Parabole

 

 

Del seminatore

Giudice e vedova

Samaritano

Chicco di senapa

Siamo semplici servitori

 

 

 

 

 

 

 

DEL SEMINATORE

 

IL FATTO DELLA VITA

 

Gettare il seme sull’asfalto della strada, tutti sanno che non serve a niente: non ci sono le condizioni necessarie alla crescita. E, poi, la gente passa, lo calpesta, rovina il seme. Il seme non si getta dovunque.

Ai nostri giorni, si è soliti perfino preparare il terreno con il concime e con altre sostanze. Si fa tutto perché la terra produca il massimo e perché il seme possa sviluppare tutta la forza che nasconde. Un seme buono in una terra cattiva, genera solo fame e miseria. Ma un seme cattivo in una terra buona, dà il medesimo risultato. La benzina super in un motore rovinato, non serve a niente. La farina di prima qualità nelle mani di un fornaio incapace, non produce pane saporito.

Non basta piantare soltanto. Non basta avere buona volontà. Non basta dire:"Signore!Signore!". Bisogna sapere e ponderare dove e come si usa lo sforzo che si fa. Altrimenti, si corre il rischio di perdere tutto. E,d’altra parte, non serve a niente un ottimo motore, se la benzina è una porcheria.

Tutto ciò, la natura ce lo insegna e la vita ce lo conferma. Gesù se ne è accorto e se ne è servito nelle sue parabole per chiarire il nostro impegno con Dio.

Nota: Nel lavoro che si fa per il Regno di Dio, il risultato è spesso nullo o molto scarso; a volte, invece, va oltre ogni aspettativa. C’è chi attribuisce tutto a Dio e chi attribuisce tutto agli uomini. Gesù ci viene in aiuto, per chiarire il problema. Ascoltiamo ciò che egli dice.

 

DAL VANGELO DI MARCO LEGGIAMO LA PARABOLA IN 4,2-9

Commento

Nella parabola Gesù è di fronte alla folla, nell’atteggiamento del Maestro che insegna stando seduto. La parabola del seminatore si apre (4,3) e si chiude (4,9) con l’imperativo dell’ascolto, perché ascoltare è insieme sentire e obbedire.

"Chi ha orecchi per ascoltare ascolti", la frase allude a un ascolto attento, all’orecchio proteso per udire tutto distintamente senza perdere alcuna parola. E suggerisce l’importanza, ma anche la misteriosità di ciò che viene detto. Qui "orecchio" sta per intelligenza: ciò che viene detto è, infatti, qualcosa da decifrare, e richiede l’attenzione della mente e del cuore. Disposizione che però non tutti hanno, vale a dire che esiste l’eventualità di non capire. La parabola del seminatore è quindi importante, va decifrata, è oggetto di un discernimento: alcuni comprendono, altri no. Le parabole si illuminano per chi è disponibile, restano oscure per chi ha il cuore indurito.

 

La parabola racconta la storia di una semina: "ecco, uscì il seminatore a seminare. E nel seminare..". Una sola semina, lo stesso seminatore, lo stesso seme, gli stessi gesti, la medesima fatica, e tuttavia gli esiti sono diversi.

Ad una lettura attenta balza all’occhio che non il seminatore né il terreno sono al centro della parabola, ma il seme. Il seminatore compare all’inizio, poi non se ne parla più. E a parte il suo gesto iniziale, di lui non si dice nulla, né una parola né una reazione: sulla sua fatica, le sue speranze, le sue delusioni, la sua gioia per il raccolto abbondante. L’attenzione deve perciò concentrarsi sul seme; non sulle sue qualità, di cui nulla viene detto, bensì sulla sua sorte.

 

Tuttavia, sarebbe fuorviante fermare l’attenzione esclusivamente sul seme. Infatti,, la figura del contadino svolge una funzione assolutamente necessaria nella narrazione. Dicendo "uscì il seminatore a seminare", la parabola fa subito intendere che le quattro scene di cui si compone non costituiscono quattro storie diverse, ma una sola: quella, appunto, di un contadino che getta il seme nello stesso campo e nello stesso giorno. Fuori metafora: le quattro vicende del seme rappresentano gli esiti diversi dell’unica seminagione fatta da Gesù. La parabola racconta la storia del suo ministero. E’ una parabola cristologia, anche se poi le successive comunità dei discepoli vi leggeranno la propria storia.

 

Ma ritorniamo alla struttura della parabola. I primi tre quadri sono la storia di un ripetuto fallimento: caduto sulla strada o fra i sassi o fra le spine, il seme non frutta. Soltanto nell’ultimo quadro si legge che il seme, caduto sul terreno buono, porta molto frutto.

L’evidente insistenza sulla sfortuna del contadino conferma quanto abbiamo già intravisto: e cioè che la situazione in cui la parabola va collocata è quella di una fatica che pare troppo spesso inutile e di un insuccesso della Parola che sembra totale o quasi. Tuttavia, le cose non stanno così, dice la parabola. E’ vero che ci sono gli insuccessi, anche ripetuti, ma è certo, sempre certo, che una parte del seme frutta.

Dunque,fratelli e sorelle, questo è un invito alla fiducia. In questione non è precisamente la verità della Parola, bensì la sua efficacia. Ciò che fa problema non è la bontà del seme, ma la sua concreta capacità di portare frutto. Non raramente è più difficile aver fiducia nell’efficacia della Parola piuttosto che fede nella sua verità.

In un certo senso, possiamo paragonare la parabola del seminatore a una storia a lieto fine: dopo i ripetuti fallimenti, ecco il successo che ripaga della fatica.

Comunque dì fronte alla ripetuta constatazione che in molti terreni il seme non frutta, sarebbe logico chiedersi per quali ragioni questo accada. Domanda importante, alla quale il Vangelo risponde più avanti in 4,14-20.

 

Tuttavia, l’interesse prevalente della parabola è un altro, come dicevamo all’inizio.

Chiedersi perché i terreni non permettano al seme di fruttificare è questione importante, che però riguarda gli altri. La parabola mira piuttosto non alle ragioni dei molti fallimenti, ma all’atteggiamento di fiducia che l’annunciatore della Parola deve assumere quando li incontra. Sottolineando per tre volte l’insuccesso, Gesù mostra chiaramente la situazione storica ed esistenziale in cui la parabola va letta: una situazione nella quale il lettore cristiano non ha difficoltà a scorgere l’esperienza di Gesù e la propria.

 

Proprio per questo Gesù sposta l’attenzione dell’ascoltatore sull’abbondanza del raccolto: e lo fa con una serie di sottili contrapposizioni. Nei primi tre quadri la sorte del seme è descritta con "gli uccelli lo beccarono, il sole lo riarse, le spine lo soffocarono". Invece, nel quarto i verbi sono all’imperfetto: "dava frutto, rendeva il trenta ecc"..In tal modo la parabola invita il lettore a concentrare l’attenzione sul seme che cresce e porta frutto. Non solo, la quantità di seme caduta in terreno cattivo è espressa al singolare: una parte, un’altra parte. Diversamente, per indicare la quantità di seme caduta in terreno buono, viene usato il plurale: altre parti.

Sì, è vero che per tre volte il seme va sprecato, ma è ugualmente vero che la quantità non sprecata è molto grande.

Me è soprattutto l’abbondanza del raccolto che sorprende. Il trenta, il sessanta, il cento per uno è una proporzione altissima.

 

Molto spesso si legge la parabola come se la fiducia richiesta al seminatore fosse innanzitutto rivolta al futuro. Se così fosse, il messaggio centrale della parabola sarebbe sostanzialmente ovvio. Al contrario, la fiducia richiesta riguarda il presente più che il futuro. Questo è forse il tratto più singolare dell’intera parabola. I ripetuti fallimenti e il successo non sono disposti su una linea temporale: ora è il tempo dell’insuccesso, ma il futuro riserva ampio raccolto; oggi si sperimenta il fallimento della propria fatica, domani invece se ne vedrà il frutto abbondante. La differenza come possiamo vedere, infatti, è fra terreno e terreno, non fra tempo e tempo. Vale a dire che nella stessa semina e nello stesso tempo fallimenti e successo sono la sorte del seme. Di fronte alla medesima Parola c’è contemporaneamente chi l’accoglie e chi la rifiuta.

 

L’importante per chi fa sua questa fiducia non pretenda che il seme cresca sempre e dovunque. Piuttosto, la certezza che da qualche parte, già ora, esso dia frutto, offre la possibilità di accorgersene, non soltanto la pazienza di attendere.

Comunque sia, non c’è ragione di scoraggiarsi, tanto meno di dubitare della presenza del Regno. La fiducia del contadino insegna a guardare al di là dei fallimenti, per accorgersi che la Parola del Regno è qui, fra smentite e successi, già ora efficace.

Vorrei rammentarvi a tale proposito una frase di Gesù in Giovanni 4,15:"Levate i vostri cuori e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura".

 

Fin qui il racconto parabolico: ciò che succede all’azione del contadino succede all’azione di Dio. Ma perché mai la semina di Dio deve assomigliare a quella di un contadino?

Non stupisce lo spreco di un contadino palestinese (questo era proprio il modo di seminare degli antichi palestinesi), ma quello di Dio sì. Il contadino eviterebbe lo sperpero, se potesse. Dio non dovrebbe, proprio perché Dio, evitarlo? Così la domanda cruciale si ripropone, costringendoci a rileggere la parabola per accorgerci che essa non darebbe nessuna risposta, se non venisse collocata nell’evento di Gesù.

E’ qui che si chiarisce. Nessuna parabola può essere letta diversamente. Perché altro è l’azione di un contadino, altro quella di Dio. Ed è soltanto al storia di Gesù che permette di cogliere le ragioni della somiglianza. La storia di Gesù, gesti e parole, croce e risurrezione, è la parabola che illumina tutte le parabole. Le parabole svelano pienamente il loro senso solo dopo la Pasqua. Se la semina di Dio non è diversa da quella del contadino, è perché all’origine dell’agire di Dio c’è una sovrabbondanza di amore che sembra spreco e noncuranza, e che soltanto la croce di Gesù riesce a svelare nel vero senso: non sperpero o inefficace debolezza, bensì gratuità e luminosa rivelazione di chi è Dio.

 

A questo punto la figura del contadino muta fisionomia: i suoi gesti non sono più quelli semplici e abituali di un contadino della Palestina, ma i gesti rivelatori della generosità divina, tanto disinteressata e traboccante da rasentare l’incuria e lo spreco; ciò è tipico dell’amore che non calcola.

 

MARCO 4,13-20.

Dopo avere accuratamente analizzato la parabola del seminatore, se ne leggiamo la spiegazione, si ha subito l’impressione di trovarsi in un mondo diverso. Essa assume quasi i connotati di trasformazione allegorica, nella quale ciascun tratto ha il suo corrispondente: il seme è al Parola, i quattro terreni sono i differenti tipi di ascoltatori, gli uccelli sono l’immagine di Satana, il terreno sassoso è l’uomo facile all’entusiasmo e volubile, le spine le molte passioni che soffocano il cuore dell’uomo. Ma stranamente nulla si dice del seminatore, che in tal modo conserva la sua ricca ambiguità, al tempo stesso figura di Dio, di Gesù e degli evangelizzatori che ne continuano l’annuncio.

 

Colpisce ancora di più lo spostamento dell’attenzione, dal seme ai terreni; e non soltanto, come nella parabola, si constata che ci sono terreni buoni e cattivi, ma ci si premura indicarne le ragioni. A differenza della parabola che è essenzialmente una risposta a una domanda teologica, la spiegazione ha un’intenzione morale, invita all’impegno. E non è indirizzata ai missionari della Parola, ma ai molti ascoltatori che, dopo averla ascoltata, rischiano di mortificarla. Il problema se la Parola è efficace diventa il problema di come renderla efficace. L’attenzione si sposta dalla Parola alla sua accoglienza, da Dio all’uomo. L’incoraggiamento si trasforma in avvertimento.

 

Al primo tipo di ascoltatori appartengono gli uomini nei quali la parola seminata resta del tutto inerte, non riesce nemmeno a mettere le radici. La parola sparisce non lasciando traccia. Che esistano tali ascoltatori è un dato di fatto, ma individuare le ragioni di tale impermeabilità non è facile. E così il testo dice sbrigativamente che è Satana a portare via da loro la Parola, omettendo alcun tentativo di spiegazione psicologica. Si afferma però con chiarezza che la colpa non è della semina, significativamente menzionata due volte, ma del terreno.

 

Al secondo tipo appartengono gli ascoltatori entusiasti, che in fretta gioiscono e altrettanto in fretta si abbattono. Ciò che li caratterizza è l’avverbio "subito", come nel primo tipo: là era usato per esprimere la superficialità dell’ascolto, qui per sottolineare la fragilità del carattere. L’analisi di questo genere di credenti (si tratta infatti di credenti, perché non solo ascoltano la Parola, ma l’accolgono gioiosamente) è molto precisa. Sono uomini che comprendono e si entusiasmano, ma sono privi della solidità necessaria per perseverare. Al sopraggiungere della tribolazione e della persecuzione, la loro fede subito vacilla. La parabola allude alla fede, non soltanto alla coerenza morale: tale è, infatti, il senso biblico del verbo scandalizzarsi. Tribolazione è un termine che può significare qualsiasi afflizione. Ma qui si precisa che si tratta di un’afflizione a motivo della Parola: certo si allude alle persecuzioni.

Il terzo tipo di ascoltatori è delineato con tratti marcati. Ciò che qualifica questo credenti non è la fragilità del carattere, l’entusiasmo e lo scoraggiamento facile, ma l’eccesso di interessi. Nel loro animo e nella loro vita la Parola soffoca (l’immagine è molto espressiva) perché è priva di spazio e manca di aria. Gli interessi eccessivi, o le passioni smodate, si insinuano in questi uomini con nascosta prepotenza, sconvolgendoli alla radice.

 

Il verbo "entrare dentro" suggerisce con grande efficacia che queste passioni modificano l’essere dell’uomo, non solo il suo agire. Il cuore distratto e appesantito diventa del tutto incapace di avvertire ciò che vale. Non soltanto non accoglie la Parola, ma ne perde il gusto. E a soffocare la Parola non sono le passioni eccezionali, ma quelle comuni, quotidiane: le preoccupazioni per gli affari, l’attrattiva del denaro, le smodate ambizioni di ogni genere. Naturalmente questo rilievo non va letto in un quadro di rifiuto delle cose materiali perché indegne, degli impegni nel mondo perché terrestri, della ricchezza perché vanità, ma nella prospettiva evangelica della libertà e del Regno. L’insistenza particolare nel descrivere le ragioni dell’infruttuosità della Parola presso gli ascoltatori del secondo e del terzo tipo lascia intravedere che questi erano, di fatto, i veri motivi per cui molti venivano meno di fronte alle esigenze della Parola. Un panorama quanto mai abituale al giorno d’oggi.

 

Del quarto tipo di ascoltatori si dice semplicemente che sono il terreno buono. Perché lo sono non è detto. Le qualità che fanno di costoro il terreno ideale per la Parola non interessano. Si descrive invece che cosa fanno: ascoltano, accolgono e portano frutti. Il percorso, cari fratelli e sorelle, è completo.

Amen,alleluia,amen.

 

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DEL GIUDICE E DELLA VEDOVA

 

DAL VANGELO DI LUCA 18,1-8 leggiamo e meditiamo

 

Gesù con questa parabola ci esorta alla preghiera do lode costante: "Vegliate e pregate in ogni momento perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo".

Dunque egli ci esorta alla preghiera comunitaria, cenacolare e singola assidua, continua, fatta in ogni momento e per qualsiasi necessità senza mai stancarsi.

Ciò potrebbe rivelare una situazione di delusione provocata ( a volte qualcuno lo pensa) del comportamento di Dio Padre che sembra, talvolta, venir meno alle Sue promesse.

 

Ecco perché non bisogna "stancarsi mai", la perseveranza nella preghiera non è tanto l’insistenza nella domanda quanto l’ostinazione di fidarci di Dio.

E’ questo in sostanza l’introduzione e lo scopo della parabola; nondimeno se siamo stati attenti alla lettura ci si accorge che essa sottolinea non la perseveranza della preghiera, bensì il comportamento del giudice, cioè la prontezza di Dio nel far giustizia ai suoi discepoli.

 

Infatti la figura principale non è la vedova, ma il giudice. Vedete, il punto centrale della parabola è la certezza dell’esaudimento. Se un uomo cattivo come quel giudice, che non aveva timore di Dio e non si curava di nessuno, si lascia alla fine, ridurre a fare giustizia dalla preghiera di una povera vedova, tanto più Dio esaudirà le implorazioni dei suoi figli.

Se leggiamo la parabola in questo senso, comprendiamo che l’avere scelto come personaggio di riferimento un giudice senza coscienza e insensibile, non è stata una stranezza di Gesù. Gli serviva per dare forza al suo confronto. La richiesta della vedova (una donna debole, ma forte della sua ostinazione) ci suggerisce poi che non si tratta di una preghiera qualsiasi, ma di una richiesta importante: "Fammi giustizia".

Nell’insistenza della povera vedova è racchiuso tutto il disagio dei buoni e degli onesti, che hanno l’impressione che Dio, anziché intervenire, resti indifferente. Dio Padre è il difensore dei deboli e degli oppressi che vivono in uno stato di persecuzione, in attesa dell’intervento liberatore.

 

"Ebbene,--risponde Gesù con la parabola,--continuate a pregare con insistenza e con fiducia, perché l’intervento di Dio Padre è certo". Non soltanto è certo, ma addirittura pronto: "Vi dico che farà loro giustizia".

Anche perché in quest’attesa paziente Dio vuole lasciare lo spazio alla conversione e alla salvezza. Ed è così che nasce il vero problema. Il fatto non è se Dio faccia giustizia sulla terra perché questo è sicuro. Il vero problema è se il Figlio dell’uomo, quando tornerà, troverà ancora fede? Come dire: "Non siate inquieti né scoraggiati, se Dio Padre sembra tardare, preoccupatevi piuttosto della vostra fede".

 

Di fronte all’apparente assenza di Dio, la comunità dei discepoli è nella condizione di ricevere Gesù come Salvatore e convertirsi quotidianamente?

Noi ben sappiamo che questa condizione si traduce in fede e coraggio nel testimoniare davanti agli uomini. Tale fedeltà si alimenta e si esprime nella preghiera costante e insistente. Una preghiera che non conosce depressioni e scoraggiamenti. Ecco allora che la parabola diventa insegnamento sulla preghiera, e la vedova, che con la sua insistenza strappa l’intervento al giudice, è un modello di perseveranza.

 

Può essere riduttivo tutto ciò, ma in compenso il messaggio è concreto:

"Attendere con fermezza e fiducia la venuta del figlio dell’uomo, cioè la giustizia, la liberazione definitiva in costante e coraggiosa preghiera".

Amen,alleluia,amen.

 

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SAMARITANO

 

Rammento di aver letto di un giovane che trovò una donna dentro una carcassa di automobile, in una delle tante bidonville alla periferia delle grandi città. Stava là dentro da oltre trenta giorni, malata, senza nessuno che l’aiutasse, in una sporcizia inimmaginabile. Il giovane cercò di aiutarla. Bussò alla porta di alcuni istituti di assistenza ma non trovò nessuno che l’aiutasse. Gli rispondevano:"Giovanotto, mi dispiace, ma non posso far niente per te". Oppure:"Anche se lo volessi, ragazzo mio, non potrei proprio aiutarti. Di notte noi qui non riceviamo nessun malato; a eccezione dei casi della mutua".

 

Alla fine, aiutato da un passante occasionale, mise la poveretta nella sua macchina e la portò lui stesso all’ospedale. Venne ricevuto da una suora che gli rispose: "Anni fa, quando eravamo noi a occuparci dell’ospedale, avrei potuto aiutarti, ma adesso, non posso fare assolutamente nulla".

La portò allora al pronto soccorso, e il medico di guardia disse:" Se mi metto ad aiutare questa donna, rischio di perdere il posto! Ma –pensò un po’, si grattò la testa, e decise –correrò il rischio!" Aiutò la poveretta, prestandole le prime cure: Quindi nei giorni seguenti riuscì a farla ricoverare in un istituto di accoglienza.

 

Un fatto della vita del tempo della Bibbia.

 

Gesù domandò al paralitico: "Vuoi essere guarito?"

Quello rispose:" Signore, non c’è nessuno che mi porti fino alla piscina, quando l’acqua incomincia a muoversi. Quando io arrivo laggiù, un altro è già entrato prima di me".

Il paralitico stava lì da 38 anni, aspettando sempre una mano amica che lo aiutasse a entrare nella piscina, per essere guarito dall’agitarsi delle acque. Aspettò 38 anni e nessuno venne ad aiutarlo. Gesù lo aiutò nell’ora giusta: "Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina con le tue gambe!"(Gv.5,1-9).

 

Approfondiamo il fatto della vita

 

Due casi simili: quella donna aspettò trenta giorni, sola, morente, in una automobile sfasciata, nella più lurida periferia; il paralitico aspettò 38 anni, tra gli altri ammalati, vicino alla piscina. Come può succedere una cosa simile?

Ascoltiamo cosa ha detto Gesù alla gente del suo tempo su questo problema

Molte persone sono solite mettere in pace la loro coscienza e, di fronte alla miseria della gente, trovano sempre una scusa giusta e ragionevole per esimersi dalla colpa. Facevano così anche i farisei. Dicevano di dover amare solo il prossimo e non gli altri. Il loro maggior problema era quello di sapere: chi era il prossimo?

 

LEGGIAMO COSA DICE GESU’ IN LUCA 10,25-37

Commento

Per commentare questa parabola dobbiamo tenere presente una verità inconfutabile e cioè che perfino il nostro mondo di credenti può diventare così contorto e aggrovigliato da farsi incomprensibile a noi stessi. A volte viviamo di frammenti cristiani, di approssimazione confuse, di nostre invenzioni religiose. Mai come in questi tempi nei quali c’è l’esplosione di sette esoteriche e sataniche abbisogniamo di chiarezza. Eppure i comandi e i decreti di Dio sono chiari, comprensibili. Non sono troppo lontani e alti. Solo la nostra meschinità intellettuale e morale riesce a oscurare la chiarezza e la bellezza della sua legge dell’amore. Il fatto è che per capirla, al di là delle varie spiegazioni e insegnamenti, e accoglierla bisogna con molta umiltà interiore sempre convertirci "con tutto il cuore e con tutta l’anima".

 

Noi siamo come il dottore della legge che è pieno di domande su Dio e sul prossimo. Gesù al quesito che gli viene posto (Lc.10,25-29) risponde che il centro della legge ha due facce indisgiungibili: l’amore di Dio e l’amore al prossimo.

Allo stesso tempo, però, fa notare che l’amore di Dio viene prima ed è totale (il prossimo è da mare e da servire. Non da adorare, come invece Dio); e che, infine, tutto ciò non costituisce in alcun modo una novità, essendo già presente nelle Scritture che lo stesso dottore della legge conosce.

 

Pare di capire che il dottore della legge non sia soddisfatto della risposta di Gesù. Il problema è più complesso: chi è il prossimo? Lui come noi del resto chiediamo: chi è il prossimo da amare? Il vicino? Il correligionario? Il sofferente? Il giusto? La persona che frequenta il cenacolo e la comunità? Il simpatico? I parenti? Ecc..

 

Il dottore della legge vuol sentire in proposito l’opinione di Gesù, che gli risponde proprio con il prosieguo della parabola (Lc.10,30-35).

Gesù non formula una casistica, non allunga la serie delle opinioni teologiche nel merito della questione. Racconta un esempio. Propone, infatti, un comportamento da imitare, e non va trasportato da un piano all’altro, da quello figurato a quello religioso, poiché è già esso stesso sul piano spirituale.

 

Ma occorre ancora fare un’osservazione generale prima di addentrarci nella rinarrazione della parabola. Il dialogo fra il dottore della legge e Gesù è costruito su uno schema molto significativo: domanda del dottore della legge (10,25) e controdomanda di Gesù (10,26), seconda domanda del dottore della legge (10,29) e seconda controdomanda di Gesù (10,36). Questo schema rende evidente una costante dei dibattiti di Gesù e, più profondamente una caratteristica della stessa rivelazione: le risposte di Gesù esigono che l’ascoltare cambi innanzitutto la direzione della sua domanda. Gli interrogativi dell’uomo sono troppo limitati per le risposte di Dio. Anche l’analisi di questa parabola mostra che Gesù non risponde direttamente alle domande del dottore della legge.

Quando mai Gesù risponde "soltanto" alle domande che gli vengono poste? Le sue risposte sono "oltre" e "più ampie".

 

Il sacerdote e il levita

 

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico: tra le due città ci sono mille metri di dislivello e circa trenta chilometri di strada attraverso l’arido e spopolato deserto di Giuda: un luogo ideale per le imboscate. Il viandante viene assalito, depredato e abbandonato mezzo morto.

 

Un sacerdote e un levita (tornavano dal loro servizio al tempio, con ogni probabilità) giungono sul posto e,scorto il ferito, lo evitano passando oltre, dal lato opposto. Insensibilità? O piuttosto desiderio di mantenere la propria purezza cultuale? Sappiate, infatti, che era prescritto (sempre le innumerevoli norme dei farisei) ai sacerdoti che prestavano servizio al tempio di mantenersi puri, e il sangue contaminava.

Ma perché Gesù sceglie, quali figure negative, proprio un sacerdote e un levita? Impossibile non ravvisare in questa scelta un’intenzione polemica: l’osservanza cultuale non deve distrarre dall’essenziale, cioè dall’amore per il prossimo, e la purezza che Dio vuole è la purezza dal peccato, dall’ingiustizia, non dal sangue di un ferito.

 

Il dottore della legge che stava ad ascoltare la narrazione, ha probabilmente pensato: i due hanno fatto quanto dovevano fare, è giusto anche se doloroso!

Gesù, invece, è di parere opposto: E questo mostra che la sua polemica non è indirizzata contro una classe religiosa, ma contro una prospettiva religiosa universalmente condivisa.

 

Il samaritano

 

Passa un samaritano, si ferma, si prende cura del ferito. Il samaritano è presentato come un modello, e lo stupore del dottore della legge, a questo punto, certamente dovette essere grande ( lo stupore dell’ascoltatore è sempre, o quasi, un segnale che la narrazione sta toccando un punto su cui occorre soffermarsi). I samaritani venivano considerati impuri, gente da evitare alla stregua del pagani. Nonostante questo (anzi proprio per questo), Gesù sceglie come personaggio-modello della parabola un samaritano, non un fariseo osservante. Si tratta di una seconda intenzione polemica: la bontà non ha confini, afferma Gesù, e gli esempi da imitare si trovano anche là dove non ce lo si aspetta, perché Gesù è libero da ogni pregiudizio. Il bene non è tutto da una parte e il male dall’altra. Gesù riprende questo concetto successivamente in Luca 17,11-19. Egli risana dieci lebbrosi, ma uno solo torna indietro a ringraziarlo: "Era un samaritano" E Gesù osserva: "Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?"

 

Il samaritano è chiamato straniero "di altra razza", dice il testo alla lettera, ma la differenza era anche di tipo religioso. Ebbene, proprio questo straniero, di altra razza e di altra fede, è l’unico dei dieci che si ricorda di dar gloria a Dio: un privilegio, questo, che i giudei pensavano spettasse soltanto al loro popolo.

Ma ritorniamo al nostro racconto. Indirettamente la parabola lascia intendere che il prossimo da aiutare è qualsiasi bisognoso che si incontri. Potrebbe essere questa la risposta diretta alla precisa domanda al dottore della legge: "Chi è il mio prossimo?".

 

L’attenzione di Gesù è però rivolta altrove. Dell’uomo bisognoso dice soltanto che giaceva sulla strada derubato, ferito e mezzo morto. Che altro è necessario sapere? La narrazione indugia piuttosto sulla figura del samaritano. E si sofferma nel descrivere non chi egli sia, bensì che cosa abbia fatto. Quando una narrazione, prima scattante, a un certo punto rallenta dilatandosi, è perché si è giunti alla scena più importante, che va considerata senza fretta. Infatti, l’attenzione cade sul comportamento del samaritano: vede il ferito, sente compassione, si avvicina, fascia le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura, lo porta a una locanda, si prende cura di lui, paga l’albergatore.

 

Praticamente è come se a Gesù poco importasse la domanda del dottore della legge ("chi è il mio prossimo"), e rispondesse invece a un’altra: come devo comportarmi nei confronti del prossimo? Che significa amare il prossimo? L’attenzione di Gesù è concentrata sul grande comandamento –amare Dio e il prossimo--, non sulla curiosità teologica del dottore della legge.

Vedete, il samaritano non si è chiesto chi era il ferito, e il suo aiuto è stato disinteressato, generoso e concreto. Ecco che cosa significa amare il prossimo. Non a parole, ma gesti concreti. Amare il prossimo vuol dire prendersi interamente a carico la sua condizione.

 

Che a Gesù stia a cuore il "che cosa fare" è indicato anche dalle due risposte date al dottore della legge: "Hai risposto bene, fa questo e vivrai" (10,28); "va e anche tu fa lo stesso" (10,37). Il dottore della legge tentava di spostare la domanda dal fare alla teoria, Gesù lo riporta al fare.

 

Chi dei tre si è fatto prossimo?

 

Si direbbe che, a questo punto, il discorso sia chiuso. E’ stata fatta una domanda (chi è il prossimo?) ed è stata data la risposta (il bisognoso che si incontra). Invece, giunto alla conclusione (10,36), Gesù pone inaspettatamente un’altra domanda, che racchiude un ultimo insegnamento, forse il più importante. E’ una domanda formulata in modo diverso da come l’ascoltatore si aspetterebbe. Non: "chi dei tre ha saputo vedere nel ferito il prossimo da amare?, bensì: "Chi di questi tre ti sembra si sia fatto prossimo a colui che è incappato nei briganti?".

In questo modo la domanda del dottore della legge viene ulteriormente spostata: prima dalla teoria alla pratica, ora dall’esterno (chi è l’altro?) all’interno (chi sono io?).

 

Per Gesù chiedersi chi sia il prossimo è in definitiva un falso problema: il prossimo c’è, vicino, visibile, però occorrono occhi capaci di scorgerlo.

Il vero problema è che noi dobbiamo farci prossimo di chiunque, abbattere le barriere e le differenze che abbiamo dentro di noi e che costruiamo fuori di noi. Dobbiamo comportarci come il samaritano che si è sentito prossimo, coinvolto, fratello nei confronti di uno sconosciuto. Il dottore della legge, che aveva una curiosità teologica da soddisfare, si è visto invitato a convertire se stesso.

 

Questo significa anche ritornare alla chiarezza della legge di Dio.

Non chiediamoci quanto gli altri possono darci, ma quanto noi stessi possiamo dare agli altri. Se la società in cui viviamo ci sembra ostile forse dovremmo seriamente chiederci quanto noi siamo duri con chi ha bisogno di noi.

Amen,alleluia,amen.

 

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CHICCO DI SENAPA

 

IL FATTO DELLA VITA

 

"Sono stato io che, dieci anni fa ho messo un nocciolo di albicocca in fondo all’orto", disse il nonno al nipotino."Per questo, adesso tu vedi questo albero così rigoglioso, che dà frutti per la famiglia intera".

 

Esistono cose nella vita, cui non si dà importanza: una sola goccia di profumo riempie tutta la stanza di un’aria gradevolissima; un pizzico di fermento fa lievitare tutta la pasta del pane; qualche goccia di quaglio è sufficiente per far coagulare molti litri di latte; l’esplosione di un solo atomo distrugge un’intera città; un chicco di granoturco produce una pannocchia piena di chicchi; un piccolo errore nel conteggio ha fatto crollare edifici e cavalcavia ecc..ecc..

Sono piccole cose, che generano grandi cose: Così avviene nella natura, così succede pure nella vita. Così è oggi, così era al tempo di Gesù.

 

Nota: Chi disprezza il seme, perché tanto piccolo, non arriverà mai a vedere i frutti, che potrebbero saziare la fame. Ci sono tanti piccoli semi nella nostra vita, di cui neppure ci accorgiamo. Per cui, corriamo il rischio di perdere il futuro che andrà a vantaggio dei nostri figli.

Gesù ci viene in aiuto, per chiarire il problema. Ascoltiamo ciò che egli dice.

 

DAL VANGELO DI MARCO 4,30-32 E MATTEO 13,33 LEGGIAMO LE PARABOLE.

Commento

Le due parabole sono un invito alla speranza e alla fiducia che si fondano non sui calcoli delle probabilità o sulle previsioni della futurologia, ma sulla fedeltà e potenza di Dio che si è manifestata nella storia.

Nonostante gli umili inizi dell’azione di Dio per rendere manifesta e operante la sua giustizia e il trionfo della libertà della persona e nell’opera di Gesù, la sua manifestazione finale condurrà tutta la storia umana nella piena giustizia e libertà.

Nel breve racconto compaiono tre personaggi:il seminatore (sottinteso), il seme, gli uccelli. Tutta l’attenzione cade però sul seme. Va precisato che il Regno non è paragonato al seme in questo contesto, ma alla storia del seme. Essa,ovviamente, non può che svolgersi in tre tempi: la semina, la crescita, l’albero fatto. Nella parabola si parla di tutti e tre i momenti, ma l’attenzione è richiamata soltanto sul primo e sull’ultimo: sulla proverbiale piccolezza del seme e sulla straordinaria grandezza dell’albero. L’essenziale è racchiuso nella opposizione "il più piccolo-il più grande". Nulla viene detto del processo di sviluppo. Stando a questa parabola, non c’è traccia di evoluzione nel cammino del Regno, ma immediatezza.

 

Lo scopo della parabola non è di consolare i credenti che vivono in un oggi senza senso, deludente e scoraggiante, assicurando loro un avvenire grandioso che li ripagherà di ogni fatica. Lo sguardo verso il futuro è volto a spiegare il senso positivo, ma nascosto, dell’oggi. Certamente non si comprende l’oggi se non si guarda al futuro, come non si comprende la qualità del,seme se non si conosce l’albero. Tuttavia, non è l’albero che dà la forza al seme, ma viceversa.

L’albero fa semplicemente capire la forza che il seme già possiede in se stesso.

Così è l’inizio, l’evento di Gesù, nell’economia del Regno. La grandiosità del Regno futuro non è il "riscatto" del fallimento di Gesù, ma il modo in cui appariranno la forza e lo splendore racchiusi nella sua storia.

 

Analogamente si deve dire dell’oggi nella storia. Fra la grandezza del futuro e la piccolezza dell’oggi c’è un nesso. Il contrasto sottolineato dalla parabola non significa rottura, tanto meno sostituzione, ma spiega la natura della connessione, la sua impensabile profondità. Una lettura intelligente della parabola esige che insieme (e non separatamente) si guardi al contrasto e al nesso. Letta in tal modo, si comprende che la parabola non suggerisce di guardare al domani per consolarci della mancanza di senso dell’oggi, ma per scoprire il senso che già appartiene all’oggi.

 

La parabola è rivelazione prima che avvertimento. Ma è anche avvertimento.

Nell’ambito del Regno di Dio i criteri della grandezza e dell’apparenza non servono per valutare ciò che conta e ciò che non conta, ciò che un futuro e ciò che non lo ha. I discepoli non devono fare propri i criteri del mondo, inseguendo sogni di grandezza e confondendo la forza del Regno con il fascino del potere o del numero o del prestigio. Al contrario, la parabola è un richiamo al valore decisivo delle occasioni normali, umili e quotidiane, che formano il tessuto abituale della vita. La sua apparente banalità non deve diventare motivo di trascuratezza. Il Regno di Dio è qui, in questa realtà, soprattutto nell’organismo visibile del mondo interiore invisibile.

 

Nel NT il lievito, che fa fermentare la pasta, è per lo più una immagine negativa: basta un poco di male per rovinare una grande quantità di bene (1^Cor.5,7-8; Gal.5,7-10; Mt.16,6-12). Sorprendentemente la parabola rovescia l’immagine. (Capovolgere le immagini è quasi sempre segno di genialità). Cioè, serve a sorprendere e catturare l’attenzione. E, soprattutto, serve a mostrare il senso nascosto, non ovvio, delle cose. Il significato recondito della parabola è che anche il bene è contagioso, non soltanto il male. Forse, anzi senza forse, non è un caso che Gesù abbia usato il verbo "nascondere" per descrivere il gesto della donna che mette il lievito dentro la pasta. La presenza del Regno è nascosta, velata, come quella del lievito nella farina.

 

Gesù ha racchiuso l’intera parabola in una sola frase. Così la narrazione è agile, essenziale, tutta orientata al centro. Gesù non concede distrazioni. Il centro è il contrasto tra la piccola quantità di lievito e la grande massa di farina. La meraviglia nasce dal fatto che una realtà tanto piccola ne produca una tanto grande. Il punto è l’insospettata forza del lievito. Di tutto il resto si tace: neanche un accenno, per esempio, alla progressività della fermentazione o al tempo che essa richiede. Già questo basta a farci comprendere che la lievitazione di una così grande massa di farina non va sbrigativamente identificata con una progressiva, e infine totale, cristianizzazione del mondo. Il lievito trasforma, la sua forza è sorprendente, ma non si deve pretendere di osservare i progressi momento per momento. Solo se si ha la pazienza di attendere fino al mattino, ci si accorgerà che, durante la notte, il lievito ha fatto fermentare la pasta.

 

La grande quantità di pasta fermentata svolge la stessa funzione del grande albero nella parabola precedente. Non intende distoglierci dall’inizio né consolarci per la sua pochezza, ma rivelarci la sua insospettata potenzialità. Perciò, anche questa parabola è teologica, rivelazione prima che avvertimento.

Nell’inizio c’è già tutta la forza trasformante che si constaterà alla fine: questa è la rivelazione. L’evento di Gesù, e ancora oggi il Vangelo nel mondo, può sembrare piccola cosa (basta guardarsi in giro), ma non è così. Di qui l’avvertimento: non bisogna lasciarsi sedurre dalla grandezza, né farsi abbattere dalla piccolezza. La forza del Vangelo è diversa da quella del mondo: diversa perché nascosta, mentre la potenza mondana s ostenta; e diversa perché straordinaria, al di sopra di qualsiasi possibilità che il mondo possa vantare.

Amen,alleluia,amen.

 

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SIAMO SEMPLICI SERVITORI

Luca 17,7-10

Chi di voi, se ha un servo ad arare o a custodire il gregge, quando questi ritorna dai campi gli dice: Vieni qua, presto mettiti a tavola? Non gli dirà invece: Preparami da cenare, cingiti la veste per servirmi finché io abbia mangiato e bevuto, poi mangerai e berrai anche tu? Egli si riterrà obbligato verso quel servo perché ha fatto ciò che gli era stato comandato? Così anche voi, quando avrete fatto tutte le cose che vi sono state comandate, dite: Siamo semplici servi. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare.

Commento

Dopo l’insegnamento sulla necessità e la forza della fede che non si tratta di accrescere quantitativamente, ma semmai di renderla più genuina, più vera, più incisiva tanto che basterebbe un pizzico di essa per fare cose impossibili, proprio come l’immagine paradossale dell’albero sradicato e piantato nel mare, traduce in senso figurato la forza della totale fiducia in Dio.

A seguire ecco la parabola non certo priva di sviluppi.

Apparentemente Dio si comporta come certi agricoltori incontentabili che sempre chiedono e pretendono e non concedono un attimo di pace ai loro servitori.

Come possiamo osservare è un paragone urtante nel quale Dio fa la figura di un agricoltore esoso, poiché il suo servo è senza diritti alla ricompensa e alla riconoscenza. Tuttavia, non è questa la prospettiva della parabola, anche se Gesù si serve di esperienze reali per parlare di altro. Il suo scopo non è di offrirci una rivelazione su Dio e nel suo comportamento.

Gesù non valuta il modo di agire dell’agricoltore: che a quel tempo i datori di lavoro si comportassero come l’agricoltore era un fatto abituale. Però la loro condotta serve a Gesù per costruire la parabola.

In ogni caso per non confondere le idee, la lettura del Vangelo ci dimostra che Dio è l’esatto opposto di quell’agricoltore poiché i tratti del suo volto si sono, infatti, rivelati in Gesù, che è venuto a servire e non a farsi servire e che ha vissuto una vita simile a quella del cameriere che sta in piedi e che serve, non dell’agricoltore che siede a tavola.

Allora cosa ci suggerisce la parabola?

Ci suggerisce l’atteggiamento semplice del discepolo all’interno della comunità e il comportamento verso Dio, che dovrebbe essere di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti, vale a dire un servizio disinteressato e gratuito. Poiché non si serve il Vangelo con lo spirito del salariato: tanto è il lavoro e tanta la paga, nulla di più nulla di meno.

Come possiamo notare, si tratterebbe di una fede religiosa mercantile e pretenziosa, soprattutto quanto più nella comunità un certo ruolo o un certo servizio ha una responsabilità.

Gesù vuole che i suoi discepoli (la parabola era rivolta ai suoi apostoli) affrontino coraggiosamente e in piena disponibilità le esigenze del Regno dei cieli senza pretendere contratto a prestazione.

Alla fine della giornata di lavoro non dovremmo dire: abbiamo finito, né accampare scuse o quant’altro; non dobbiamo vantarci o fare confronti con gli altri. Dovremmo solo potere affermare: ho fatto il mio dovere!


Amen,alleluia,amen.

 

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