Catechesi del Santo Padre

 

 

 

;     Il “cielo” come pienezza di intimità con Dio

;     L’inferno come rifiuto definitivo di Dio

;     Il purgatorio: necessaria purificazione per l'incontro con Dio

;     La vita cristiana come cammino verso la piena comunione con Dio

;     Il volto di Dio Padre. Anelito dell’uomo

;     La “Paternità” di Dio nell’Antico Testamento

;     Il rapporto di Gesù col Padre rivelazione del mistero Trinitario

;     “Conoscere” il Padre

;     Il Padre: Amore esigente

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Il “cielo” come pienezza di intimità con Dio

Lettura: 1Gv 3,2-3


1. Quando sarà passata la figura di questo mondo, coloro che hanno accolto Dio nella loro vita e si sono sinceramente aperti al suo amore almeno al momento della morte, potranno godere di quella pienezza di comunione con Dio, che costituisce il traguardo dell’esistenza umana.

Come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, “questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità, con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati è chiamata 'il cielo'. Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva” (n. 1024).

Vogliamo oggi cercare di cogliere il senso biblico del “cielo”, per poter comprendere meglio la realtà cui questa espressione rimanda.

2. Nel linguaggio biblico il “cielo” quando è unito alla “terra”, indica una parte dell’universo. A proposito della creazione, la Scrittura dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1).

Sul piano metaforico il cielo è inteso come abitazione di Dio, che in questo si distingue dagli uomini (cfr Sal 104,2s.; 115,16; Is 66,1). Egli dall’alto dei cieli vede e giudica (cfr Sal 113, 4-9), e discende quando lo si invoca (cfr Sal 18,7.10; 144,5). Tuttavia la metafora biblica fa bene intendere che Dio né si identifica con il cielo né può essere racchiuso nel cielo (cfr 1 Re 8,27); e ciò è vero, nonostante che in alcuni passi del primo libro dei Maccabei “il Cielo” sia semplicemente un nome di Dio (1 Mac 3,18.19.50.60; 4,24.55).

Alla raffigurazione del cielo, quale dimora trascendente del Dio vivo, si aggiunge quella di luogo a cui anche i credenti possono per grazia ascendere, come nell'Antico Testamento emerge dalle vicenda di Enoc (cfr Gn 5,24) e di Elia (cfr 2 Re 2,11). Il cielo diventa così figura della vita in Dio. In questo senso, Gesù parla di “ricompensa nei cieli” (Mt 5,12) ed esorta ad “accumulare tesori nel cielo” (ivi 6,20; cfr 19,21).

3. Il Nuovo Testamento approfondisce l'idea del cielo anche in rapporto al mistero di Cristo. Per indicare che il sacrificio del Redentore assume valore perfetto e definitivo, la Lettera agli Ebrei afferma che Gesù “ha attraversato i cieli” (Eb 4,14) e “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso” (ivi 9,24). I credenti, poi, in quanto amati in modo speciale da parte del Padre, vengono risuscitati con Cristo e sono resi cittadini del cielo. Vale la pena di ascoltare quanto in proposito l’apostolo Paolo ci comunica in un testo di grande intensità: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù” (Ef 2,4-7). La paternità di Dio, ricco di misericordia, viene sperimentata dalle creature attraverso l’amore del Figlio di Dio crocifisso e risorto, il quale come Signore siede nei cieli alla destra del Padre.

4. La partecipazione alla completa intimità con il Padre, dopo il percorso della nostra vita terrena, passa dunque attraverso l’inserimento nel mistero pasquale del Cristo. San Paolo sottolinea con vivida immagine spaziale questo nostro andare verso Cristo nei cieli alla fine dei tempi: “Quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro [i morti risuscitati] tra le nubi, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” (1 Ts 4,17-18).

Nel quadro della Rivelazione sappiamo che il “cielo” o la “beatitudine” nella quale ci troveremo non è un’astrazione, neppure un luogo fisico tra le nubi, ma un rapporto vivo e personale con la Trinità Santa. È l’incontro con il Padre che si realizza in Cristo Risorto grazie alla comunione dello Spirito Santo.

Occorre mantenere sempre una certa sobrietà nel descrivere queste ‘realtà ultime’, giacché la loro rappresentazione rimane sempre inadeguata. Oggi il linguaggio personalistico riesce a dire meno impropriamente la situazione di felicità e di pace in cui ci stabilirà la comunione definitiva con Dio.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica sintetizza l’insegnamento ecclesiale circa questa verità affermando che “con la sua morte e la sua risurrezione Gesù Cristo ci ha ‘aperto’ il cielo. La vita dei beati consiste nel pieno possesso dei frutti della Redenzione compiuta da Cristo, il quale associa alla sua glorificazione celeste coloro che hanno creduto in lui e che sono rimasti fedeli alla sua volontà. Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in lui” (n. 1026).

5. Questa situazione finale può essere tuttavia anticipata in qualche modo oggi, sia nella vita sacramentale, di cui l’Eucaristia è il centro, sia nel dono di sé mediante la carità fraterna. Se sapremo godere ordinatamente dei beni che il Signore ci elargisce ogni giorno, sperimenteremo già quella gioia e quella pace di cui un giorno godremo pienamente. Sappiamo che in questa fase terrena tutto è sotto il segno del limite, tuttavia il pensiero delle realtà ‘ultime’ ci aiuta a vivere bene le realtà ‘penultime’. Siamo consapevoli che mentre camminiamo in questo mondo siamo chiamati a cercare “le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (Col 3,1), per essere con lui nel compimento escatologico, quando nello Spirito egli riconcilierà totalmente con il Padre “le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1,20).
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Giovanni Paolo II
UDIENZA GENERALE - Mercoledì, 21 luglio 1999

 

 

 

L’inferno come rifiuto definitivo di Dio

Lettura: Gv 3,17-19

1.
Dio è Padre infinitamente buono e misericordioso. Ma l’uomo, chiamato a rispondergli nella libertà, può purtroppo scegliere di respingere definitivamente il suo amore e il suo perdono, sottraendosi così per sempre alla comunione gioiosa con lui. Proprio questa tragica situazione è additata dalla dottrina cristiana quando parla di dannazione o inferno. Non si tratta di un castigo di Dio inflitto dall’esterno, ma dello sviluppo di premesse già poste dall’uomo in questa vita. La stessa dimensione di infelicità che questa oscura condizione porta con sé può essere in qualche modo intuita alla luce di alcune nostre terribili esperienze, che rendono la vita, come si suol dire, un “inferno”.

In senso teologico, tuttavia, l’inferno è altra cosa: è l’ultima conseguenza dello stesso peccato, che si ritorce contro chi lo ha commesso. È la situazione in cui definitivamente si colloca chi respinge la misericordia del Padre anche nell’ultimo istante della sua vita.

2. Per descrivere questa realtà, la Sacra Scrittura si avvale di un linguaggio simbolico, che si preciserà progressivamente. Nell’Antico Testamento, la condizione dei morti non era ancora pienamente illuminata dalla Rivelazione. Si pensava infatti per lo più che i morti fossero raccolti nello sheól, un luogo di tenebre (cfr Ez 28,8; 31,14; Gb 10,21s.; 38,17; Sal 30,10; 88,7.13), una fossa dalla quale non si risale (cfr Gb 7,9), un luogo in cui non è possibile dare lode a Dio (cfr Is 38,18; Sal 6,6).

Il Nuovo Testamento proietta nuova luce sulla condizione dei morti, soprattutto annunciando che Cristo, con la sua risurrezione, ha vinto la morte e ha esteso la sua potenza liberatrice anche nel regno dei morti.

La redenzione rimane tuttavia un'offerta di salvezza che spetta all'uomo accogliere in libertà. Per questo ciascuno verrà giudicato “secondo le sue opere” (Ap 20,13). Ricorrendo ad immagini, il Nuovo Testamento presenta il luogo destinato agli operatori di iniquità come una fornace ardente, dove è “pianto e stridore di denti” (Mt 13,42; cfr 25,30.41), oppure come la Geenna dal “fuoco inestinguibile” (Mc 9,43). Tutto ciò è espresso narrativamente nella parabola del ricco epulone, nella quale si precisa che gli inferi sono il luogo di pena definitiva, senza possibilità di ritorno o di mitigazione del dolore (cfr Lc 16,19-31).

Anche l’Apocalisse raffigura plasticamente in uno “stagno di fuoco” coloro che si sottraggono al libro della vita, andando così incontro alla “seconda morte” (Ap 20,13s.). Chi dunque si ostina a non aprirsi al Vangelo si predispone a “una rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza” (2 Ts 1,9).

3. Le immagini con cui la Sacra Scrittura ci presenta l’inferno devono essere rettamente interpretate. Esse indicano la completa frustrazione e vacuità di una vita senza Dio. L’inferno sta ad indicare più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia. Così riassume i dati della fede su questo tema il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Morire in peccato mortale senza esserne pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola ‘inferno’» (n. 1033).

La ‘dannazione’ non va perciò attribuita all’iniziativa di Dio, poiché nel suo amore misericordioso egli non può volere che la salvezza degli esseri da lui creati. In realtà è la creatura che si chiude al suo amore. La ‘dannazione’ consiste proprio nella definitiva lontananza da Dio liberamente scelta dall’uomo e confermata con la morte che sigilla per sempre quell’opzione. La sentenza di Dio ratifica questo stato.

4. La fede cristiana insegna che, nel rischio del ‘sì’ e del ‘no’ che contraddistingue la libertà creaturale, qualcuno ha già detto no. Si tratta delle creature spirituali che si sono ribellate all’amore di Dio e vengono chiamate demoni (cfr Concilio Lateranense IV: DS 800-801). Per noi esseri umani questa loro vicenda suona come ammonimento: è richiamo continuo ad evitare la tragedia in cui sfocia il peccato e a modellare la nostra esistenza su quella di Gesù che si è svolta nel segno del ‘sì’ a Dio.

La dannazione rimane una reale possibilità, ma non ci è dato di conoscere, senza speciale rivelazione divina, se e quali esseri umani vi siano effettivamente coinvolti. Il pensiero dell’inferno – tanto meno l’utilizzazione impropria delle immagini bibliche – non deve creare psicosi o angoscia, ma rappresenta un necessario e salutare monito alla libertà, all’interno dell’annuncio che Gesù Risorto ha vinto Satana, donandoci lo Spirito di Dio, che ci fa invocare “Abbà, Padre” (Rm 8,15; Gal 4,6).

Questa prospettiva ricca di speranza prevale nell’annuncio cristiano. Essa viene efficacemente riflessa nella tradizione liturgica della Chiesa, come testimoniano ad esempio le parole del Canone Romano: “Accetta con benevolenza, o Signore, l’offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia … salvaci dalla dannazione eterna, e accoglici nel gregge degli eletti”.

Giovanni Paolo II
UDIENZA GENERALE - Mercoledì, 28 luglio 1999

 

 

 

 

Il purgatorio: necessaria purificazione per l'incontro con Dio

Lettura: 1 Gv 1,5-9

1. Come abbiamo visto nelle due precedenti catechesi, in base all'opzione definitiva per Dio o contro Dio, l'uomo si trova dinanzi a una delle alternative: o vive con il Signore nella beatitudine eterna, oppure resta lontano dalla sua presenza. Per quanti si trovano in condizione di apertura a Dio, ma in un modo imperfetto, il cammino verso la piena beatitudine richiede una purificazione, che la fede della Chiesa illustra attraverso la dottrina del "Purgatorio" (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1030-1032).

2. Nella Sacra Scrittura si possono cogliere alcuni elementi che aiutano a comprendere il senso di questa dottrina, pur non enunciata in modo formale. Essi esprimono il convincimento che non si possa accedere a Dio senza passare attraverso una qualche purificazione. Secondo la legislazione religiosa dell'Antico Testamento, ciò che è destinato a Dio deve essere perfetto. In conseguenza, l'integrità anche fisica è particolarmente richiesta per le realtà che vengono a contatto con Dio sul piano sacrificale, come per esempio gli animali da immolare (cfr Lv 22,22) o su quello istituzionale, come nel caso dei sacerdoti, ministri del culto (cfr Lv 21,17-23). A questa integrità fisica deve corrispondere una dedizione totale, dei singoli e della collettività (cfr 1 Re 8,61), al Dio dell'alleanza nella linea dei grandi insegnamenti del Deuteronomio (cfr 6,5). Si tratta di amare Dio con tutto il proprio essere, con purezza di cuore e con testimonianza di opere (cfr ivi, 10,12s).

L'esigenza d'integrità s'impone evidentemente dopo la morte, per l'ingresso nella comunione perfetta e definitiva con Dio. Chi non ha questa integrità deve passare per la purificazione. Un testo di san Paolo lo suggerisce. L'Apostolo parla del valore dell'opera di ciascuno, che sarà rivelata nel giorno del giudizio, e dice: "Se l'opera che uno ha costruito sul fondamento [che è Cristo] resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l'opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco" (1 Cor 3,14-15).

3. Per raggiungere uno stato di perfetta integrità è necessaria talvolta l'intercessione o la mediazione di una persona. Ad esempio, Mosè ottiene il perdono del popolo con una preghiera, nella quale evoca l'opera salvifica compiuta da Dio in passato e invoca la sua fedeltà al giuramento fatto ai padri (cfr Es 32,30 e vv. 11-13). La figura del Servo del Signore, delineata dal Libro di Isaia, si caratterizza anche per la funzione di intercedere e di espiare a favore di molti; al termine delle sue sofferenze egli "vedrà la luce" e "giustificherà molti", addossandosi le loro iniquità (cfr Is 52,13-53,12, spec. 53,11).

Il Salmo 51 può essere considerato, secondo la visuale dell'Antico Testamento, una sintesi del processo di reintegrazione: il peccatore confessa e riconosce la propria colpa (v. 6), chiede insistentemente di venire purificato o "lavato" (vv. 4.9.12.16) per poter proclamare la lode divina (v. 17).

4. Nel Nuovo Testamento Cristo è presentato come l'intercessore, che assume in sé le funzioni del sommo sacerdote nel giorno dell'espiazione (cfr Eb 5,7; 7,25). Ma in lui il sacerdozio presenta una configurazione nuova e definitiva. Egli entra una sola volta nel santuario celeste allo scopo d'intercedere al cospetto di Dio in nostro favore (cfr Eb 9,23-26, spec. 24). Egli è Sacerdote e insieme "vittima di espiazione" per i peccati di tutto il mondo (cfr 1 Gv 2,2). Gesù, come il grande intercessore che espia per noi, si rivelerà pienamente alla fine della nostra vita, quando si esprimerà con l'offerta di misericordia ma anche con l'inevitabile giudizio per chi rifiuta l'amore e il perdono del Padre. L'offerta della misericordia non esclude il dovere di presentarci puri ed integri al cospetto di Dio, ricchi di quella carità, che Paolo chiama "vincolo di perfezione" (Col 3,14).

5. Durante la nostra vita terrena seguendo l'esortazione evangelica ad essere perfetti come il Padre celeste (cfr Mt 5,48), siamo chiamati a crescere nell'amore per trovarci saldi e irreprensibili davanti a Dio Padre, "al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi" (1 Ts 3,12s.). D'altra parte, siamo invitati a "purificarci da ogni macchia della carne e dello spirito" (2 Cor 7,1; cfr 1 Gv 3,3), perché l'incontro con Dio richiede una purezza assoluta.

Ogni traccia di attaccamento al male deve essere eliminata; ogni deformità dell'anima corretta. La purificazione deve essere completa, e questo è appunto ciò che è inteso dalla dottrina della Chiesa sul purgatorio. Questo termine non indica un luogo, ma una condizione di vita. Coloro che dopo la morte vivono in uno stato di purificazione sono già nell'amore di Cristo, il quale li solleva dai residui dell'imperfezione (cfr Conc. Ecum. di Firenze, Decretum pro Graecis: DS 1304; Conc. Ecum. di Trento, Decretum de iustificatione: DS 1580; Decretum de purgatorio: DS 1820). Occorre precisare che lo stato di purificazione non è un prolungamento della situazione terrena, quasi fosse data dopo la morte un'ulteriore possibilità di cambiare il proprio destino. L'insegnamento della Chiesa in proposito è inequivocabile ed è stato ribadito dal Concilio Vaticano II, che così insegna: "Siccome poi non conosciamo né il giorno né l'ora, bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente, affinché, finito l'unico corso della nostra vita terrena (cfr Eb 9,27), meritiamo con Lui di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati, né ci si comandi, come a servi cattivi e pigri, di andare al fuoco eterno, nelle tenebre esteriori, dove 'ci sarà il pianto e lo stridore dei denti' (Mt 22,13 e 25,30)" (Lumen gentium, 48).

6. Un ultimo aspetto importante che la tradizione della Chiesa ha sempre evidenziato, va oggi riproposto: è quello della dimensione comunitaria. Infatti coloro che si trovano nella condizione di purificazione sono legati sia ai beati che già godono pienamente la vita eterna sia a noi che camminiamo in questo mondo verso la casa del Padre (cfr CCC, 1032). Come nella vita terrena i credenti sono uniti tra loro nell'unico Corpo mistico, così dopo la morte coloro che vivono nello stato di purificazione sperimentano la stessa solidarietà ecclesiale che opera nella preghiera, nei suffragi e nella carità degli altri fratelli nella fede. La purificazione è vissuta nel vincolo essenziale che si crea tra coloro che vivono la vita del secolo presente e quelli che già godono la beatitudine eterna.

Giovanni Paolo II
UDIENZA GENERALE - Mercoledì, 4 agosto 1999

 

 

La vita cristiana come cammino verso la piena comunione con Dio

Lettura: Ef 2,4-6

1.
Dopo aver meditato sul traguardo escatologico della nostra esistenza, cioè sulla vita eterna, vogliamo ora riflettere sul cammino che ad esso conduce. Sviluppiamo per questo la prospettiva presentata nella Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente: “Tutta la vita cristiana è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre, di cui si riscopre ogni giorno l’amore incondizionato per ogni creatura umana, ed in particolare per il ‘figlio perduto’ (cfr Lc 15,11-32). Tale pellegrinaggio coinvolge l’intimo della persona allargandosi poi alla comunità credente per raggiungere l’intera umanità” (n. 49).

In realtà, ciò che il cristiano vivrà un giorno in pienezza è già in qualche modo anticipato oggi. La Pasqua del Signore è infatti inaugurazione della vita del mondo che verrà.

2. L'Antico Testamento prepara l'annuncio di questa verità attraverso la complessa tematica dell'Esodo. Il cammino del popolo eletto verso la terra promessa (cfr Es 6,6) è come una magnifica icona del cammino del cristiano verso la casa del Padre. Ovviamente la differenza è fondamentale: mentre nell’antico Esodo la liberazione era orientata al possesso della terra, dono provvisorio come tutte le realtà umane, il nuovo “Esodo” consiste nell'itinerario verso la casa del Padre, in prospettiva di definitività ed eternità, che trascende la storia umana e cosmica. La terra promessa dell’Antico Testamento fu perduta di fatto con la caduta dei due regni e con l’esilio babilonese, in seguito al quale si sviluppò l'idea di un ritorno come nuovo Esodo. Tuttavia questo cammino non si risolse unicamente in un altro insediamento di tipo geografico o politico, ma si aprì ad una visione “escatologica” che ormai preludeva alla piena rivelazione in Cristo. In questa direzione si muovono appunto le immagini universalistiche, che nel Libro di Isaia descrivono il cammino dei popoli e della storia verso una nuova Gerusalemme, centro del mondo (cfr Is 56-66).

3. Il Nuovo Testamento annuncia il compimento di questa grande attesa, additando in Cristo il Salvatore del mondo: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4-5). Alla luce di questo annuncio la vita presente è già sotto il segno della salvezza. Questa si realizza nell’evento di Gesù di Nazaret che culmina nella Pasqua, ma avrà la sua piena realizzazione nella “parusia”, nell’ultima venuta di Cristo.

Secondo l’apostolo Paolo questo itinerario di salvezza che collega il passato al presente proiettandolo nell'avvenire è frutto di un disegno di Dio, tutto incentrato nel mistero di Cristo. Si tratta del “mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle sulla terra” (Ef 1,9-10; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1042s).

In questo disegno divino, il presente è il tempo del “già e non ancora”, tempo della salvezza già realizzata e del cammino verso la sua perfetta attuazione: “Finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,13).

4. La crescita verso una tale perfezione in Cristo, e perciò verso l’esperienza del mistero trinitario, implica che la Pasqua si realizzerà e celebrerà pienamente solo nel regno escatologico di Dio (cfr Lc 22,16). Ma l’evento dell’incarnazione, della croce e della risurrezione costituisce già la rivelazione definitiva di Dio. L’offerta di redenzione che tale evento implica si inscrive nella storia della nostra libertà umana chiamata a rispondere all'appello di salvezza.

La vita cristiana è partecipazione al mistero pasquale, come cammino di croce e risurrezione. Cammino di croce, perché la nostra esistenza è continuamente sotto il vaglio purificatore che porta al superamento del vecchio mondo segnato dal peccato. Cammino di risurrezione, perché risuscitando Cristo, il Padre ha sconfitto il peccato, per cui nel credente il “giudizio della croce” diventa “giustizia di Dio”, vale a dire trionfo della sua Verità e del suo Amore sulla perversità del mondo.

5. La vita cristiana è in definitiva una crescita verso il mistero della Pasqua eterna. Essa esige pertanto di tenere fisso lo sguardo alla meta, alle realtà ultime, ma al tempo stesso di impegnarsi nelle realtà ‘penultime’: tra queste e il traguardo escatologico non vi è opposizione, ma al contrario un rapporto di mutua fecondazione. Se va affermato sempre il primato dell’Eterno, ciò non impedisce che viviamo rettamente alla luce di Dio, le realtà storiche (cfr CCC, 1048s).

Si tratta di purificare ogni espressione dell’umano e ogni attività terrena, perché in esse traspaia sempre più il Mistero della Pasqua del Signore. Come infatti ci ha ricordato il Concilio, l’attività umana, che porta sempre con sé il segno del peccato, è purificata ed elevata a perfezione dal mistero pasquale, cosicché “i beni quali la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e universale” (Gaudium et spes, 39).

Questa luce d’eternità illumina la vita e l’intera storia dell’uomo sulla terra.


Giovanni Paolo II
UDIENZA GENERALE - Mercoledì, 11 agosto 1999

 

 

IL VOLTO DI DIO PADRE. ANELITO DELL'UOMO


1.
"Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te", (Conf. 1,1). Questa celebre affermazione, che apre le Confessioni di sant'Agostino, esprime efficacemente il bisogno insopprimibile che spinge 1'uomo a cercare il volto di Dio. É un'esperienza attestata dalle diverse tradizioni religiose. "Dai tempi antichi fino ad oggi - ha detto il Concilio - presso i vari popoli si nota quasi una percezione di quella forza arcana che è presente al corso delle cose c agli avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta si avverte un riconoscimento della divinità suprema o anche del Padre" (Nostra aetate, 2).
In realtà, tante preghiere della letteratura religiosa universale esprimono la convinzione che l'Essere supremo possa essere percepito e invocato come un padre, al quale si arriva attraverso 1'esperienza delle premure affettuose ricevute dal padre terreno. Proprio questa relazione ha suscitato in alcune correnti dell'ateismo contemporaneo il sospetto che 1'idea stessa di Dio sia la proiezione dell'immagine paterna. Il sospetto, in realtà, è infondato.
É vero tuttavia che, partendo dalla sua esperienza, 1'uomo è tentato talvolta di immaginare la divinità con tratti antropomorfici che rispecchiano troppo il mondo umano. La ricerca di Dio procede cosi "a tentoni", come Paolo disse nel discorso agli Ateniesi (cfr At 17, 27). Occorre dunque tener presente questo chiaroscuro del1'esperienza religiose, nella consapevolezza che solo la rivelazione piena, in cui Dio stesso si manifesta, può dissipare le ombre e gli equivoci e far risplendere la luce.

2. Sull'esempio di Paolo, che proprio nel discorso agli Ateniesi cita un verso del poeta Arato sul1'origine divina dell'uomo (cfr At 17, 28) la Chiesa guarda con rispetto ai tentativi che le varie religioni compiono per cogliere il volto di Dio, distinguendo nelle loro credenze ciò che è accettabile da quanto è incompatibile con la rivelazione cristiana.
In questa linea si deve considerare un'intuizione religiosa positiva la percezione di Dio come Padre universale del mondo e degli uomini. Non può essere invece accolta 1'idea di una divinità dominata dall'arbitrio e dal capriccio. Presso gli antichi greci, ad esempio, il Bene, quale essere sommo e divino, era chiamato anche padre, ma il dio Zeus manifestava la sua paternità tanto nella benevolenza quanto nell'ira e nella malvagità. Nell'Odissea si legge: "Padre Zeus, nessuno è più funesto di te tra gli dei: degli uomini non hai pietà, dopo. averli generati e affidati alla sventura e a gravosi dolori", (XX, 201-203).
Tuttavia 1'esigenza di un Dio superiore all'arbitrio capriccioso è presente anche tra i greci antichi, come testimonia, ad esempio, 1'"Inno a Zeus" del poeta Cleante. L'idea di un padre divino, pronto al dono generoso della vita c provvido nel fornire i beni necessari all'esistenza, ma anche severo e punitore, e non sempre per una ragione evidente, si collega nelle società antiche all'istituzione del patriarcato e ne trasferisce la concezione più abituale sul piano religiose.

3. In Israele il riconoscimento delta paternità di Dio è progressivo e continuamente insidiato dalla tentazione idolatrica che i profeti denunciano con forza: "Dicono a un pezzo di legno: Tu sei mio padre, e a una pietra: Tu mi hai generato" (Ger 2, 27). In realtà per 1'esperienza religiosa biblica la percezione di Dio come Padre è legata, più che alla sua azione creatrice, al suo intervento storico-salvifico, attraverso il quale stabilisce con Israele uno speciale rapporto di alleanza. Spesso Dio lamenta che il suo amore paterno non ha trovato adeguata corrispondenza: "II Signore dice: Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me", (Is 1, 2).
La paternità di Dio appare a Israele più salda di quella umana: "Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto" (Sal 27, 10). I1 salmista che ha fatto questa. dolorosa esperienza di abbandono, e ha trovato in Dio un padre più sollecito di quello terreno, ci indica la via da lui percorsa per giungere a questa meta: "Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto; il tuo volto, Signore, io cerco" (Sal 27, 8). Ricercare il volto di Dio è un cammino necessario, che si deve percorrere con sincerità di cuore e impegno costante. Solo il cuore del giusto può gioire nel cercare il volto del Signore (cfr Sal 105, 3s.) e su di lui può quindi risplendere il volto paterno di Dio (cfr Sal 119, 135; cfr anche 31, 17; 67, 2; 80, 4.8.20). Osservando la legge divina si gode anche pienamente della protezione del Dio dell'alleanza. La benedizione di cui Dio gratifica il suo popolo, tramite la mediazione sacerdotale di Aronne, insiste proprio su questo svelarsi luminoso del volto di Dio: "II Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. II Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace" (Nm 6. 25s.).

4. Da quando Gesù è venuto nel mondo, la ricerca del volto di Dio Padre ha assunto una dimensione ancora più significativa. Nel suo insegnamento Gesù, fondandosi sulla propria esperienza di Figlio, ha confermato la concezione di Dio come padre, già delineata nell'Antico Testamento; anzi 1'ha evidenziata costantemente, vissuta in modo intimo e ineffabile, e proposta come programma di vita per chi vuole ottenere la salvezza.
Soprattutto Gesù si pone in modo assolutamente unico in relazione con la paternità divina, manifestandosi come "figlio" e offrendosi come 1'unica strada per giungere al Padre. A Filippo che gli chiede "mostraci il Padre e ci basta", (Gv 14, 8), egli risponde che conoscere lui significa conoscere il Padre, perché il Padre opera attraverso lui (cfr Gv 14, 8-11). Per chi vuole dunque incontrare il Padre è necessario credere nel Figlio: mediante Lui Dio non si limita ad assicurarci una provvida assistenza paterna, ma comunica la sua stessa vita rendendoci "figli nel Figlio". É quanto sottolinea con commossa gratitudine l'apostolo Giovanni: "Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente" (1 Gv 3, 1).

UDIENZA GENERALE - Mercoledì, 13 gennaio 1999

 

 

 

LA "PATERNITÀ" DI DIO NELL'ANTICO TESTAMENTO


1. II popolo di Israele - come abbiamo già accennato nella scorsa catechesi - ha sperimentato Dio come padre. Al pari di tutti gli altri popoli, ha intuito in lui i sentimenti paterni attinti all'esperienza abituale di un padre terreno. Soprattutto ha colto in Dio un atteggiamento particolarmente paterno, partendo dalla conoscenza diretta della sua speciale azione salvifica, (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 238).
Dal primo punto di vista, quello dell'esperienza umana universale, Israele ha riconosciuto la paternità divina a partire dallo stupore dinanzi alla creazione e al rinnovarsi della vita. Il miracolo di un bimbo che si forma nel grembo materno non è spiegabile senza 1'intervento di Dio, come ricorda il salmista: "Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre ..." (Sal 139 [138], 13). Israele ha potuto vedere in Dio un padre anche in analogia con alcuni personaggi che detenevano una funzione pubblica, specialmente religiosa, ed erano ritenuti padri: così i sacerdoti (cfr Gn 17, 10; 18, 19; Gn 45, 8) o i profeti (cfr 2 Re 2, 12). Ben si comprende inoltre come il rispetto che la società israelitica richiedeva per il padre e i genitori inducesse a vedere in Dio un padre esigente. In effetti la legislazione mosaica è molto severa nei confronti dei figli che non rispettano i genitori, fino a prevedere la pena di morte per chi percuote o anche solo maledice il padre o la madre (Es 21, 15.17).

2. Ma al di là di questa rappresentazione suggerita dall'esperienza umana, in Israele matura un'immagine più specifica della divina paternità a partire dagli interventi salvifici di Dio. Salvandolo dalla schiavitù egiziana, Dio chiama Israele ad entrare in un rapporto di alleanza con lui e perfino a ritenersi il suo primogenito. Dio dimostra così di essergli padre in maniera singolare, come emerge dalle parole che rivolge a Mosè: "Allora tu dirai al faraone: dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito" (Es 4, 22).
Nell'ora della disperazione, questo popolo-figlio potrà permettersi d'invocare con il medesimo titolo di privilegio il Padre celeste, perché rinnovi ancora il prodigio dell'esodo: "(Abbi pietà, Signore, del popolo chiamato con il tuo nome, di Israele che hai trattato come un primogenito" (Sir 36, 11).
In forza di questa situazione, Israele è tenuto ad osservare una legge che lo contraddistingue dagli altri popoli, ai quali deve testimoniare la paternità divina di cui gode in modo speciale.
Lo sottolinea il Deuteronomio nel contesto degli impegni derivanti dall'alleanza: "voi siete figli per il Signore Dio vostro... Tu sei infatti un popolo consacrato al Signore tuo Dio e il Signore ti ha scelto, perché tu fossi il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra" (Dt 14, ls.). Non osservando la legge di Dio, Israele opera in contrasto con la sua condizione filiale, procurandosi i rimproveri del Padre celeste: "La Roccia, che ti ha generato, tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha procreato!" (Dt 32, 18).
Questa condizione filiale coinvolge tutti i membri del popolo d'Israele, ma viene applicata in modo singolare al discendente e successore di Davide secondo il celebre oracolo di Natan in cui Dio dice: "Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio", (2 Sam 7, 14; 1 Cron 17, 13).
Appoggiata su questo la tradizione messianica afferma una filiazione divina del Messia. Al re messianico Dio dichiara: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato" (Sal 2, 7; cfr 110 [109], 3).

3. La paternità divina nei confronti d'Israele é caratterizzata da un amore intenso, costante e compassionevole. Nonostante le infedeltà del popolo, e le conseguenti minacce di castigo, Dio si rivela incapace di rinunciare al suo amore. E lo esprime in termini di profonda tenerezza, anche quando é costretto a lamentare 1'incorrispondenza dei suoi figli: "Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d'amore: ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare... Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele?... Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione" (Os 11, 3s.8; cfr Ger 31, 20).
Persino il rimprovero diviene espressione di un amore di predilezione, come spiega il libro dei Proverbi: "Figlio mio, non disprezzare l'istruzione del Signore e non aver a noia la sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto" (Pr 3, 11-12).

4. Una paternità così divina e nello stesso tempo così "umana", nei modi con cui si esprime, riassume in sé anche le caratteristiche che solitamente si attribuiscono all'amore materno.
Anche se rare, le immagini dell'Antico Testamento in cui Dio si paragona ad una madre sono estremamente significative.
Si legge ad esempio nel libro di Isaia: "Sion ha detto: "Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato". Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai" (Is 49, 14- 15). E ancora: "Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò" (Is 66, 13).
L'atteggiamento divino verso Israele si manifesta così anche con tratti materni, che ne esprimono la tenerezza e la condiscendenza (efr CCC, 239). Questo amore, che Dio effonde con tanta ricchezza sul suo popolo, fa esultare il vecchio Tobi e gli fa proclamare: "Lodatelo, figli d'Israele, davanti alle genti: Egli vi ha disperso in mezzo ad esse per proclamare la sua grandezza. Esaltatelo davanti ad ogni vivente; è Lui il Signore, il nostro Dio, lui il nostro Padre, il Dio per tutti i secoli" (Tb 13, 3-4).


UDIENZA GENERALE -
Mercoledì 20 gennaio 1999

 

IL RAPPORTO DI GESÙ COL PADRE RIVELAZIONE DEL MISTERO TRINITARIO

1. Come abbiamo visto nella precedente catechesi, con le sue parole e le sue opere Gesù intrattiene con "suo" Padre un rapporto del tutto speciale. Il vangelo di Giovanni sottolinea che quanto egli comunica agli uomini è frutto di questa unione intima e singolare: "Io e il Padre siamo una cosa sola", (Gv 10, 30). E ancora: "Tutto quello che il Padre possiede è mio" (Gv 16, 15). Esiste una reciprocità tra il Padre e il Figlio, in quello che conoscono di se stessi (cfr Gv 10, 15), in quello che sono (cfr Gv 14, 10), in quello che fanno (cfr Gv 5, 19; 10, 38) e in quello che possiedono: "Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie" (Gv 17, 10). É uno scambio reciproco che trova la sua espressione piena nella gloria che Gesù consegue dal Padre nel mistero supremo della morte e della risurrezione, dopo averla egli stesso procurata al Padre durante la vita terrena: "Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te... Io ti ho glorificato sopra la terra... E ora, Padre, glorificami davanti a te" (Gv 17, 1.4s.).
Questa unione essenziale con il Padre non solo accompagna l'attività di Gesù, ma qualifica tutto il suo essere. "L'Incarnazione del Figlio di Dio rivela che Dio è il Padre eterno e che il Figlio è consustanziale al Padre, ciò che in lui e con lui è lo stesso unico Dio" (CCC, 262). L'evangelista Giovanni mette in evidenza che proprio a questa pretesa divina reagiscono i capi religiosi del popolo, non tollerando che egli chiami Dio suo Padre e si faccia quindi uguale a Dio (Gv 5, 18; cfr 10, 33; 19, 7).

2. In forza di questa consonanza nell'essere e nell'agire, sia con le parole che con le opere Gesù rivela il Padre: "Dio nessuno 1'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1, 18). La "predilezione" di cui Cristo gode è proclamata nel suo battesimo secondo la narrazione dei Vangeli sinottici (cfr Mc 1, 11; Mt 3, 17; Lc 3, 22). Essa è ricondotta dall'evangelista Giovanni alla sua radice trinitaria, ossia alla misteriosa esistenza del Verbo "presso" il Padre (Gv 1, 1), che nell'eternità lo ha generato.
Partendo dal Figlio, la riflessione del Nuovo Testamento, e poi la teologia in essa radicata, hanno approfondito il mistero della "paternità" di Dio. I1 Padre è colui che nella vita trinitaria costituisce il principio assoluto, colui che non ha origine e dal quale scaturisce la vita divina. L'unità delle tre persone è condivisione dell'unica essenza divina, ma nel dinamismo di reciproche relazioni che hanno nel Padre la sorgente e il fondamento. "É il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede" (Concilio Lateranense IV: DS, 804).

3. Di questo mistero che sorpassa infinitamente la nostra intelligenza, 1'apostolo Giovanni ci offre una chiave, quando nella prima lettera proclama: "Dio è amore" (1 Gv 4, 8). Questo vertice della rivelazione indica che Dio è agape, ossia dono gratuito e totale di se, di cui Cristo ci ha dato testimonianza specialmente con la sua morte in croce. Nel sacrificio di Cristo, si rivela 1'infinito amore del Padre per il mondo (cfr Gv 3, 16; Rm 5, 8). La capacità di amare infinitamente, donandosi senza riserve e senza misura, è propria di Dio. In forza di questo suo essere Amore, Egli, prima ancora della libera creazione del mondo, è Padre nella stessa vita divina: Padre amante che genera il Figlio amato e da origine con lui allo Spirito Santo, la Persona-Amore, reciproco vincolo di comunione.
Su questa base la fede cristiana comprende 1'uguaglianza delle tre persone divine: il Figlio e lo Spirito sono uguali al Padre non come principi autonomi, quasi fossero tre dei, ma in quanto ricevono dal Padre tutta la vita divina, distinguendosi da lui e reciprocamente solo nella diversità delle relazioni (cfr CCC, 254).
Mistero grande, mistero di amore, mistero ineffabile, di fronte al quale la parola deve lasciare il posto al silenzio dello stupore e dell'adorazione. Mistero divino che ci interpella e ci coinvolge, perché la partecipazione alla vita trinitaria ci è stata offerta per grazia, attraverso 1'incarnazione redentrice del Verbo e il dono dello Spirito Santo: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui", (Gv 14, 23).

4. La reciprocità tra il Padre e il Figlio, diventa così per noi credenti principio di vita nuova, che ci consente di partecipare alla stessa pienezza della vita divina: "Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio" (1 Gv 4, 15). I1 dinamismo della vita trinitaria viene vissuto dalle creature, in modo tale che tutto converge verso il Padre, mediante Gesù Cristo, nello Spirito Santo.
É quanto sottolinea il Catechismo della Chiesa Cattolica: "Tutta la vita cristiana è comunione con ognuna delle Persone divine, senza in alcun modo separarle. Chi rende gloria al Padre lo fa per il Figlio nello Spirito Santo" (n. 259). Il Figlio è divenuto "primogenito tra molti fratelli" (Rm 8, 29); attraverso la sua morte il Padre ci ha rigenerati (1 Pt 1, 3; cfr anche Rm 8, 32; Ef 1, 3), sicché nello Spirito Santo possiamo invocarlo con lo stesso termine usato da Gesù: Abbà (Rm 8, 15; Gal 4, 6). San Paolo illustra ulteriormente questo mistero, dicendo che "il Padre ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. É lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto" (Col 1, 12-13). E l'Apocalisse cosi descrive la sorte escatologica di colui che lotta e vince con Cristo la potenza del male: "II vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono" (Ap 3, 21).
Questa promessa di Cristo ci apre una prospettiva meravigliosa di partecipazione alla sua intimità celeste con il Padre.


Udienza generale, Mercoledì 10 marzo
1999

 

 

"CONOSCERE" IL PADRE

l. Nell'ora drammatica in cui si appresta ad affrontare la morte, Gesù conclude il suo grande discorso di addio (cfr Gv 13ss.) rivolgendo una stupenda preghiera al Padre. Essa può considerarsi un testamento spirituale in cui Gesù rimette nelle mani del Padre il mandato ricevuto: far conoscere il suo amore al mondo, attraverso il dono della vita eterna (cfr Gv 17, 2). La vita che egli offre è significativamente spiegata come un dono di conoscenza. "Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato" (Gv 17, 3).
La. conoscenza, nel linguaggio biblico dell'Antico e del Nuovo Testamento, non interessa solo la sfera intellettuale, ma implica normalmente un'esperienza vitale che chiama in causa la persona umana nella sua globalità e quindi anche nella sua capacità d'amare.
É una conoscenza che fa "incontrare" Dio, ponendosi all'interno di quel processo che la tradizione teologica orientale ama chiamare "divinizzazione" e che si compie per l'azione interiore e trasformante dello Spirito di Dio (cfr san Gregorio di Nissa, Oratio catech., 37: PG 45, 98B). Abbiamo già toccato tali temi nella catechesi per l'anno dello Spirito Santo. Tornando ora sulla citata frase di Gesù, vogliamo approfondire che cosa significa conoscere vitalmente Dio Padre.

2. Si può conoscere Dio come padre a diversi livelli, secondo la prospettiva da cui si guarda, e l'aspetto del mistero che si considera. C'è una conoscenza naturale di Dio a partire dalla creazione: essa conduce a riconoscere in Lui l'origine e la causa trascendente del mondo e dell'uomo e in questo senso a intuirne la paternità. Questa conoscenza si approfondisce alla luce progressiva della Rivelazione, cioè sulla base delle parole e degli interventi storico-salvifici di Dio (cfr CCC, 287).
Nell'Antico Testamento conoscere Dio come padre significa risalire alle origine del popolo dell'alleanza: "Non è lui il Padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?" (Dt 32, 6). Il riferimento a Dio in quanto padre garantisce e conserva l'unità dei membri di una stessa famiglia: "Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio?" (Ml 2, 10). Si riconosce Dio come padre anche nel momento in cui redarguisce il figlio per il suo bene: "Il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto" (Pr 3, 12). E ovviamente un padre può essere sempre invocato nell'ora dello sconforto: "Esclamai: "Signore, mio padre tu sei e campione della mia salvezza, non mi abbandonare nei giorni dell'angoscia, nel tempo dello sconforto e della desolazione"" (Sir 51, 10). In tutte queste forme vengono applicate a Dio per eccellenza quei valori che si sperimentano nella paternità umana. Si intuisce tuttavia che non è possibile conoscere a fondo il contenuto di una tale paternità divina, se non nella misura in cui Dio stesso la manifesta.

3. Negli eventi della storia della salvezza si rivela sempre più l'iniziativa del Padre, che con la sua azione interiore apre il cuore dei credenti ad accogliere il Figlio incarnato.
Conoscendo Gesù essi potranno conoscere anche Lui, il Padre.
É quanto insegna Gesù stesso rispondendo a Tommaso: "Se conoscete me conoscerete anche il Padre" (Gv 14, 7, cfr vv. 7-10).
Bisogna dunque credere in Gesù e guardare a lui, luce del mondo, per non rimanere nelle tenebre dell'ignoranza (cfr Gv 12, 44-46) e per conoscere che la sua dottrina viene da Dio (cfr- -Gv 7, 17s.). A questa condizione è possibile conoscere il Padre, diventando capaci di adorarlo "in spirito e verità" (Gv 4, 23). Questa conoscenza viva è inseparabile dall'amore. Viene comunicata da Gesù, come egli ha detto nella sua preghiera sacerdotale: "Padre giusto, ... io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi" (Gv 17, 25-26).
"Quando preghiamo il Padre, siamo in comunione con lui e con il Figlio suo Gesù Cristo. É allora che lo conosciamo e lo riconosciamo in uno stupore sempre nuovo" (CCC, 2781). Conoscere il Padre significa, dunque, trovare in lui la fonte del nostro essere e della nostra unità, in quanto membri di un'unica famiglia, ma significa anche essere immersi in una vita, "soprannaturale", la vita stessa di Dio.

4. L'annuncio del Figlio rimane dunque la via maestra per conoscere e far conoscere il Padre; infatti, come ricorda una suggestiva espressione di sant'Ireneo, "la conoscenza del Padre è il Figlio" (Adv. haer., 4, 6, 7: PG 7, 990B). É la possibilità offerta a Israele, ma anche alle genti, come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani: "Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche dei pagani? Certo, anche dei pagani! Poiché non c'è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi" (Rm 3, 29s.). Dio è unico, ed è Padre di tutti, desideroso di offrire a tutti la salvezza operata per mezzo del suo Figlio: è quello che il vangelo di Giovanni chiama il dono della vita eterna. Questo dono ha bisogno di essere accolto e comunicato, sull'onda di quella riconoscenza che faceva dire a Paolo, nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi: "Noi però dobbiamo rendere sempre grazie a Dio per voi, fratelli amati dal Signore, perché Dio vi ha scelti come primizia per la salvezza, attraverso l'opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità" (2 Ts 2, 13).


Udienza generale, Mercoledì 17 marzo
1999

 

 

 

 

IL PADRE: AMORE ESIGENTE

l. L'amore di Dio Padre per noi non ci può lasciare indifferenti, anzi richiede di essere ricambiato con un impegno costante di amore. Questo impegno assume significati sempre più profondi quanto più ci avviciniamo a Gesù, che vive pienamente in comunione con il Padre, facendosi modello per noi.
Nel contesto culturale dell'Antico Testamento l'autorità del padre è assoluta, e viene assunta come termine di confronto per descrivere l'autorità di Dio creatore, a cui non è lecito muovere contestazioni.
Si legge in Isaia: "Chi oserà dire a un padre: "Che cosa generi?" o a una donna' "Che cosa partorisci?" Dice il Signore, il Santo di Israele, che lo ha plasmato: "Volete interrogarmi sul futuro dei miei figli e darmi ordini sul lavoro delle mie mani?"" (Is 45, 10s.). Un padre ha pure il compito di guidare il figlio, ammonendolo con severità, se necessario.
Il Libro dei Proverbi ricorda che ciò vale anche per Dio: "Il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto" (Pr 3, 12; cfr Sal 103, 13). Il profeta Malachia da parte sua attesta l'affetto compassionevole di Dio verso i suoi figli (Ml 3, 17), ma si tratta pur sempre d'un amore esigente: "Tenete a mente la legge del mio servo Mosè, al quale ordinai sull'Oreb statuti e norme per tutto Israele" (Ml 3, 22).

2. La legge che Dio dà al suo popolo non è un peso imposto da un, padrone tirannico, ma l'espressione di quell'amore paterno che indica il giusto sentiero della condotta umana e la condizione per ereditare le promesse divine. A questo il senso dell'ingiunzione del Deuteronomio: "Osserva i comandi del Signore tuo Dio, camminando sulle sue vie e temendolo; perché il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile" (Dt 8, 5-7). In quanto sancisce l'alleanza tra Dio e i figli d'Israele la legge è dettata dall'amore. Ma il trasgredirla non è senza conseguenze, comportando esiti dolorosi, che sono tuttavia sempre dominati dalla logica dell'amore, perché costringono l'uomo a prendere salutare coscienza di una dimensione costitutiva del suo essere.
"É scoprendo la grandezza dell'amore di Dio che il nostro cuore viene scosso dall'orrore e dal peso del peccato e comincia a temere di offendere Dio con il peccato e di essere separato da lui" (CCC, 1432).
Se si stacca dal Creatore, l'uomo precipita necessariamente nel male, nella morte, nel nulla. Al contrario, l'adesione a Dio è fonte di vita e benedizione. É quanto sottolinea lo stesso Libro del Deuteronomio: "Vedi, io oggi pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso" (Dt 30, 15s.).

3. Gesù non abolisce la Legge nei suoi valori fondamentali, ma la perfeziona, come dice egli stesso nel discorso della montagna: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento" (Mt 5, 17).
Gesù addita il cuore della Legge nel precetto dell'amore, e ne sviluppa le esigenze radicali. Ampliando il precetto dell'Antico Testamento, egli comanda di amare amici e nemici, e spiega questa estensione del precetto facendo riferimento alla paternità di Dio: "Perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti" (Mt 5, 43-45; cfr CCC, 2784).
Con Gesù avviene un salto di qualità: egli sintetizza la Legge e i Profeti in una sola norma, tanto semplice nella sua formulazione quanto difficile nell'attuazione: "Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro" (cfr Mt 7, 12). Questa è addirittura presentata come la via da percorrere per essere perfetti come il Padre celeste (cfr Mt 5, 48). Chi agisce così, rende testimonianza agli uomini perché sia glorificato il Padre che è nei cieli (cfr Mt 5, 16), e si dispone a ricevere il Regno che egli ha preparato per i giusti, secondo le parole di Cristo nel giudizio finale: "Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo" (Mt 25, 34).

4. Mentre annuncia l'amore del Padre, Gesù non manca mai di ricordare che si tratta di un amore impegnativo. Questo tratto del volto di Dio emerge da tutta la vita di Gesù. Il suo "cibo" è appunto attuare la volontà di colui che lo ha mandato (cfr Gv 4, 34). Proprio perché egli cerca non la propria volontà, ma il volere del Padre che lo ha inviato nel mondo, il suo giudizio è giusto (cfr Gv 5, 30).
Il Padre perciò gli rende testimonianza (cfr Gv 5, 37) e così pure le Scritture (cfr Gv 5, 39). Soprattutto le opere che compie in nome del Padre garantiscono che egli è inviato da lui (cfr Gv 5, 36; 10, 25.37-38). Tra di esse, la più alta è quella di offrire la propria vita, come il Padre gli ha comandato: questo dono di sé è addirittura la ragione per cui il Padre lo ama (cfr Gv 10,17-18) ed è il segno che egli ama il Padre (cfr Gv 14, 31). Se già la legge del Deuteronomio era cammino e garanzia di vita, la legge del Nuovo Testamento lo è in modo inedito e paradossale, esprimendosi nel comandamento di amare i fratelli fino a dare la vita per loro (cfr Gv 15, 12-13).
Il "comandamento nuovo" dell'amore, come ricorda san Giovanni Crisostomo, ha la sua ragione ultima nell'amore divino: "Non potete chiamare vostro padre il Dio di ogni bontà, se conservate un cuore crudele e disumano; in tal caso, infatti, non avete più in voi l'impronta della bontà del Padre celeste" (Hom. in illud "Angusta est porta": PG 51, 44B). In questa prospettiva c'è insieme continuità e superamento: la Legge si trasforma e sì approfondisce come Legge dell'amore, l'unica che conviene al volto paterno di Dio.

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dienza generale, Mercoledì 7 aprile 1999

 

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