologia Morale, un'opera grandiosa dove sono consultati 800 autori e riportate 80.000 citazioni. Gli scritti di Alfonso hanno spianato l'accesso al confessionale, hanno apportato il sorriso invece dell'indignazione, il padre invece del patrigno... Per la sua dottrina Alfonso sarà proclamato Dottore della Chiesa, Principe della Morale Cattolica, Patrono dei Moralisti e Confessori.
Il popolo si è nutrito della dottrina e della spiritualità di Alfonso. E' difficile trovare chi non ha letto o pregato con Le Visite al SS. Sacramento e a Maria SS., La pratica di amar Gesù Cristo, Le Massime Eterne, Le Glorie di Maria, L'apparecchio alla morte, La via della salute, Del gran mezzo della preghiera
(file.zip) ecc... Alfonso da ragazzo ricevette una seria preparazione musicale da uno dei più quotati maestri del tempo, Gaetano Greco. Egli stesso ammise: la musica mi piace e da borghese vi sono stato applicato. Del suo talento Alfonso diede un mirabile saggio nel Duetto tra l'anima e Gesù Cristo composto ed eseguito nel 1760. Il manoscritto originale fu rinvenuto nel 1860 al British Museum di Londra. Ma il popolo ha amato Alfonso soprattutto per le sue meravigliose Canzoncine nella quali ha trovato l'espressione più concreta della sua fede semplice e profonda: Tu scendi dalle stelle, Fermarono i cieli, Quanno nascette Ninno, O Pane del cielo, Fiori felici voi, O fieri flagelli, Gesù mio con dure funi, O bella mia speranza, Dal tuo celeste trono, Il tuo gusto...
Nel marzo 1762 gli arrivò dal Papa Clemente XIII la nomina a vescovo della diocesi di S. Agata dei Goti. Questa volta non poté sfuggirla. In precedenza aveva evitato inviti del genere, come quando il re lo voleva arcivescovo di Palermo: Una delle grazie che il Signore mi ha fatto, si é l'aver sfuggito il pericolo di essere vescovo, pericolo che difficilmente avrei evitato stando a casa mia! Ora si sentiva perduto. Cadde persino in grave infermità. Ma: volontà del Papa, volontà di Dio, e partì per Roma. Fu consacrato Vescovo dal cardinale Rossi con grande solennità alla presenza di numerosi fedeli. A Roma suscitò, in tutti, un'impressione straordinaria per la sua umiltà e povertà.

Ammesso in udienza dal Papa, così lo supplicò: Beatissimo Padre, giacché vi siete degnato di farmi vescovo, pregate Dio che non mi perda l'anima. Fece il suo ingresso nella piccola diocesi in tutta umiltà: il cappello da cerimonia solenne (galero) lo fece prelevare dalla tomba del suo predecessore... l'anello episcopale era incastonato da una vistosa pietra ricavata dal fondo di un bottiglia... una modesta carrozza, che qualche tempo dopo vendette per aiutare i poveri.


Da buon avvocato, qual era stato, migliorò sensibilmente tutto il patrimonio della diocesi, che servì poi ottimamente nel periodo della disastrosa carestia che colpì tutto il Regno di Napoli durante il suo episcopato.
Durante la carestia in tutto il Regno succedevano cose terribili: tumulti, sedizioni, assalti a magazzini, furti, rapine, omicidi.. Il vescovo Alfonso mise a disposizione tutte le provviste. Esaurite queste vendette ogni cosa preziosa del suo palazzo e quanto possedeva: anche carrozza e cavallo. Sopraffatto e curvato dalla grave infermità (doppia artrosi: lombare e cervicale) più volte Alfonso inoltrò domanda di rinunzia al vescovado e più volte gli venne rifiutata. La rinunzia venne accettata il 26 giugno 1775, dopo tredici anni di lavoro intensissimo. Alfonso si sentiva sollevato... Lasciò la diocesi povero come vi era entrato. Aveva speso tutto per i poveri, nulla per i parenti e nipoti. E neanche per i suoi Redentoristi.

 
Si ritirò nella quiete di Pagani senza pretese: Mi basterà quel carlino che mi guadagno con la messa per comprarmi quel poco di minestra che mi mangio. La dolorosissima artrosi, che da tempo lo aveva preso e lo aveva indotto alla rinunzia del vescovado, ora lo mise in croce. Gli deformò le vertebre del collo costringendolo a restare col collo piegato al petto. Soffriva molto. Ma non furono le sofferenze del corpo ad abbattere il santo vecchio, bensì quelle di ordine spirituale: gli scrupoli, che lo assalirono violentemente, e le vicende della sua Congregazione. La Congregazione aveva la Regola approvata dal Papa Benedetto XIV nel 1749. Nel regno di Napoli, però non aveva ottenuto l'exequatur, cioè il benestare.

Le trattative durarono a lungo e furono la croce di Alfonso: che a causa della malattia aveva affidato la faccenda al Padre Maione, in cui riponeva assoluta fiducia.
Purtroppo quando si trattò di venire al concreto ci fu un tradimento. Per ottenere il regio exequatur la Regola fu contraffatta in più punti: non era più la Regola di Benedetto XIV, bensì un Regolamento regio. Questo "tradimento" seminò la costernazione nella Congregazione.

 

Inoltre i rapporti politici tra Regno di Napoli e Stato Pontificio erano molto incrinati; qualcuno dei Redentoristi dello Stato Pontificio soffiò addirittura sul fuoco e la cosa precipitò. Il Papa intervenne, dichiarando che le case del regno, in cui stava Alfonso, non appartenevano più alla Congregazione, la quale continuava ad esistere in maniera ufficiale nello Stato Pontificio. La misura era colma: da Fondatore che era Alfonso si trovò escluso da quella Congregazione che era la pupilla dei suoi occhi. Alfonso sul calvario esclamò tutto rassegnato: Non voglio che Dio solo, e mi basta non perdere la grazia di Dio.
Così vuole il Papa, che Dio si benedetto! Era il 1780. Gli rimanevano ancora sette anni di calvario nel corpo e nello spirito.


Ma egli aveva fede: Dopo la mia morte tutte le difficoltà si appianeranno. La riunione avverrà, ma solo dopo la mia morte. Il 23 luglio 1787 il

 suo stato di salute, si aggravò fortemente ed egli ricevette per la sesta volta gli ultimi sacramenti. Il 1° agosto alle ore dodici, circondato dai suo figli redentoristi, da amici parenti e confortato dalla visione della Madonna, Alfonso passò da questo mondo a Dio, mentre le campane suonavano l'Angelus.
Aveva quasi 91 anni. I funerali furono solennissimi. Una folla di oltre 10.000 persone vi partecipò e rese omaggio a quell'uomo che aveva speso la sua lunga vita per il bene della Chiesa.

 

Pagani  - Basilica Pontificia S. Alfonso.

La salma fu tumulata nella chiesa di S. Michele dei Redentoristi, che lui stesso aveva disegnato e fatta costruire. Alfonso fu dichiarato Beato da Papa Pio VII il 15 settembre 1816. Gregorio XVI lo annoverò nel numero dei santi il 26 maggio 1839. Pio IX lo decorò del titolo di Dottore della Chiesa il 23 marzo 1871. Pio XII lo elesse a Patrono di tutti i confessori e moralisti il 26 aprile 1950.

 

 

 

 

 

Quanno nascette Ninno

 

Quanno nascette Ninno a Bettelemme

era notte e pareva mezzo juorno.

Maje le stelle lustre e belle

Se vedettero accussì

E a chiù lucente jiett’a chiammà

Li Magge e l’Uriente

 

De Pressa se scetaiono

L'aucelle de na forma tutta nova.

Pensi a grille coli strille.

E zombanno acca e a là,

è nato, è nato decevano

lo Dio che si c'acriato.

 

A meliune l’angiule calare

Co chiste se metteten'a cantare

Gloria a Dio, pace' n terra,

nucchiù guerra, è nato

già lo d'amore

priezza e pace

 

 

S.Alfonso de' Liguorì

 

Visite al Santissimo Sacramento
e a Maria Santissima

di S.Alfonso de’ Liguori (file.zip)

 

 

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