Il dottor Francesco Fiorista

con « I vangeli in versi e in rima »

Medico cambia referto sulla morte di Gesù...

di Stefano Lorenzetto

 

Da 33 anni Francesco Fiorista fa il cardiologo al San Carlo di Milano.

Iniziò la sua singolare opera nel ’94:

"Volevo tradurre in rima alcuni brani sacri per i miei bambini".

È giunto alla quarta edizione: 864 pagine. E 184 sono di note

 

 

 

Quella dello scrittore con lo stetoscopio al collo non è una figura nuova. Il russo Anton Cechov, medico condotto nel villaggio di Babkino, dopo aver curato per tutta l’estate alcune centinaia di pazienti, ricavandone un solo rublo, si rifugiò fra le braccia della concubina: «La medicina è la mia sposa, ma il vero amore lo faccio con la letteratura». L’inglese Archibald Joseph Cronin trasse ispirazione per E le stelle stanno a guardare e La cittadella dalle sue esperienze d’ambulatorio a Glasgow e Londra. Lo scozzese sir Arthur Conan Doyle, medico di bordo fra Artide e Africa, inventò la figura del detective Sherlock Holmes applicando alle investigazioni criminali il modello diagnostico delle indagini cliniche. E poi lo svedese Axel Munthe; il torinese Carlo Levi; il viareggino Mario Tobino, per 40 anni psichiatra nel vetusto manicomio di Maggiano, dove ambientò il suo romanzo più noto, Per le antiche scale; il vicentino Giulio Bedeschi, ufficiale medico durante la ritirata di Russia, dramma apocalittico raccontato in Centomila gavette di ghiaccio; e, in tempi più recenti, il pavese Bruno Tacconi, il catanese Giuseppe Bonaviri, il comasco Andrea Vitali, il veronese Vittorino Andreoli.

Il milanese Francesco Fiorista è assimilabile al patrono della categoria, San Luca, ricordato nella Lettera ai Colossesi come «il caro medico», che esercitava la professione ad Antiochia e accompagnò Paolo fino a Roma. Luca si assunse la fatica di scrivere il terzo Vangelo. Fiorista s’è assegnato un compito assai più gravoso: I Vangeli in versi e in rima, un poema cristiano, una rivisitazione lirica dei Vangeli canonici in oltre 2.000 strofe di settenari rimati. Ha cominciato nel 1994, ma lo considera un lavoro destinato a non concludersi mai, come è ben detto nell’ultima strofa: «Comincia adesso un viaggio / che non avrà mai fine, / oltre ogni mare e terra / ed oltre ogni confine: / fino all’ultimo giorno / e all’ultimo minuto / sarà sempre un cercare / il Vangelo incompiuto».

Il dottor Fiorista ritiene che Cristeide sarebbe stato il titolo più appropriato, «se non avessi temuto di suscitare qualche ironia». Letterariamente parlando, di questo si tratta, di un poema sulle gesta di Cristo: concepimento, nascita, vita, predicazione, miracoli, passione, morte, risurrezione, ascensione. «Un’opera nella migliore tradizione dei cantastorie, solo che qui la storia cantata è la più grande storia del mondo», l’ha definita padre Raniero Cantalamessa, il predicatore cappuccino che nei venerdì di Avvento e di Quaresima tiene le meditazioni per il Papa.

In questi giorni la casa editrice Àncora ha mandato in libreria la quarta edizione dei Vangeli in versi e in rima. La prima uscì nel 2002. Ogni volta il medico milanese aggiunge altri versi. È arrivato a 864 pagine, di cui ben 184 di note fittissime. Fiorista ammette di non sapere nulla di Antico e Nuovo Testamento. Ma è forse il laico che in Italia conosce i Vangeli in greco e in latino meglio di chiunque altro, preti inclusi. «Non tutti i versi sono ugualmente riusciti», si scusa l’autore. Però non serve essere critici letterari per accorgersi che ve ne sono molti di elevato lirismo, dal parto nella grotta di Betlemme («Non sa Maria che cosa / mai fare in quei momenti, / respira forte, trema, / stringe una mano ai denti, / con l’altra afferra forte / quella di suo marito, / infine trova pace / e insieme ode un vagito. / Questa notte per sempre / divide in due la Storia, / finché sarà nell’uomo / un lampo di memoria. / Fanciulli, da qui il tempo / sarà poi in due spartito: / prima di quella notte / dopo di quel vagito») allo strazio della Madonna durante la deposizione («Vi prego, fate piano / a togliere quei chiodi, / siano amorosi i gesti, / siano gentili i modi, / distrutta io l’aspetto / ai piedi della croce / per stringermelo al petto, / fargli un’ultima volta / sentire la mia voce. / Ma più piano, più piano, / che ancora sente male, / piano con quelle corde, / piano con quelle scale; / non fatelo cadere! / piano con quel lenzuolo, / ecco, così, adagio, / ponetelo giù al suolo»).

Se il cuore è la sede dei sentimenti, Fiorista, medico dal 1974, ha scelto la specializzazione giusta: cardiologo. Non credo che abbia mai avuto l’ambizione di guarire, insieme con i corpi, anche le anime. Ma di sicuro i pazienti si sono presi cura della sua, almeno a giudicare dal ringraziamento di pagina 44: «A tutti gli ammalati / che pallidi al guanciale / mi hanno mostrato l’uomo / diverso e sempre uguale». Versi che spiega così: «Ho incontrato migliaia di pazienti e non ce n’era uno uguale all’altro per storia, cultura, inclinazioni, ceto, reddito. Però davanti alla malattia e alla morte diventavano tutti uguali. Ho avuto la grazia d’avvicinarmi agli uomini nel momento della debolezza e della solitudine, della fragilità e della paura. La malattia mette a nudo la verità dell’anima e il medico con questa verità deve fare i conti ogni giorno».

Medico umanista, una figura che va scomparendo, da 33 anni il dottor Fiorista lavora nella divisione di cardiologia dell’ospedale San Carlo di Milano - «temo d’essere fra i più anziani, qua dentro» - e a quasi 62 continua a sobbarcarsi i turni, le notti, i festivi. Per 20 anni ha impiantato pacemaker. Ora dirige l’ambulatorio. «Vedere lo scompensato che arriva senza respiro e poi torna a casa guarito è una grande gioia». Prima di prendersi «la malattia del Vangelo», è così che la chiama, i suoi idoli erano Dino Campana, Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino. E soprattutto Giacomo Leopardi: dall’analisi degli scritti, ha dedotto una vera e propria anamnesi del poeta. Oggi questa singolare cartella clinica è conservata presso il Centro nazionale di studi leopardiani di Recanati. Ma il dottor Fiorista ha indagato a distanza anche sulla Passione di Gesù, eseguendo una sorta di autopsia letteraria basata sulla narrazione evangelica, che da cardiologo lo ha portato a cambiare, sul referto di morte, la causa più accreditata da almeno due secoli: non asfissia, bensì infarto miocardico da stress.


Mi descriva Francesco Fiorista.

«Padre catanese, laureato in Cattolica. Mi ha trasmesso l’amore per letteratura e cinema. “Nostalgia di mio padre, nostalgia di tutto”, si dice nel film Central do Brasil. Madre milanese, maestra elementare. Mi ha trasmesso la memoria, senza la quale non avrei potuto fare tutti i collegamenti fra arte, storia, poesia, cinema, letteratura, mitologia, religione. Moglie cardiologa. Ha lavorato per nove anni qui con me al San Carlo, ora svolge la libera professione. Le sono debitore di un’eroica pazienza: ha lasciato che mi dedicassi ai Vangeli in versi e in rima, senza mai lamentarsi del troppo tempo libero che le rubavo. Una figlia avvocato che mi ha dato la gioia di un nipotino. Un figlio medico, futuro cardiologo, che ha scelto la stessa strada dei genitori».


Ma perché questa fatica improba? Non bastavano i Vangeli originali?

«L’intenzione era quella di tradurre in versi alcuni episodi per i miei figli, all’epoca fanciulli. François Mauriac diceva che l’infanzia non esiste e che tornare bambini è una conquista dell’età matura. La vera risurrezione è risorgere da vivi. Il Vangelo questo ci chiede: di tornare bambini. È un libro semplice per i semplici, la sua freschezza resta quella di duemila anni fa. Sono i nostri occhi a essere cambiati. Ho seguito il consiglio di Giovannino Guareschi, il quale sosteneva che bisogna tornare a parlare con la semplicità dei Vangeli. E di Luigi Pintor, direttore del Manifesto: benché marxista, consigliava ai suoi redattori un linguaggio piano, come quello di Gesù, che ha fatto intravedere il Regno dei Cieli parlando di senape e di lievito, di pesci e di reti».


Lei narra Il miracolo del bambino e del cane annegati che nei Vangeli non c’è.

«Mi sono preso qualche licenza poetica. Del resto l’evangelista Giovanni ci ha avvertiti: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro”. Il bambino gioca a palla a Cafarnao, la palla finisce nel lago di Tiberiade, lui si getta in acqua per recuperarla e muore affogato, il suo cane si tuffa per salvarlo e annega a sua volta. Passa di lì Gesù e resuscita il fanciullo. Be’, vuole che non avrebbe rianimato il miglior amico del bambino? Anche nella risurrezione della figlia di Giàiro ho immaginato un cane festoso al capezzale della padroncina tornata in vita: “Forte abbaiando a fianco / scodinzola il suo cane; / quell’odor di cadavere / giuntogli prima al fiuto / s’è sciolto via nel vento, / così com’è venuto”».


È un animalista?

«Mi rifaccio a San Francesco d’Assisi. Non dimentichiamoci che Gesù nacque fra un bue e un asinello ed entrò a Gerusalemme in groppa a un somarello, come profetizzato da Zaccaria: “Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina”. Questi nostri primi cugini sono pure loro figli di Dio».


Ma ha anche la pretesa di svelare che cosa scrisse Gesù per terra dopo aver salvato l’adultera dalla lapidazione con la famosa frase: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei».


«Il verbo originale è katagrápho, che in greco significa appunto scrivere per terra. In certe traduzioni si legge che Gesù faceva dei segni sulla sabbia. Una cosa ben diversa. Ho cercato di spiegare ciò che i teologi hanno potuto solo immaginare: “Cosa avesse mai scritto / sul suolo polveroso / Giovanni non lo dice, / rimane misterioso; / ma pare che uno scriba, / chinatosi giù prono, / vi lesse: “Mai nessuno / andrà senza perdono”. Mi pare verosimile. Non è forse il perdono l’insegnamento più grande che Lui ci ha lasciato?».


Però l’evangelista Giovanni, che poteva svelare l’arcano, non lo fa.

«Nei Vangeli vi sono molti episodi inspiegabili o monchi. Come spiegare, in quello di Marco, ciò che accadde al momento della cattura di Gesù nel Getsemani? “Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono. Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo”. Chi era quel giovanetto? Probabilmente si trattava dello stesso Marco, allora imberbe, che fu testimone della drammatica scena e da adulto volle citarla. E le tre cadute lungo la Via crucis, accettate dalla Chiesa ma di cui non v’è traccia in nessuno dei Vangeli canonici?».

Nei suoi Vangeli in versi e in rima è racchiuso un vibrante j’accuse: «Professar Lui, adesso, / è chiudersi in un ghetto / dentro a un’Europa vile, / sbracata a Maometto, / voler negar le proprie / origini cristiane / non solo è falso, è insana / follia di menti insane. / Pian piano del Vangelo, / di un testo insanguinato, / ne han fatto un libro Cuore / e sempre più annacquato». C’è anche una critica ai mea culpa pontifici: «Certa Chiesa, scusandosi / d’ogni passato torto, / quasi chiederà scusa / che Lui sia un dì risorto!».

«Secondo taluni teologi, i miracoli compiuti da Cristo sarebbero simbolici. Camminare sulle acque... Ma figuriamoci! Per loro la stessa risurrezione è un fatto metastorico. Ma per il credente è invece un fatto storico. Gesù è risorto davvero, è risorto nella storia, non nella metastoria. Altrimenti bisogna buttare via i Vangeli, dov’è scritto che si presentò in carne e ossa a Pietro, a Giovanni e poi agli altri apostoli, all’incredulo Tommaso che voleva mettere il dito nelle sue piaghe, ai due discepoli sulla via di Emmaus, a Maria di Màgdala, a Maria moglie di Cleofa, a Salòme. Luca scrive che, per 40 giorni, continuò a farsi vedere parlando del Regno di Dio. Nella prima Lettera ai Corinzi, Paolo dice che “apparve a più di 500 fratelli in una volta”».


Al San Carlo i suoi pazienti di solito entrano con la fede e la perdono oppure entrano senza e la acquistano?

«Chi ce l’ha, non la perde neppure nella tragedia, anzi la rafforza».

E come fa a spiegare, a chi soffre, il mistero del dolore?

«Spiegarlo è impossibile. Il malato soffre e il medico soffre con lui. Come spieghi la mancanza di respiro allo scompensato cardiaco cronico che sta morendo soffocato? Posso solo metterlo in infusione di morfina. Se lei chiedesse a tutti i medici del mondo qual è l’ultimo farmaco a cui sarebbero disposti a rinunciare, le risponderebbero: “La morfina”».


Anche Gesù morì soffocato?

«Sulla croce si moriva così. Il condannato poteva respirare soltanto facendo forza sui piedi e sollevando il torace per riempire d’aria i polmoni. Il supplizio durava in media 36-48 ore. Volendo far morire subito i due ladroni, i soldati ricorsero al crurifragio, narra Giovanni, cioè gli spezzarono i femori in modo da impedire il penoso saliscendi. Per spiegare la fisiopatologia di questa morte atroce la scienza s’è potuta basare solo sulla aufbinden, tortura utilizzata nel lager di Dachau, dove i nazisti appendevano il condannato per i polsi. Pilato si stupì molto che Gesù fosse morto dopo sole tre ore».

Questo le ha fatto supporre che il decesso sia intervenuto a causa di un infarto miocardico.

«Molti indizi convergono verso tale diagnosi, già ipotizzata dal medico scozzese William Stroud nel 1871. Nel processo che cambia la storia del mondo, Pilato capisce subito che il Nazareno è innocente e pensa, sbagliando, che la flagellazione basterà a placare la folla, per cui lo fa ridurre a un ammasso di muscoli sanguinolenti: “Ecce homo”. Ci aggiunga la corona di spine, i chiodi e il peso del patibolo, 40 chili, tant’è che a un certo punto lo deve portare il Cireneo, altrimenti il condannato sarebbe morto prima d’arrivare sul Golgota. E poi lo stress neurovegetativo della sera precedente, quando Gesù sudò sangue nell’Orto degli ulivi, fenomeno rarissimo, l’ematoidrosi, noto fin dai tempi di Aristotele. Infine lo stress emotivo: pochi ricordano che venne tradotto da Anna a Caifa, e poi da questi a Pilato, e poi di nuovo riconsegnato ai giudei. Fu percosso con una canna e sbeffeggiato. Dal costato uscì un doppio fiotto di sangue ed acqua: si potrebbe spiegare con una pericardite traumatica. Insomma, la tesi dell’infarto appare più che fondata. Se così fosse, si realizzerebbe il Salmo 69 dell’Antico Testamento: “L’insulto ha spezzato il mio cuore e vengo meno”».

 

Il Giornale.it domenica 29 maggio 2011