DANIELE Eb. DANIYEL (“Dio è mio giudice”)

 

Daniele, uno dei profeti dipinti da Michelangelo nei famosi affreschi della Cappella Sistina

 

L’ eroe del libro che porta questo nome era  un saggio, un cortigiano, un interprete di sogni e un veggente, che visse durante il periodo dell'esilio babilonese. La sua storia si svolge fra il tempo in cui Nabucodonosor, re di Babilonia, conquistò Gerusalemme, nel 597 a.C., e cominciò a deportare i Giudei, e il tempo in cui la cattività babilonese ebbe termine, sotto Ciro II di Persia, nel 538, e forse oltre. Il racconto, conservato e tramandato, incoraggiò le generazioni successive a essere fedeli alla Legge del Signore nei tempi di oppressione, dimostrando che quella fede può avere successo anche nelle peggiori avversità.

Daniele era un membro dell'aristocrazia giudea degli ultimi scorci del VII secolo a.C.; forse apparteneva addirittura a una numerosa famiglia reale. Nato presumibilmente durante il regno di Giosia (640-609 a.C), aveva trascorso la fanciullezza sotto re Ioiakim (609-598 a.C). In quel tempo, il debole regno di Giuda fu dominato prima dall'Egitto, poi dal nascente impero neobabilonese. Poco dopo la morte di Ioiakim e l'ascesa al trono del figlio diciottenne Ioiachin (che forse era coetaneo di Daniele), Nabucodonosor distrusse sia il palazzo reale sia il tempio di Gerusalemme e condusse in esilio «tutti i capi, tutti i prodi, in numero di diecimila, tutti i falegnami e i fabbri; rimase solo la gente povera del paese» (2 Re 24,14).

 

EDUCATO A CORTE

Era costume dei Babilonesi cercare nelle regioni dell'impero i giovani più dotati e prepararli a diventare impeccabili paggi a corte. Così, allorché Nabucodonosor conquistò Gerusalemme, incaricò un alto dignitario della sua corte di scegliere i giovani più brillanti della nobiltà giudea: «senza difetti, di bell'aspetto, dotati di ogni scienza, educati, intelligenti e tali da poter stare nella reggia» (Dn 1,4).

Tra i prescelti erano Daniele e tre suoi compagni, Anania, Misaele e Azaria. Il loro apprendistato era affidato ad Asfenaz, capo degli eunuchi del re, il quale diede loro nomi babilonesi. Daniele diventò Baltazzar, e gli altri Sadrach, Mesach e Abdenego. I giovani iniziarono una preparazione triennale che cominciò con l'apprendimento della lingua e della scrittura aramaica; seguivano le conoscenze scientifiche e diplomatiche, comprese forse l'astrologia e la magia, necessarie a un cortigiano che doveva lavorare nella rarefatta atmosfera della corte più potente dell'epoca. La posizione privilegiata dava loro diritto a condividere il cibo preparato per il re stesso, il meglio del meglio, così da poter crescere in salute e forza e assolvere al meglio le loro funzioni nell'impero.

Ma, fin dall'inizio, Daniele si dimostrò strettamente osservante delle tradizioni del suo popolo. Pur non rifiutandosi di servire come cortigiano del re, «decise in cuor suo di non contaminarsi con le vivande del re e con il vino dei suoi banchetti» (Dn 1,8). Il narratore non spiega con precisione in quale modo il cibo avrebbe potuto contaminare Daniele (se, cioè, si trattasse di animali impuri o macellati impropriamente, oppure includesse carne proveniente da sacrifici pagani o vi fossero contaminazioni di altro tipo), ma si serve del cibo raffinato come esemplificazione dei compromessi seducenti e corruttori con la vita pagana che molti Giudei devoti si trovavano ad affrontare in terra straniera. Da notare che lo stesso Ioiachin non si comportò così correttamente mentre fu prigioniero a Babilonia, bensì «mangiò sempre alla tavola del re» (2 Re 25,29).

Poiché l'origine principale del rilassamento era il cibo, Daniele chiese ad Asfenaz che lui e i suoi compagni venissero nutriti solo con legumi e acqua. Il narratore racconta come Dio fece in modo che Asfenaz accogliesse con favore la richiesta e concedesse ai giovani ebrei dieci giorni per provare la loro dieta apparentemente ascetica. Asfenaz fu tanto sorpreso e compiaciuto quando, dopo la dieta vegetariana, vide che «le loro facce erano più belle e più floride di quelle di tutti gli altri» (Dn 1,15) che concesse loro di continuare a seguire quel rigido regime. Così la fiducia in Dio si era dimostrata un modello di vita superiore, anche secondo gli standard pagani. Dio benedì i quattro giovani con conoscenze scientifiche e grande saggezza e «rese Daniele interprete di visioni e di sogni» (Dn 1,17). Alla fine dei tre anni, Nabucodonosor non solo trovò quei giovani migliori degli altri, bensì dieci volte più saggi di tutti i maghi e gli astrologi di corte.

La seconda storia del libro presenta Daniele, con l'aiuto di Dio, come un abile interprete di sogni. Il tema incessantemente ripetuto è che ogni vera sapienza appartiene a Dio, il solo che «svela cose profonde e occulte» (Dn 2,22).

Come Giuseppe nel libro della Genesi, anche Daniele aveva facoltà assai superiori a quelle dei saggi pagani; e, come Giuseppe in Egitto, Daniele ottenne grandi onori in Babilonia.

Un giorno, Nabucodonosor convocò maghi e indovini perché gli spiegassero il sogno da cui era stato turbato. Essi chiesero al re di raccontare il sogno, ma egli pretese che fossero loro a dirglielo e a interpretarlo, altrimenti sarebbero stati «fatti a pezzi» (Dn 2,5). Fiduciosi di riuscire a interpretare il sogno, lo supplicarono di raccontarne prima il contenuto. Davanti al minaccioso rifiuto di Nabucodonosor, dissero: «Non c'è nessuno al mondo che possa soddisfare la richiesta del re [...] nessuno ne può dare al re la risposta, se non gli dei la cui dimora è lontana dagli uomini» (Dn 2,10-11).

Tenendo fede alle minacce, il sovrano comandò l'esecuzione di tutti i saggi di Babilonia, un numeroso gruppo che allora includeva anche Daniele e i suoi compatrioti. Quando fu informato della situazione, Daniele chiese al re che gli concedesse tempo perché potesse rivelare il significato del sogno. Tornato a casa e chiesto ai suoi compagni di pregare, Daniele ebbe una visione notturna che lo spiegava. Venuto il momento della verità, come aveva detto, diede al monarca l'interpretazione richiesta: «Il mistero di cui il re chiede la spiegazione non può essere spiegato ne da saggi, ne da astrologi, ne da maghi, ne da indovini; ma c'è un Dio nel cielo che svela i misteri» (Dn 2,27-28).

Dopo aver così esordito, Daniele cominciò a esporre il sogno di Nabucodonosor. Egli aveva visto una statua colossale: «Aveva la testa d'oro puro, il petto e le braccia d'argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte di creta» (Dn 2,32-33). Improvvisamente, una pietra non smossa da mano d'uomo colpì l'immagine e la ridusse in polvere che il vento portò via, mentre la pietra crebbe fino a diventare una montagna. L'interpretazione che Daniele diede fu buona e nello stesso tempo cattiva per il re babilonese. Nel sogno egli rappresentava la testa d'oro, tuttavia la sua dinastia non sarebbe durata. Le sarebbero succeduti regni meno potenti, simbolizzati dall'argento e dal bronzo (i Medi e i Persiani). A loro volta, essi sarebbero stati spazzati via da un regno di ferro (i Greci di Alessandro Magno), che a un certo punto si sarebbe diviso come i piedi di ferro e di argilla (l'impero di Alessandro fu diviso tra Seleucidi e Tolomei). Nel periodo finale, affermò Daniele, «il Dio del cielo farà sorgere un regno che non sarà mai distrutto» (Dn 2,44), come la pietra che era diventata una montagna.

Il re Nabucodonosor fu talmente stupito dalla spiegazione di Daniele da fargli offrire incenso quale omaggio, confessando che il Dio dei Giudei era «il Dio degli dei, il Signore dei re» (Dn 2,47). Mise poi Daniele al di sopra di tutti i sapienti babilonesi, nominandolo governatore di tutta la provincia di Babilonia.

 

SALVATI DALLA FORNACE

La terza storia del libro non coinvolge Daniele, ma i suoi tre compagni, Sadrach, Mesach e Abdenego. Nabucodonosor aveva abbandonato la devozione al Dio di Daniele ed era diventato un rabbioso tiranno che esigeva l'adorazione di un idolo e decretava la morte sul fuoco per tutti coloro che non avessero obbedito.

Ma il miracolo che salvò i compagni di Daniele nella fornace ardente convertì ancora una volta il sovrano, che minacciò di morte chiunque avesse parlato contro il Dio dei Giudei.

La quarta storia del libro è presentata come una lettera di Nabucodonosor al suo impero: «A tutti i popoli, nazioni e lingue che abitano in tutta la terra» (Dn 3,98). In essa il re rende testimonianza all'eterno potere di Dio e al dominio e governo del regno di Dio su ogni potere terreno, raccontando un importante sogno e le sue conseguenze. Egli aveva narrato il suo sogno ai soliti indovini e astrologi, ma nessuno era riuscito a interpretarlo finché venne Daniele, un uomo nel quale è «lo spirito degli dei santi» (Dn 4,6). Daniele ascoltò mentre Nabucodonosor diceva di aver visto un grande albero al centro del mondo, la cui cima giungeva al cielo ed era visibile da tutta la terra. Un essere angelico tagliò l'albero e il suo ceppo rimase abbandonato nel deserto per sette anni.

Con sgomento, Daniele interpretò l'albero caduto come l'immagine del potente re stesso, ammonendolo: «Tu sarai cacciato dal consorzio umano e la tua dimora sarà con le bestie della terra [...] finché tu riconosca che l'Altissimo domina sul regno degli uomini e che egli lo dà a chi vuole» (Dn 4,22). In realtà, un anno più tardi, mentre il re si compiaceva della propria potenza e maestà, una voce dal cielo lo rimproverò ed egli si ritrovò a mangiare erba e a vivere con gli animali selvatici. Dopo 7 anni, il sovrano impazzito aveva imparato la lezione: recuperò la ragione, lodò Dio per il suo dominio assoluto e riprese il suo posto di re.

La quinta storia del libro è posta proprio alla fine - in realtà nell'ultimo giorno - dell'impero babilonese. Un nuovo re, Baldassar, stava offrendo una grande festa per un migliaio dei suoi nobili e stava bevendo con le mogli e le concubine dai vasi sacri che «Nabucodonosor suo padre aveva asportati dal tempio, che era in Gerusalemme» (Dn 5,2).

Il narratore descrive con sgomento l'empio spettacolo di Baldassar che beve vino dai vasi sacri del tempio, mentre «lodavano gli dei d'oro, d'argento, di bronzo, di ferro, di legno e di pietra» (Dn 5,4). Ma Dio immediatamente rispose con un segno portentoso: apparve una mano d'uomo, che con il dito scrisse sulla parete del palazzo. Il sovrano, atterrito, offrì vesti regali e grandi poteri a chiunque fosse riuscito a leggere e a interpretare le parole. Ma nessuno dei maghi o degli astrologi di corte riusciva a decifrare quella scritta, finché la regina parlò a Baldassar di Daniele, che suo padre Nabucodonosor aveva eletto capo degli indovini.

Convocato alla presenza del re, l'ormai anziano Daniele ricordò a Baldassar la punizione subita da Nabucodonosor per non aver onorato Dio e lo ammonì che, profanando i vasi del tempio, si era messo «contro il Signore del cielo» (Dn 5,23). Poi lesse le parole misteriose: «MENE, TEKEL, PERES» (Dn 5,25) e le interpretò dicendo che il regno di Baldassar era al termine, sul punto di essere conquistato dai Medi e dai Persiani. Baldassar cercò di ricompensare le straordinarie abilità di Daniele, ma non approfittò dell'avvertimento. Quella stessa notte, Dario di Media invase Babilonia e conquistò il regno; Baldassar fu ucciso

 

FEDELE AL SUO DIO

La più famosa delle storie di Daniele, Daniele nella fossa dei leoni, si colloca durante il regno di Dario di Media. Il narratore mostra che la grande autorità che Daniele aveva sotto i re babilonesi rimase tale anche sotto Dario. Allora, ormai ottantenne, Daniele era il più in vista dei tre presidenti che dirigevano 120 satrapi, o governatori che reggevano l'impero in nome del re; ma Dario progettò di «metterlo a capo di tutto il suo regno» (Dn 6,3). L'importanza acquisita da quell'ebreo a corte lo rese oggetto di invidia; i suoi avversar! fecero in modo che Dario emettesse un decreto autocelebrativo in base al quale nessuno, nei 30 giorni successivi, avrebbe potuto rivolgere suppliche a qualsivoglia divinità o essere umano all'infuori del re stesso, pena l'esser gettato nella fossa dei leoni. Una volta firmato, il decreto, secondo le leggi dei Medi e dei Persiani, non poteva più essere cambiato nemmeno dal re.

Come lo era stato in gioventù, anche da adulto Daniele era irreprensibile nell'osservare la «legge del suo Dio» (Dn 6,5). A dispetto del regio decreto, continuava a pregare tre volte al giorno presso una finestra aperta rivolta verso Gerusalemme. Immediatamente i suoi rivali lo accusarono davanti al re, che fu parecchio addolorato per quel complotto. Ma, in forza di una legge che non poteva cambiare, dovette gettare Daniele ai leoni. Darlo trascorse la notte digiuno e insonne, pieno d'amarezza per il suo primo ministro e, sul far del giorno, tornò angustiato alla fossa dei leoni.

Daniele era vivo e con perfetta calma disse al sovrano: «Il mio Dio ha mandato il suo angelo che ha chiuso le fauci dei leoni» (Dn 6,23). L'ira di Dario si rivolse allora contro i rivali di Daniele, che a loro volta furono gettati ai leoni e uccisi all'istante. Il re scrisse poi una lettera universale, comandando a tutti: «Si tema il Dio di Daniele, perché egli è il Dio vivente, che dura in eterno» (Dn 6,27).

Durante gli ultimi anni di vita, Daniele ebbe sogni e visioni che rivelarono il corso del futuro con vivide immagini. Le visioni riguardavano l'epoca della persecuzione dei Giudei sotto Antioco IV Epifane, re di Siria tra il 167 e il 164 a.C. La particolare attenzione dedicata a tale periodo è probabilmente dovuta al fatto che proprio in quegli anni le numerose tradizioni relative alla vita di Daniele vennero redatte in forma definitiva nel libro di Daniele.

 

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