San Giuseppe Benedetto Cottolengo

Sacerdote

Bra, Cuneo, 1786 - 30 aprile 1842

 

Portato fin da piccolo verso i bisognosi, divenuto sacerdote a Torino, aprì nella regione di Valdocco le Piccole Case della Divina Provvidenza, prima per i malati rifiutati da tutti, poi per “famiglie“ di handicappati, orfani, ragazze in pericolo e invalidi.Le Piccole Case , oltre a dare rifugio e assistenza materiale, tendevano a costruire una identità umana e cristiana nelle persone completamente emarginate. Con Giuseppe nacquero i preti della Santissima Trinità, varie famiglie di suore, i fratelli di S. Vincenzo, il seminario dei Tommasini.

 

Apostolo, asceta, penitente, mistico, devotissimo alla Madonna, egli portò nelle sue case una vita spirituale intensa. Fu formatore di vita religiosa e precursore dell’assistenza ospedaliera.

 

Pio IX la chiamava "la Casa del Miracolo". Il canonico Cottolengo, quando le autorità gli ordinarono di chiudere la prima casa, già gremita di ammalati, come misura precauzionale allo scoppio del colera nel 1831, aveva caricato le poche cose su un asino e con due suore si era avviato fuori città, in località Valdocco. Sulla porta di un vecchio casolare lesse: "Osteria del Brentatore". Egli capovolse l'insegna e ci scrisse: "Piccola Casa della Divina Provvidenza". Pochi giorni avanti, al canonico Valletti aveva detto con schietta semplicità campagnola: "Signor rettore, ho sempre sentito dire che i cavoli, perché vengano su con coste sode e raccolte, hanno bisogno di essere trapiantati. La "Divina Provvidenza" dunque ripianterà e si farà un gran cavolo...".

 

 

Giuseppe Cottolengo era nato a Bra, in provincia di Cuneo, nel 1786. Primo di dodici figli, compì con molto profitto tutti gli studi, fino alla laurea in teologia, a Torino. Vicecurato a Corneliano d'Alba, celebrava la Messa alle tre del mattino perché i contadini vi potessero assistere prima di recarsi ai campi: "Il raccolto andrà meglio con la benedizione di Dio", diceva loro. Canonico a Torino, dopo aver assistito

impotente alla morte di una donna, attorniata dai figlioletti piangenti, alla quale erano state negate le cure ospedaliere per l'estrema indigenza, vendette quel poco che possedeva, mantello compreso, affittò un paio di stanze e diede inizio alla sua opera benefica, offrendo ricovero gratuito a una vecchietta paralitica.
Alla donna che gli confessava di non avere un soldo per le spese, rispose: "Non importa, la retta la pagherà la Divina Provvidenza". Dopo il trapianto a Valdocco, la Piccola Casa si allargò a vista d'occhio e cominciò a prendere forma quel prodigio quotidiano della città dell'amore e della carità che oggi il mondo conosce e ammira col nome di "Cottolengo". Dentro quelle mura, erette dalla fede, c'è la serena operosità di una repubblica modello, che sarebbe piaciuta allo stesso Platone.

La parola "handicappato" qui non ha senso. Sono tutti "buoni figli" e per tutti c'è un lavoro adatto che riempie la giornata e rende più appetitoso il pane quotidiano. "La vostra carità - diceva alle suore - deve esprimersi con tanta buona grazia da conquistare i cuori. Dovete essere come un buon piatto servito a tavola, la cui vista mette allegria". La sua forte fibra non resistette a lungo al duro lavoro. "L'asino si rifiuta di camminare", ammetteva bonariamente. Sul letto di morte invitò per l'ultima volta i suoi figli a ringraziare con lui la Provvidenza. Le sue ultime parole furono: "In domum Domini ibimus" (andiamo nella casa del Signore). Era il 30 aprile 1842.

 

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