Parabole

 

 

 

I vignaioli omicidi

Grano e gramigna

Sale della terra

Gesù e la Samaritana

Il Fariseo e il Pubblicano

 

 

 

 

 

I VIGNAIOLI OMICIDI

 

Marco 12,1-12

"Incominciò poi a parlare loro in parabole:
Un uomo piantò una vigna, la cinse di siepe, scavò un frantoio e vi edificò una torre;
quindi l'affittò a vignaioli e partì.
A suo tempo mandò dai vignaioli un servo a ritirare i frutti della vigna.
Ma quelli lo presero, lo percossero e lo rimandarono a mani vuote.
Di nuovo egli mandò loro un altro servo.
Anche quello lo percossero al capo e lo insultarono.
Ne mandò pure un altro, ma essi lo uccisero.
Gli restava ancora il suo figlio diletto; lo mandò loro per ultimo, dicendo:
Avranno rispetto di mio figlio.
Ma quei vignaioli si dissero l'un l'altro:
Questi è l'erede; venite uccidiamolo, e l'eredità sarà nostra.
Lo presero, l'uccisero e lo gettarono fuori dalla vigna.
Che farà dunque il padrone della vigna? Verrà e sterminerà quei vignaioli e darà la vigna ad altri.
Non avete letto nella Scrittura: La pietra che scartarono i costruttori è divenuta pietra angolare; ciò è avvenuto per opera del Signore ed è mirabile agli occhi nostri?
E cercavano di arrestarlo, ma temevano la folla. Infatti avevano ben compreso che aveva detto quella parabola per loro. E, lasciatelo, se ne andarono".

 

Commento

Il profeta Isaia (5,5) nel suo celebre canto aveva descritto una vigna nella quale il padrone aveva riversato le più amorevoli cure, scegliendone il luogo in un terreno fertile, ripulendolo dai sassi e dagli sterpi, piantandovi la vite scelta, cintandola poi con un recinto di protezione e all'interno, in posizione favorevole, una torre dalla duplice funzione: guardia in cima e una pressa a livello di terra. Ma nonostante la cura la vigna produceva acri grappoli invece di uva dolce.


La spiegazione del canto allegorico ricordava che l'ingrata vigna era la nazione d'Israele e il suo padrone era Jahvè; il quale però, esasperato dalla sterilità della vigna, ne avrebbe abbattuto il recinto abbandonandola alla distruzione con conseguente crescita di rovi e spine.


La parabola è ripresa, ampliata e portata a compimento da Gesù che l'ha inserita in una cornice fortemente polemica. Non era necessaria la perizia dei Farisei nelle Sacre Scritture e la loro conoscenza della storia religiosa della propria nazione per comprendere all'istante che la vigna in oggetto era Israele, il padrone Dio, e i servi malmenati o uccisi erano i profeti, le cui morti violente formavano un lungo elenco necrologico all'interno delle pagine delle Scritture.
Oltre alla parte inerente il passato Gesù vi ha aggiunto, come conclusione, una parte riguardante il futuro, cioè che lo stesso figlio, inviato per ultimo dal padrone della vigna, viene percosso e ucciso. Gesù si è implicitamente svelato come Figlio di Dio, accusando in anticipo i colpevoli del loro futuro omicidio.


Si tratta della dichiarazione di autorità.
Alla non più velata minaccia sottintesa nel racconto sulla sua autorità, Gesù oppone il suo insegnamento circa il piano e il progetto di Dio, legato in modo unico e inscindibile al suo destino che si trasforma in giudizio storico per coloro che tentano di contrastare il fine ultimo dell'azione di Dio.
Tutto ciò viene esposto con una forma che utilizza immagini classiche della tradizione biblica: la vigna è il Regno di Dio, i servi i profeti, il proprietario della Vigna è Dio Padre, i vignaioli l'umanità intera con i suoi capi, i frutti la fedeltà alla legge di Dio portata a compimento da Gesù (la nuova ed eterna alleanza).


Il racconto si ispira alla tradizione socio-economica della Palestina del primo secolo. Gran parte della Galilea apparteneva a pochi proprietari stranieri. La lontananza dei padroni favoriva la rivolta dei coloni, che si rifiutavano di consegnare al proprietario della vigna il raccolto conforme al contratto di affitto e accolgono gli inviati del padrone a bastonate. Ma il racconto di Marco evidenzia il crescendo dell'ostilità violenta: oltraggi, percosse, omicidio. Tutte queste azioni contrastano con la pazienza, sembrerebbe incomprensibile, del padrone, il quale dopo l'invio fallimentare di molti servi, decide in ultima analisi di mandare in missione suo figlio, l'unico, il diletto, l'erede.


Come possiamo già notare risalta l'immagine del figlio erede che per noi cristiani fa emergere prepotentemente il ruolo e il destino storico di Gesù, l'ultimo inviato, oltraggiato e ucciso da quelli che pretendevano di gestire la vigna, ossia quel regno che doveva restare un dono di Dio Padre.
La forza del racconto è racchiusa nell'intreccio intelligente di tre azioni: la prima tra il padrone e i contadini; la seconda tra i servi e il figlio; la terza è intorno all'atteggiamento del padrone.


Il padrone e i contadini sono gli unici personaggi del racconto che agiscono e parlano. Dei servi e del figlio si narra la sorte che subiscono, ma di loro non viene riportato né un gesto né una parola. La storia infatti si svolge tra il padrone e i contadini. Il padrone ha la parola per primo e per ultimo: sua è l'iniziativa, come già abbiamo visto, di piantare una vigna e poi di inviare i servi, sua è anche la decisione finale di punire i contadini. Fra questi due punti, che appartengono esclusivamente al padrone, sono descritte due ostinazioni: da una parte il ripetuto tentativo del padrone di ottenere i frutti della sua proprietà, dall'altra il testardo rifiuto dei contadini di darglieli. Un primo insegnamento lo possiamo già trarre: i servi della parabola, come i profeti di Israele, non sono rifiutati, percossi e uccisi in ragione di qualche loro pretesa personale, ma unicamente perché inviati da Dio e portavoce delle sue esigenze. Ecco perché Gesù li fa agire senza parole e senza gesti: essi non sono figure autonome, ma il tutto viene rinviato a Dio.


I servi e il figlio, visti attraverso l'atmosfera di contrasto tra il padrone e i contadini, la parabola racconta una storia che rinarra quella del popolo ebraico: la fedeltà a Dio, l'infedeltà del popolo, il giudizio. Nel racconto si distinguono palesemente due parti: una prima nella quale si parla della missione dei servi, e una seconda dove viene descritta la missione del figlio. Gesù ha cura di distinguere chiaramente le due missioni. Anche perché diversamente da quello dei servi, l'invio del figlio è seguito dalla riflessione del padrone e anche la reazione omicida dei contadini è preceduta da una riflessione.
Altra cosa da tenere presente è che per il padre è il figlio amato mentre per i contadini è l'erede; inoltre la sua missione è l'ultima.
In ultima analisi, se prima la parabola poteva apparire come una semplice rinarrazione della storia di Israele, ora, a questo punto, risulta essere il suo vertice. E rispetto al canto di Isaia, vanta una novità fondamentale: Dio ha inviato il Figlio, non solo i profeti; e il popolo ha rifiutato il Figlio, non solo i profeti.


L'atteggiamento del padrone è paziente, ostinato. Egli spera fino all'ultimo: "Rispetteranno mio figlio!". Tuttavia anche la sua pazienza ha un limite e non può accettare che la violenza dei contadini continui all'infinito. Non gli resta che andare di persona per infliggere un severo castigo: "Verrà e sterminerà i contadini e darà la vigna ad altri".
Per il profeta Isaia il giudizio finale è l'abbandono, mentre Gesù vi aggiunge un secondo tratto che svela un mistero: la vigna sarà data ad altri. In pratica il dono del regno di Dio passa da Israele ai pagani. Qualcuno potrebbe obiettare: non è Israele il popolo della promessa, al quale Dio ha giurato fedeltà?. La risposta è che Dio è fedele, certo, ma la sua fedeltà non può prescindere dal giudizio. Dio non abbandona il suo popolo, ma, anzi, è il popolo che ha rifiutato Dio.
Questo stile dell'azione di Dio vale per tutti i tempi. Contesta la sicurezza e i privilegi anche di una comunità cristiana, che pretenda di possedere in modo irreversibile il monopolio del regno di Dio. L'unica garanzia è quella legata alla fedeltà e gratuità di Dio e alla libera fede dell'uomo.


In definitiva, Gesù, come il figlio della parabola , è una pietra scartata dai costruttori, ma, nel progetto ultimo di Dio, è diventato la pietra d'angolo, che tiene unito e dona saldezza a tutto l'edificio.
La conclusione della parabola mette in luce la forza critica della parola di Gesù. Non si tratta di comprendere una teoria, ma di accogliere una persona. Ecco perché i capi, contro i quali direttamente è rivolto il racconto, comprendono il suo significato polemico ma non riescono ad accogliere la sua proposta salvifica. La parola di Gesù esige una decisione. Non esiste neutralità davanti alla sua persona. La parola di Gesù è selezionatrice, perché provoca la risposta dell'uomo.
Concludo con alcune domande: noi oggi ci identifichiamo nei contadini o nei servi? Accogliamo la proposta salvifica di Gesù?

Amen,alleluia,amen.

 

torna

 

 

 

 

DEL GRANO E DELLA GRAMIGNA

 

IL FATTO DELLA VITA

 

"Non capisco. Ho pulito il selciato appena tre giorni fa. Ho sradicato tutta la gramigna. Ma è bastata una pioggia, ed eccola di nuovo, è già rinata. Non riesco a levarla definitivamente".—disse Giovanni all’amico che lo stava guardando. -

"Proprio così!—rimbeccò una donna che passava lì nei pressi—assomiglia ai nostri figli. Si cerca di educarli il meglio possibile e, poi, loro ne combinano di quelle, che non si sa da dove siano uscite. E non c’è verso di cambiarli. Il male è mescolato al bene che esso fanno. Non si sa davvero cosa fare!".

 

E’ vero: ci sono certe cose nella vita che non si possono spiegare e non si sa da dove siano uscite. Anche al tempo di Gesù, era lo stesso.

Gesù parla delle erbacce che crescono in mezzo al grano o al riso. Nessuno sa da dove vengano. Facciamo grandi sforzi perché tutto vada bene, ma sempre salta fuori qualche cosa che rovina la festa: dalla gramigna sul selciato alle cattiverie dei figli, dall’influenza ai buchi della strada, dal salario insufficiente alle baracche ammonticchiate accanto ai palazzi dei ricchi, dai mendicanti all’opulenza dei più. Il male si mescola al bene.Nessuno sa dire dove nasca. O meglio, nessuno se ne vuol far carico, dal momento che può turbare le coscienze dei più. E’ impossibile separarli. Che fare? Lasciare le cose come stanno, per vedere come va a finire?

 

NOTA: La vita è piena di erbacce e di gramigna; i mali sono tanti. C’è chi perde la testa, c’è chi si accomoda. Alcuni vorrebbero eliminare i mali col ferro e col fuoco, altri incrociano le braccia e dicono:"Tanto non ci si riesce. E’ Dio che vuole così. Pazienza".

Ascoltiamo ciò che Gesù ci dice.

 

DAL VANGELO DI MATTEO 13,24-30 LEGGIAMO LA PARABOLA

Commento

Il racconto parabolico si basa su una serie di antitesi tra il proprietario del campo e il suo avversario, tra il grano e la gramigna, tra il tempo presente della semina e della crescita e il tempo futuro della mietitura, tra il granaio dove finisce il grano e il fuoco dove è bruciata la gramigna. Ma il motivo centrale del racconto è il dialogo tra il proprietario e i servi, più esattamente l’impazienza di questi e l’atteggiamento paziente di quello. La parabola vuole evidenziare l’imprevidenza dei primi e la saggezza del secondo, che comprende come sia impossibile estirpare subito la gramigna senza danneggiare anche il grano.

 

Che cosa intendeva dire Gesù?

Cristo aveva annunciato la venuta del Regno di Dio. Aveva compiuto i segni miracolosi che lo rendevano presente. L’ora decisiva della salvezza era suonata nella sua attività messianica. Una febbrile attesa aveva contagiato gli ascoltatori. Anche perché secondo la parola dei profeti il Messia avrebbe riunito attorni a sé una comunità di puri e di santi, dopo avere condannato i peccatori alla perdizione ultima. Sennonché nessuna comunità di santi era stata da lui costruita. Né egli aveva condannato al fuoco eterno i peccatori. Anzi gli accoglieva, rifiutandosi di fare il giudice definitivo separatore dei buoni dai malvagi. E Gesù dovette fronteggiare tale impazienza messianica. Lo fece con questa parabola, distinguendo fra il tempo presente, in cui buoni e malvagi vivono gomito a gomito nel mondo, e il tempo futuro, l’ultimo della separazione definitiva.

In questo modo ha indicato il significato del nostro oggi come tempo di coesistenza di buoni e malvagi, di puri e peccatori, di bene e di male. Non solo, è esclusa una comprensione della storia in cui sia possibile operare la netta separazione tra bene e male. Sarebbe confondere la nostra era con il giorni ultimo. Il presente storico significa semina del buon grano e,purtroppo, della gramigna; crescita dell’uno e dell’altra indissolubilmente vicini.

 

Vale a dire che nello stesso campo opera il seminatore che sparge buon seme e l’avversario che semina gramigna. Dal racconto emerge anche che Gesù è colui che getta le basi del Regno di Dio; e che adesso è il tempo della misericordia, dell’accoglienza dei peccatori, della conversione proposta a tutti, della liberazione donata agli schiavi del peccato.

Fatta questa premessa, entriamo nel dettaglio della parabola.

Essa prende l’avvio da una constatazione: con stupore i contadini si accorgono che nel campo del padrone è cresciuta anche la gramigna. Il dialogo si articola in due battute, botta e risposta. Il punto di forza della parabola va cercato nel dialogo, non nella storia.

 

Tuttavia è la storia a provocare le due domande che i servi pongono al padrone.

La narrazione si distende su tre tempi: il momento in cui avvengono le cose sulle quali poi, i servi e il padrone discorreranno; il momento del dialogo in cui il padrone e i servi confrontano i loro rispettivi punti di vista; il tempo futuro della mietitura e del giudizio.

Il primo momento è l’antefatto, presente come problema, ma del tutto passato come avvenimento. Nell’economia della parabola rappresenta ciò che l’ascoltatore deve sapere, non ciò su cui deve fermare la propria attenzione. Questo primo momento è del tutto funzionale al secondo.

Anche il terzo momento è relativo al secondo: Gesù anticipa ciò che accadrà non perché vuole che l’ascoltatore vi si concentri, ma per prospettare una ragione che possa fargli accettare l’inatteso atteggiamento del padrone.

 

Il tempo centrale, sul quale la narrazione indugia costringendo l’ascoltatore a fare altrettanto, è il secondo. Infatti i verbi della parabola sono tutti al passato, eccetto il futuro "vi dirò" con il quale il padrone anticipa l’ordine che, a tempo opportuno, impartirà ai mietitori, e il presente "dicono" che introduce la seconda domanda dei servi. Gesù qui è ricorso al presente per sottolineare l’intensità di questa domanda.

"Mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico e seminò gramigna in mezzo al grano e se ne andò".

La presenza della gramigna nel campo di grano, anche se i servi mostrano di esserne sorpresi, non è il tratto più inatteso del racconto. Il padrone, infatti, non ne è sorpreso, e risponde semplicemente:"Un nemico ha fatto questo". Né è inattesa l’affermazione che alla fine, al tempo della mietitura, grano e gramigna saranno accuratamente separati: il grano accolto nel granaio e la gramigna gettata nel fuoco.

 

La vera meraviglia dell’ascoltatore e del lettore, e quindi il vertice della tensione drammatica della narrazione, nasce alla seconda risposta del padrone, che ordina di non strappare la gramigna, ma di lasciarla crescere insieme al grano.

Ma perché il padrone vuole diversamente?

Ad una lettura del racconto, scopriamo che la punta del dialogo è il secondo botta e risposta. Tuttavia, anche la prima domanda è molto seria, e la meraviglia dei servi giustificata:"Signore, non hai seminato buon seme nel tuo campo? Donde proviene la gramigna?".

 

Nella sua genericità questa domanda è universale e antica quanto l’uomo: se Dio è buono, perché esiste il male nel mondo? Ma collocata nel contesto specifico del Vangelo, la stessa domanda acquista un senso del tutto particolare: se il tempo messianico è giunto, perché ancora il peccato nel mondo, persino nella comunità cristiana? Che Dio permetta al male di convivere col bene lo si sapeva. Lo sconcerto è che anche l’ultimo intervento di Dio, quello che si immaginava diverso, non abbia cambiato le cose. Non doveva essere il tempo in cui Dio avrebbe finalmente instaurato la giustizia nel mondo? E invece anche il tempo messianico continua a sembrare un tempo in cui Dio promette soltanto. La presenza del Regno sembra ancora nell’ordine dei segni, o della profezia, non del compimento.

 

All’interrogativo dei servi, che vogliono conoscere il perché della presenza della gramigna (il male), il padrone risponde laconicamente:"Un uomo nemico ha fatto questo". Come a dire: non è colpa mia. Non aggiunge altro, perché l’essenziale è detto.

Cioè, la domanda più importante non riguarda l’origine del male (che risale al gesto di superbia dell’uomo nei confronti di Dio), ma come vivere nella storia, dove il bene e il male crescono insieme. Il primo è un problema tecnico, il secondo è un problema pratico. La parabola indugia su quest’ultimo.

 

In ultima analisi la presenza della gramigna non è volontà del padrone, ma dispetto di un nemico, non sarebbe logico strapparla? Così pensano i servi:"Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?". Ma il modo di ragionare del padrone è diverso.

In definitiva Gesù non vuole che i suoi discepoli si assumano il compito di mietitori, semmai quello di seminatori. Gesù, come il padrone, non nega la necessità della separazione. Dice semplicemente che il tempo non è giunto, e che il compito di separare non spetta agli uomini.

La presenza della gramigna nel campo è opera di un nemico, ma permettere che essa cresca insieme al grano è precisa volontà del padrone. La novità della parabola sta qui, in questo comando del tutto inatteso, accompagnato da una giustificazione non priva di ironia: "Perché non abbiate a distruggere il grano insieme alla gramigna".

 

Il bene e il male, i santi e i peccatori crescono insieme, in un groviglio che non è facile sciogliere.

La morale è che non dovremmo comportarci come i farisei del tempo di Gesù che pretendevano di costruire il popolo santo di Dio (con le loro regole) separato dalla moltitudine dei peccatori da accogliere e indicare loro la strada.

 

SPIEGAZIONE DELLA PARABOLA MATTEO 13,36-40 LEGGIAMO.

Come abbiamo letto e meditato, Gesù lascia le folle, entra in casa e la sua parola è riservata ai discepoli. Il brano si divide nettamente in due parti.

I vers.37-39 sono una specie di arido vocabolario che identifica sette elementi della parabola: il seminatore del buon seme è Gesù, il campo significa il mondo, alla buona semente corrispondono i figli del Regno, alla gramigna i figli del maligno, nell’avversario si identifica il demonio, nella mietitura la fine del mondo, i mietitori simboleggiano gli angeli.

La seconda parte vers.40-43 è una sintetica descrizione di carattere apocalittico del giudizio ultimo, quando con gesto sovrano il Figlio dell’uomo opererà la separazione definitiva tra gli uomini, assegnando agli uni la vita eterna e agli altri la condanna.

 

Soltanto il Figlio dell’uomo e gli angeli sono rappresentati sempre dal proprietario e dai mietitori; al campo della semina invece fa riscontro rispettivamente il mondo e il Regno del Figlio dell’uomo, così ai figli del Regno corrispondono coloro che fanno la volontà di Dio, mentre ai figli di Satana corrispondono coloro che sono infedeli alla Parola di Gesù.

Non solo, la parabola della gramigna, che contraddice l’impazienza messianica del popolo e dei discepoli, diventa ora una presentazione del giudizio nel suo esito opposto di condanna e glorificazione, descritto con immagini forti.

 

A questo punto il centro di interesse viene spostato dal presente, che il racconto di Gesù intendeva come tempo di coesistenza di buoni e malvagi, al futuro. In primo paino non appare più la semina, né la crescita simultanea di grano e gramigna, ma la mietitura che raffigura la separazione definitiva degli uomini.

 

Il tempo, fratelli e sorelle, ha spento gli entusiasmi delle origini, e di fronte ai peccati e alle defezioni la comunità dei credenti rischia di diventare indifferente: non più la meraviglia e lo scandalo, ma l’adattamento e la modernizzazione. Non più la tentazione della rigidezza, ma quella della confusione. L’appartenenza alla comunità cristiana non garantisce in sé la salvezza finale. Il giudizio non avverrà infatti in base ai criteri di carattere religioso o confessionale, ma secondo il metro significativo del comandamento dell’amore al prossimo. E’ nostro dovere combattere la falsa sicurezza dei cristiani che, fiduciosi negli elementi istituzionali e sacramentali della Chiesa, trascurano concretamente l’insegnamento di nostro Signore Gesù Cristo e non confidano nello Spirito Santo di Dio, la terza persona che impersona l’amore per eccellenza.

Amen,alleluia,amen

 

torna

 

SALE DELLA TERRA

 

IL FATTO DELLA VITA

 

Riso e fagioli, tutti i giorni: però non ci si stanca e non viene a noia, perché il condimento li rende sempre differenti. E’ il condimento che dà gusto e sapore. Perfino nei cocktail succede la stessa cosa (quelli a base uguale), sono le aggiunte che li rendono di cento e altri sapori.

 

Cibo senza sale, motore senza benzina, candela senza stoppino, stanza senza luce, radio senza pile: tutte cose che non vanno bene. Come nella vita. Sono sempre le cose più piccole quelle che fanno funzionare le cose grandi. Un po’ di sale è sufficiente per dare sapore a molti chili di riso e fagioli.

 

Oggi, come al tempo di Gesù. Da buon osservatore Gesù sapeva approfittare di tutte le cose, trasformandole in mezzo di comunicazione del suo insegnamento sul Regno di Dio.

 

Nota: Spesso, la nostra vita somiglia al riso e fagioli senza condimento: tutti i giorni sono uguali. Una routine che nessuno sopporta. Non c’è gusto: sempre la stessa cosa, lo stesso lavoro, gli stessi bambini che piangono, la stessa scuola, la stessa strada, la stessa gente, lo stesso autobus. Non succede niente di interessante. Tanta gente ne soffre.

Ascoltiamo cosa ci dice Gesù.

 

DAL VANGELO DI MATTEO 5,13-16 E LUCA 11,34-36 leggiamo le parabole

Commento

Gesù in questi due brani del Vangelo dice che cosa rappresentano i discepoli per l’umanità. Il confronto dei credenti non si fa più con la rivelazione delle esigenze divine, ma con la propria responsabilità nei confronti del mondo.

L’accento cade sulle buone opere che i discepoli sono chiamati a compiere per essere luce e sale della terra. Questa prospettiva etica permette un certo collegamento con il Discorso della Montagna che abbiamo meditato.

Non solo, il quadro di pensiero che sta dietro sembra essere sapienziale. Infatti il sale era immagine della sapienza e il sale diventato insipido raffigurava una persona diventata stolta e insipiente.

 

Con ogni probabilità Gesù quando ha rivolto queste parole ai discepoli, in realtà, forse esprimevano la perdita di significato del giudaismo, e rivolte ai capi giudei, intendendo sottolineare la loro grave responsabilità di custodi infedeli della parola del Signore, per cui che essi non commettessero lo stesso errore.

 

Come possiamo ben comprendere non è difficile scoprire il tema di fondo di questa raccolta redazionale. I discepoli sono responsabili nei confronti di tutta l’umanità. Sena entrare nel merito della missione della Chiesa, bensì al significato che ha nel mondo la sua presenza come testimonianza di vita vissuta. Lo scopo è di portare gli uomini a riconoscere il Padre. Egli si rivela nell’esistenza operativa di coloro che fanno la sua volontà. Le buone opere non sono certo limitate a momenti religiosi e cultuali, ma sono l’espressività concreta propria dei discepoli che, imitando Dio nell’amore verso tutti, anche verso i nemici, si dimostrano figli suoi.

 

Sale e luce del mondo. Però sussiste il pericolo che si venga meno al grande compito, che si distrugga con le proprie mani la significatività dell’essere cristiani.

Può avvenire che non si mandi più fasci di luce a illuminare gli uomini e che non si insaporisca più l’esistenza. Il rischio, sempre incombente, è che non dica più niente di fecondo e illuminante per tutti, perché non si opera nella linea dell’esistenza propria dei figli di Dio che testimoniano con gesti d’amore disinteressati.

 

Ecco che Gesù scuote allora come oggi, soprattutto le comunità sparse nel mondo contro la stanchezza e la pigrizia. Le immagini sono molto chiare: il sale che diventa insipido, la luce nascosta, contengono in sé una chiara minaccia. L’abdicazione pratica dei credenti al loro compito di evangelizzare, di amare, di ricercare il "tesoro" con ogni mezzo, priva il mondo del beneficio della testimonianza cristiana, ma ha conseguenze gravissime anche per i credenti, saranno condannati nel giorno ultimo.

Amen,alleluia,amen.

 

torna

 

 

GESU' E LA SAMARITANA

I farisei avevano sentito dire che Gesù battezzava e faceva più discepoli di Giovanni. Quando Gesù lo seppe, lasciò il territorio della Giudea e se ne andò verso la Galilea. (Non era Gesù, però, che battezzava; erano i suoi discepoli). Per andare in Galilea, Gesù doveva attraversare la Samaria.
Così arrivò alla città di Sicar. Lì vicino c'era il campo che anticamente Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe, e c'era anche il pozzo di Giacobbe. Gesù era stanco di camminare, e si fermò seduto sul pozzo. Era circa mezzogiorno.
I discepoli entrarono in città per comperare qualcosa da mangiare. Intanto una donna della Samaria viene al pozzo a prendere l'acqua.
Gesù le dice: "Dammi un po' d'acqua da bere".
Risponde la donna: "Perché tu che vieni dalla Giudea chiedi da bere a me che sono samaritana?" (Si sa che i Giudei non hanno buoni rapporti con i samaritani).
Gesù le dice: "Tu non sai chi è che ti ha chiesto da bere e non sai che cosa Dio può darti per mezzo di lui. Se tu sapessi, saresti tu a chiederglielo, ed egli ti darebbe acqua viva".
La donna osserva: "Signore, tu non hai un secchio, e il pozzo è profondo. Dove la prendi, l'acqua viva? Non sei mica più grande di Giacobbe, nostro padre, che usò questo pozzo per sé, per i suoi figli e per le sue bestie, e poi lo lasciò a noi!"
Gesù risponde alla donna: "Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete. Invece, se uno beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; l'acqua che io darò diventerà per lui sorgente per l'eternità".
La donna dice a Gesù: "Signore, dammela quest'acqua, così non avrò più sete e non dovrò più venire qui a prendere acqua".
Gesù dice alla
donna: "Và a chiamare tuo marito e torna qui".
La donna gli risponde: "Non ho marito".
Gesù le fa: "Giusto. E' vero che non hai marito: Ne hai avuti cinque, di mariti, e l'uomo che hai ora non è tuo marito".
La donna esclama: "Signore, vedo che sei un profeta! I nostri padri, samaritani, adoravano Dio su questo monte; voi in Giudea, dite che il posto per adorare Dio è a Gerusalemme":
Gesù le dice: "Voi samaritani adorate Dio senza conoscerlo; noi in Giudea lo adoriamo e lo conosciamo, perché Dio salva gli uomini cominciando dal nostro
popolo. Ma credimi: viene il momento in cui l'adorazione di Dio non sarà più legata a questo monte o a Gerusalemme, viene un'ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il Padre guidati dallo Spirito e dalla verità di Dio. Dio è spirito. Chi lo adora deve lasciarsi guidare dallo Spirito e dalla verità di Dio".
La donna gli risponde: "So che deve venire un Messia, cioè il Cristo, l'inviato di Dio. Quando verrà, ci spiegherà ogni cosa".
E Gesù: "Sono io il Messia, io che parlo con te". (….)
Molti samaritani di quella città cedettero in lui per le parole della donna che dichiarava: "Mi ha detto tutto quello che ho fatto". E quando i samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti di più cedettero per la sua parola e dicevano alla donna: "Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo". (Gv.4,1-42).

 

Commento

 

L'episodio della Samaritana è il più lungo dialogo riportato tra tutti i Vangeli. Anzi, questo quadro della vita di Gesù, comprende, in realtà, due grandi dialoghi, inquadrati da alcuni versetti narrativi. E' importante che ha parlare con Gesù sia una donna, e che l'interlocutrice riunisca in sé una triplice irregolarità: è donna, poi è samaritana, quindi malvista; la sia vita, infine, non è stata irreprensibile.

I dialoghi si sviluppano secondo lo schema letterario dell'evangelista Giovanni: l'alternanza delle rivelazioni di Gesù e l'incomprensione degli uomini. Il colloquio è tutto un gioco che mette in luce la fatica intellettiva e del cuore dell'uomo di fronte al mistero di Dio, e la pazienza di Dio che non solo soddisfa le attese dell'uomo, ma le suscita.
Infatti, lo spazio relativamente ampio occupato dalla donna non deve ingannare: psicologia e vicende personali della samaritana che Gesù incontra non hanno un interesse autonomo per l'evangelista Giovanni, il quale intende invece rilevare la missione di Gesù e la sua rivelazione. Tuttavia, ciò non toglie che il ruolo evangelico della samaritana (e per tutti noi) sia importante e, ancora una volta, sotto molteplici aspetti dirompente e trasgressivo.

Non dobbiamo dimenticare che tra Ebrei e samaritani non correva buon sangue da quando questi ultimi si erano formati un regno ed un culto autonomo. Erano degli scismatici, e per di più mescolati con coloni stranieri (assiri) praticanti culti pagani. I rapporti erano improntati ad ostilità: condannati quelli personali, evitato persino l'attraversamento della regione, situata tra Giudea e Galilea, seguendo un percorso ben più lungo, pur di evitarli.
I Samaritani al Tempio di Gerusalemme contrapponevano il loro sul monte Garizim. E' chiaro che per i Giudei questo rappresentava un fatto gravissimo, poiché essi consideravano essenziale l'unicità del Tempio, segno della presenza di Jahvé in mezzo al popolo.

L'episodio narrato è ambientato al pozzo di Giacobbe: infatti, tutto il racconto prende le mosse dall'A.T. (Rebecca e l'incontro con Isacco, Genesi 24, 10-67).
Dopo una breve introduzione, il dialogo tocca tre temi: il tema dell'acqua, quello del marito della donna, e quello del culto. Ma il cammino per entrare nel mistero di Gesù non è facile per la donna (con Gesù è sempre così: non riusciamo mai ad uscire dalla nostra cecità).
L'incontro è veramente un dialogo pieno, attraversato dall'affettività come dalla ricerca del senso del vivere, della morale e dalla spiritualità, in cui tutte le dimensioni della donna emergono e trovano un'armonia fino allora per lei insperata.

 

Gesù le dice:"Dammi un po' d'acqua da bere".

 

La donna si meraviglia che un giudeo le chieda dell'acqua. Come ho già rammentato i Giudei non andavano d'accordo con i samaritani. Per un Giudeo non vi era insulto più grave che essere paragonato ad un samaritano. Dunque la donna si meraviglia di questo Giudeo che non si comporta come gli altri. Ma il paradosso sta altrove. Sta nel fatto che Gesù chiede dell'acqua, mente dovrebbe essere il contrario. E', se ben ci pensiamo, il paradosso di un Dio che si fa bisognoso e mendicante. Cioè il mistero di un Dio che si è fatto uomo, per avere il pretesto di incontrare l'uomo e di donare loro l'acqua che disseta. E' la meraviglia di un Dio che chiede per dare. In tal modo l'accoglienza di una donna samaritana da parte di un giudeo appare segno dell'accoglienza dell'uomo da parte di Dio.

 

Gesù le dice: "Tu non sai chi è che ti ha chiesto da bere e non sai che cosa Dio può darti per mezzo di lui. Se tu sapessi, saresti tu a chiederglielo, ed egli ti darebbe acqua viva".

 

La donna ha sentito la domanda di Gesù, ma la sua preoccupazione va a ciò che la separa da lui: essi appartengono a due popoli diversi e antagonisti. Sembra che il dialogo tra loro non sia possibile. Inoltre la donna non sembra minimamente intenzionata a dissetare Gesù, affaticato e senza mezzi per attingere acqua. Eppure i due, poiché si sono scambiate alcune parole, hanno già infranto le barriere. E Gesù continua a farlo; e anche la donna, ribadendo parola su parola. Ad un certo punto Gesù parla di un'altra acqua, e la sua parola fa comprendere alla samaritana di non sapere chi è colui che le parla.

Eppure avrebbe bisogno di conoscerlo e di conoscerlo come il dono di Dio o come uno che, conosciuto e accolto, può donarle un'acqua viva. Perché è lei, la samaritana, che si trova in una situazione d'assetata ( la vera tentazione d'ogni credente è sempre quella di chiudere il dono di Dio entro la propria attesa; tuttavia Dio non si lascia ridurre a questa pretesa dell'uomo e porta il discorso in altre direzioni).
Quando poi la donna scopre che Gesù è profeta, essa tenta di chiedere a Dio la soluzione di un problema (il problema dove adorare Dio). Ma ancora una volta la risposta di Gesù va di là dalla questione, perché Dio non si limita a rispondere all'uomo, ma vuole far crescere l'uomo.

 

"Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe?"

 

I versetti che seguono sono giustamente considerati il punto centrale del dialogo. La domanda della donna era una curiosità motivata dal fatto che giudei e samaritani discutevano molto su quel punto.. Sta di fatto che Gesù si serve della domanda per fare una rivelazione più importante. La domanda della donna è racchiusa nel passato, Gesù la costringe a guardare al futuro e a prendere coscienza che nel mondo è arrivata la novità tanto attesa e che questa rinnova il problema dalle fondamenta. Ecco perché la problematica del luogo non ha più senso, perché Gesù afferma l'universalismo, quindi non è questione di adorare Dio qui o là, ma perché addirittura il culto si è compiuto con lui.

Lo Spirito, a questo punto, non è una realtà spirituale che si oppone al corpo, una realtà interiore che si oppone alla realtà esteriore. Perciò il culto dello Spirito non è il culto interiore, spirituale, individuale, in contrapposizione al culto esteriore e pubblico. Lo Spirito è la realtà divina che solleva l'uomo dalla sua impotenza, dalla sua cecità secolare. E la Verità è la rivelazione di Dio manifestatasi nelle parole, nella storia e nella persona di Gesù. Quindi il culto "in spirito e verità" è il culto dell'uomo nuovo che ha gettato l'abito vecchio, colui che ha accolto la Parola ed è stato rinnovato dallo Spirito.

E' importante sottolineare, per quanto detto, che il tema posto dalla donna non è stato tralasciato, ma che la risposta di Gesù tratta del luogo del vero culto, del vero Tempio che è Gesù stesso il nostro tempio che sostituisce da quell'istante il santuario del mente Garizim e quello di Gerusalemme, perché solo lui è la porta attraverso la quale si arriva al Padre celeste.

 

La donna dice: "So che deve venire il Messia"; e Gesù: "Sono io il Messia, io che parlo con te".

 

I versetti contengono un'esplicita autorivelazione messianica di Gesù. I samaritani descrivevano il Messia come una figura umana, mortale e pensavano che sarebbe stato sepolto sul monte Garizim. Essi si ispiravano in particolare al Deuteronomio 18,15-18, un passo dove Mosé dice al popolo che il Signore Dio susciterà per essi, tra loro, tra i fratelli un profeta simile a sé medesimo; e che dovevano dargli ascolto. Ecco perché i samaritani attendevano il Messia quale nuovo Mosé, un Mosé redivivo: che come lui sarebbe stato profeta, avrebbe indicato la verità svelando ogni cosa che era nascosta. Inoltre avrebbe insegnato la Legge (ovviamente quella samaritana) ai giudei e a tutto il mondo: vale a dire che sarebbe stato lo strumento che portava al mondo la vera Legge e la restaurazione religiosa e politica in Israele.

Nella prospettiva di questa attesa messianica tipica dei samaritani, comprendiamo meglio le affermazioni disseminate nello svolgersi del dialogo tra Gesù e la donna: il riconoscimento di Gesù come profeta; la proclamazione del nuovo culto, le parole della donna "so che deve venire un Messia chiamato Cristo, quando verrà ci annuncerà ogni cosa".

Con la sua solenne proclamazione messianica: "Sono io, io che ti parlo", Gesù dichiara di essere colui che compie le attese dei samaritani. Egli è il profeta, il rivelatore, il restauratore del vero culto.
Come prima dell'arrivo della donna i discepoli si erano recati in città; così ora, al ritorno dei discepoli, è la donna che se ne va. La samaritana va a portare l'annuncio di Gesù ai suoi concittadini.

 

"Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto". "Che sia egli il Cristo?"

 

E' rea confessa, se ben ci pensiamo. Nulla è detto di un perdono concessole. Eppure era il pentimento che a Gesù soprattutto interessava. Ma Gesù sa valutare e attendere. Possiamo supporre che quella donna non avesse il senso del peccato; nessun accenno o gesto in merito. Tuttavia il fondo religioso manca, lo si comprende dalla problematica che imposta e dal fatto che al sopraggiungere dei discepoli, mossa dalla rivelazione e dall'inizio del senso di peccato, va a fare "pubblica confessione" ai concittadini, ritenendo che Gesù possa essere il Messia, il rappresentante di Dio e invita a chiarire un aspetto tanto importante.

Certamente non può essere stata lei a guidare a Gesù quanti cedettero alle sue parole. E se costoro lo trattengono per due giorni, indubbiamente Gesù ha annunciato l'avvento del Regno di Dio. E la donna è con loro ad ascoltarlo. Infatti, alla fine dichiarano: "Non è più per la tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo", è segno che la donna ha sostenuto la parte di protagonista nel condurre a Gesù i concittadini e seguirli.
Elementi più che sufficienti per rivoluzionare la vita e ottenere da Gesù segni di grazie, bastevoli per sentirsi rappacificata con Dio.

L'incontro con Cristo si fa contagioso, e l'incontro si fa testimonianza. In questo dialogo Gesù vuole dirci, come del resto in tutti i Vangeli, che la salvezza è per tutti. Le barriere del giudaismo sono crollate. Infatti, questo episodio è prefiguratore dell'universalità della Chiesa per via della conversione dei samaritani. Inoltre si tratta del primo significato missionario e quindi prefiguratore dell'universalismo cristiano. Gesù dice ai suoi che la messe è pronta.

Per dire che l'attesa di Israele è compiuta e la missione è urgente. Per sottolineare che la missione si muove in un contesto di umiltà e gratuità: è Cristo che ha seminato, ma è lo Spirito che ha fatto maturare. Una situazione di grazia che si riflette nella Chiesa: altri è chi semina, altri è chi miete. L'episodio della samaritana termina ricordando la conversione dei samaritani e l'accoglienza fatta a Gesù. Tutto questo è veramente l'anticipo della conversione dei non giudei, di cui la comunità farà in seguito esperienza.

Ma dobbiamo sottolineare il concetto di fede: la fede si fa contagiosa, l'incontro con i testimoni di Cristo è solo il primo passo. La vera fede sorge quando si incontra personalmente il Cristo.

Fratelli e sorelle, come la samaritana, tutti noi dovremmo essere umili e chiedere al Signore il dono dell'acqua che sgorga dal suo cuore e che ha il potere di renderci felici per la vita eterna. Sono certo che nella misura in cui ci impegneremo nella ricerca di quest'acqua, il Signore Gesù ci ricompenserà, anzi, ci darà molto di più di quanto osiamo sperare, come ci ricorda l'apostolo Paolo: "Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi "(Rm.8,18).

Amen,alleluia,amen.

 

*torna     

 

 

 

IL FARISEO E IL PUBBLICANO

"Poi Gesù raccontò un'altra parabola per alcuni che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri. Disse: "Una volta c'erano due uomini: uno era fariseo e l'altro era esattore delle tasse. Un giorno salirono al tempio per pregare. Il fariseo se ne stava in piedi e pregava così tra sé: "O Dio, ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini: ladri, imbroglioni, adulteri. Io sono diverso anche da quell'esattore delle tasse. Digiuno due volte alla settimana e offro al tempio la decima parte di quello che guadagno".
L'agente delle tasse invece si fermò indietro e non voleva neppure alzare lo sguardo al cielo. Anzi si batteva il petto dicendo: "O Dio, abbi pietà di me: sono un povero peccatore!".
Vi assicuro che l'esattore delle tasse tornò a casa perdonato; l'altro invece no. Perché "chi si esalta sarà abbassato; chi invece si abbassa sarà innalzato".

 

Commento

 

Gesù narrando questa parabola ci parla ancora della preghiera. Egli c'insegna che la preghiera è un'esperienza spirituale d'intensa intimità con Dio che ci è Padre: una preghiera che non guarda al cielo per scordare l'umanità, ma al contrario le schiude l'orizzonte di una salvezza totale e definitiva.
La possibilità di chiamare Dio "Padre" non dipende dai nostri meriti, ma è dono dello Spirito Santo continuamente rinnovato dalla sua bontà che ha a cuore la sorte di tutti gli uomini.

Non vi siete mai chiesti come mai oggi le sètte e i movimenti religiosi esercitano tanto fascino? Una delle ragioni è senz'altro la proposta di verità indiscutibili e una prassi cultuale precisa che diano sicurezza, dispensino dal dubbio e dalla faticosa ricerca personale. Per questo nelle sètte e nei movimenti religiosi tutto è demandato al "capo carismatico".
Ma l'obbedienza alle norme precise diventa un rassicurante quanto illusorio rifugio. Proprio come nella parabola che stiamo per commentare. Gesù, infatti, rappresenta l'atteggiamento religioso giusto o sbagliato mediante l'opposizione tra due protagonisti. Il primo è un fariseo, osservante scrupoloso della Legge, separato da quelli che egli ritiene peccatori e reprobi. L'altro è un pubblicano, cioè un esattore delle tasse a favore degli occupanti romani. E' superfluo rammentare che gli appartenenti a questa categoria erano considerati sfruttatori e strozzini, odiati e segnati a dito dai pii israeliti. Gesù fa risaltare nettamente l'opposizione radicale tra i due personaggi nella rispettiva preghiera al Tempio.

Il fariseo dichiara la verità. E' vero che osserva attentamente la Legge e ha grande spirito di sacrificio. Addirittura non si accontenta dello stretto necessario, fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescritto, ma due. Egli sta in piedi, con le braccia alzate e la testa rivolta verso l'alto. Ringrazia Dio, nella forma canonica della preghiera biblico-giudaica: la lode e il ringraziamento a Dio per essere esente dai vizi degli altri uomini, e poi perché è ricco d'opere meritorie. Osserva attentamente la Legge e il compimento della volontà di Dio, anzi completa le prescrizioni rituali con pratiche supplementari.

Formalmente, come possiamo notare, si tratta di una preghiera irreprensibile, non è una caricatura, perché si tratta dello spirito del fariseismo. Il suo torto non sta nell'ipocrisia, che Gesù smaschera senza mezze misure, bensì nella fiducia nella propria giustizia. Egli si ritiene in credito presso Dio: non attende la sua misericordia, non si aspetta la salvezza come un dono, ma come premio che gli è dovuto per il bene fatto e per avere seguito le norme rigidamente.

Egli fa risalire a Dio, in un certo modo, la propria giustizia. Ha perso per strada la sua originaria dipendenza da Dio. Tant'è vero che , a parte il "Ti ringrazio" iniziale, non prega, non guarda a Dio, non si confronta con Lui, non attende nulla da Lui, né non gli domanda nulla. Si concentra su se stesso e si confronta con gli altri, emettendo giudizi piuttosto duri. E' in questo suo atteggiamento che non c'è nulla della preghiera.
Il pubblicano, l'esattore delle tasse, è spaesato, confuso nel luogo del culto, tanto che se ne sta in fondo, quasi temesse di disturbare, di essere un estraneo. Non è neppure in condizione di assumere il contegno normale di chi prega.

Si batte il petto come un disperato, supplica istintivamente perché si sente peccatore che non è in grado nemmeno di elencare le sue colpe, sussurra, infatti: "Dio, abbi pietà di me peccatore".

E' consapevole di essere un peccatore, sente il bisogno del cambiamento, di una rinascita e, soprattutto, ha la consapevolezza di non poter pretendere niente da Dio. Nulla ha da vantare e nulla da esigere. Può solo sperare. Fa affidamento su Dio, nella sua misericordia, non su se stesso. Questa è l'umiltà di cui parla la parabola, l'atteggiamento che Gesù loda: non elogia la vita del pubblicano, come non ha disprezzato il fariseo.

 

Conclusione

 

La morale della parabola è chiara e semplice: l'unico modo corretto di porsi di fronte a Dio, nella preghiera e nella vita, è quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore. La giustizia che il fariseo vantava davanti a Dio come conquista di uno sforzo personale, il pubblicano l'ha ricevuta come dono misericordioso dal Signore.

Ovviamente Gesù non afferma che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano. Le sue opere sono buone, e tali restano (ci mancherebbe!). Non sono le sue azioni ad essere criticate, ma il modo di considerarle. E non perché egli le attribuisca a se stesso, come a volte si dice. In realtà le attribuisce a Dio. L'errore sta nel fatto di guardare Dio alla luce delle proprie opere. Per Gesù invece lo sguardo deve sempre andare da Dio a noi, non da noi a Dio.

Fratelli e sorelle, la nostra vita è stata pensata e voluta da Dio come una faticosa ricerca della verità, mettendo in conto anche il rischio di sbagliare. Dio non vuole semplicemente dei figli "obbedienti" (in ogni caso importante), ma dei figli capaci d'amare.

Il cristiano non è perfetto, ma un perdonato. Solo chi si sente amato e perdonato sa amare e perdonare gli altri a sua volta. Conseguentemente è giustificato, cioè salvato.

Amen,alleluia,amen.

 

*torna     

 

torna a Le parabole