Catechesi su Salmi e Cantici |
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I Salmi nella Tradizione della Chiesa 1. Nella Lettera
Apostolica Novo Millennio Ineunte ho auspicato che la Chiesa si
distingua sempre di
più nell’«arte della
preghiera» apprendendola sempre nuovamente dalle labbra del divino
Maestro (cfr. n. 32). Tale impegno deve essere vissuto soprattutto nella
Liturgia, fonte e culmine della vita ecclesiale. In questa linea è importante
riservare una maggiore cura pastorale alla promozione della Liturgia delle
Ore come preghiera di tutto il Popolo di Dio (cfr. Ivi, 34). Se, infatti, i
sacerdoti e i religiosi hanno un preciso mandato di celebrarla, essa è però
proposta caldamente anche al laici. A questo mirò, poco più di trent'anni or
sono, il mio venerato predecessore Paolo VI, con la costituzione Laudis
canticum in cui determinava il modello vigente di questa preghiera,
augurandosi che i Salmi e i Cantici, struttura portante della Liturgia delle
Ore, fossero compresi «con rinnovato amore dal Popolo dì Dio» (AAS 63 , 532). È un dato incoraggiante
che molti laici, sia nelle parrocchie che nelle aggregazioni ecclesiali,
abbiano imparato a valorizzarla. Essa resta, tuttavia, una preghiera che
suppone un'adeguata formazione catechetica e biblica, perché la si possa
gustare fino in fondo. A questo scopo
cominciamo oggi una serie di catechesi sui Salmi e sui Cantici proposti nella
preghiera mattutina delle Lodi. Desidero, in tal modo,
incoraggiare e aiutare tutti a pregare con le stesse parole utilizzate da
Gesù e presenti da millenni nella preghiera dì Israele e in quella della
Chiesa. 2. Potremmo introdurci
alla comprensione dei Salmi attraverso varie vie. La prima consisterebbe
nel presentare la loro struttura letteraria, i loro autori, la loro
formazione, i contesti in cui sono nati. Suggestiva poi sarebbe una lettura
che ne mettesse in evidenza il carattere poetico, che raggiunge talvolta
altissimi livelli di intuizione lirica e di espressione simbolica. Non meno interessante sarebbe ripercorrere
i Salmi considerando i vari sentimenti dell'animo umano che essi manifestano:
gioia, riconoscenza, rendimento di grazie, amore, tenerezza, entusiasmo, ma
anche intensa sofferenza, recriminazione, richiesta di aiuto e di giustizia,
che sfociano talvolta in rabbia e imprecazione. Nei Salmi l'essere umano
ritrova se stesso interamente. La nostra lettura mirerà soprattutto a far
emergere il significato religioso del Salmi, mostrando come essi, pur essendo
stati scritti tanti secoli fa per dei credenti ebrei, possano essere assunti
nella preghiera del discepoli di Cristo. Ci lasceremo per questo aiutare dai
risultati dell'esegesi, ma insieme ci metteremo alla scuola della Tradizione,
soprattutto ci porremo in ascolto dei Padri della Chiesa. 3. Questi ultimi,
infatti, con profonda penetrazione spirituale, hanno saputo discernere e
additare la grande «chiave» di lettura del Salmi in Cristo stesso, nella
pienezza del suo mistero. I Padri ne erano ben convinti: nei Salmi si parla
di Cristo. Infatti Gesù risorto applicò a se stesso i Salmi quando disse ai
discepoli: «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella
Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24, 44). I Padri aggiungono che
nei Salmi si parla a Cristo o è addirittura Cristo a parlare. Dicendo questo,
essi non pensavano soltanto alla persona individuale di Gesù, ma al Christus
totus, al Cristo totale, formato da Cristo capo e dalle sue membra. Nasce
cosi, per il cristiano, la possibilità di leggere il Salterio alla luce di
tutto il mistero di Cristo. Proprio quest'ottica ne fa emergere anche la
dimensione ecclesiale, che è particolarmente evidenziata dal canto corale dei
Salmi. Si comprende così come i Salmi abbiano potuto essere assunti, fin dai
primi secoli, come preghiera del Popolo di Dio. Se, in alcuni periodi
storici, emerse una tendenza a preferire altre preghiere, è stato grande
merito dei monaci tenere alta nella Chiesa la fiaccola del Salterio. Uno di
loro, san Romualdo fondatore di Camaldoli, all'alba del secondo millennio
cristiano, giungeva a sostenere che - come afferma il suo biografo Bruno di
Querfurt - sono i Salmi l'unica strada per fare esperienza di una preghiera
veramente profonda: «Una via in psalmis» (Passio Sanctorum Benedicti et
Johannes ac soclorum eorundem: MPH VI, 1893,427). 4. Con questa
affermazione, a prima vista eccessiva, egli in realtà restava ancorato alla
migliore tradizione dei primi secoli cristiani, quando il Salterio era
diventato il libro per eccellenza della preghiera ecclesiale. Fu questa la
scelta vincente nei confronti delle tendenze ereticali che continuamente
insidiavano l'unità di fede e di comunione. E Interessante a tal proposito
una stupenda lettera che sant' Atanasio scrisse a Marcellino nella prima metà
del IV secolo, mentre l'eresia ariana Imperversava attentando alla fede nella
divinità dì Cristo. Di fronte agli eretici che attiravano a sé la gente anche
con canti e preghiere che ne gratificavano i sentimenti religiosi, il grande
Padre della Chiesa si dedicò con tutte le sue forze a insegnare il Salterio
trasmesso dalla Scrittura (cfr. PG 27, 12 ss.). Fu così che al «Padre
Nostro", la preghiera del Signore per antonomasia, si aggiunse la
prassi, presto divenuta universale fra i battezzati, della preghiera
salmodica. 5. Grazie anche alla preghiera comunitaria dei Salmi, la coscienza cristiana ha ricordato e compreso che è impossibile rivolgersi al Padre che abita nel cieli senza un'autentica comunione di vita con i fratelli e le sorelle che abitano sulla terra. Non solo, ma inserendosi vitalmente nella tradizione orante degli ebrei, i cristiani impararono a pregare raccontando i magnalia Dei, cioè le grandi meraviglie compiute da Dio sia nella creazione del mondo e dell'umanità, sia nella storia di Israele e della Chiesa. Questa forma di preghiera attinta alla Scrittura, non esclude certo espressioni più libere, e queste continueranno non solo a caratterizzare la preghiera personale, ma anche ad arricchire la stessa preghiera liturgica, ad esempio con inni e tropari. Il libro del Salterio rimane comunque la fonte ideale della preghiera cristiana, e ad esso continuerà ad ispirarsi la Chiesa nel nuovo millennio. Udienza generale, 28
marzo 2001 Giovanni Paolo II |
L'anima assetata del Signore - Salmo 62 1- Il Salmo 62, sul
quale oggi ci fermiamo a riflettere, è il Salmo dell'amore mistico, che
celebra l'adesione totale a Dio, partendo da un anelito quasi fisico e
raggiungendo la sua pienezza in un abbraccio intimo e perenne. La preghiera
si fa desiderio, sete e fame, perché coinvolge anima e corpo. Come scrive
santa Teresa d'Avila, «la sete esprime il desiderio di una cosa, ma un
desiderio talmente intenso che noi moriamo se ne restiamo privi» (Cammino di
perfezione, e, XXI). Del Salmo la liturgia ci propone le prime due strofe che
sono appunto incentrate sui simboli della sete e della fame, mentre la terza
strofa fa balenare un orizzonte oscuro, quello del giudizio divino sul male,
in contrasto con la luminosità e la dolcezza del resto del Salmo. 2. Iniziamo, allora, la
nostra meditazione col primo canto, quello della sete di Dio (cfr. vv. 2-4).
E l'alba, il sole sta sorgendo nel cielo terso della Terra Santa e l'orante
comincia la sua giornata recandosi al tempio per cercare la luce di Dio. Egli
ha bisogno di quell' incontro col Signore in modo quasi istintivo, si direbbe
«fisico». Come la terra arida è morta, finché non è irrigata dalla pioggia, e
come nelle screpolature del terreno essa sembra una bocca assetata e riarsa,
così il fedele anela a Dio per essere riempito di Lui e per potere così
esistere in comunione con Lui. Il profeta Geremia aveva
già proclamato: il Signore è «sorgente d'acqua viva», e aveva rimproverato il
popolo per aver costruito «cisterne screpolate, che non tengono l'acqua» (2,
13). Gesù stesso esclamerà ad alta voce: «Chi ha sete venga a me e beva, chi
crede in me» (Gv 7, 37-38). Nel pieno meriggio di un giorno assolato e
silenzioso, promette alla donna samaritana: «Chi beve dell'acqua che io gli
darò, non avrà mai più sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui
sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 14). 3. La preghiera del
Salmo 62 s'intreccia, per questo tema, col canto di un altro stupendo Salmo,
il 41: «Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o
Dio. L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente» (vv. 2-3). Ora, nella
lingua dell'Antico Testamento, l'ebraico, «l'anima» è espressa con il termine
nefesh, che in alcuni testi designa la «gola» e in molti altri si allarga ad
indicare l'essere intero della persona. Colto in queste dimensioni, il
vocabolo aiuta a comprendere quanto sia essenziale e profondo il bisogno di
Dio; senza di lui vien meno il respiro e la stessa vita. Per questo il
Salmista giunge a mettere in secondo piano la stessa esistenza fisica,
qualora venga a mancare l'unione con Dio: «La tua grazia vale più della vita»
(Sal 62, 4). Anche nel Salmo 72 si ripeterà al Signore: «Fuori di te nulla
bramo sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma la roccia del
mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre il mio bene è stare vicino a
Dio» (vv. 25-28). 4. Dopo il canto della
sete, ecco modularsi nelle parole del Salmista il canto della fame (cfr. Sal
62, 6-9). Probabilmente, con le immagini del «lauto convito» e della sazietà,
l'orante rimanda a uno dei sacrifici che si celebravano nel tempio di Sion:
quello cosiddetto «di comunione», ossia un banchetto sacro in cui i fedeli
mangiavano le carni delle vittime immolate. Un'altra necessità fondamentale
della vita viene qui usata come simbolo della comunione con Dio: la fame è
saziata quando si ascolta la Parola divina e si Incontra il Signore. Infatti,
«l'uomo non vive soltanto di pane, ma l'uomo vive di quanto esce dalla bocca
del Signore» (Dt 8, 3; cfr. Mt 4, 4). E qui il pensiero del cristiano corre a
quel banchetto che Cristo ha imbandito l'ultima sera della sua vita terrena e
il cui valore profondo aveva già spiegato nel discorso di Cafarnao: «La mia
carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e
beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6, 55-56). 5. Attraverso il cibo
mistico della comunione con Dio «l'anima si stringe» a Lui, come dichiara il Salmista.
Ancora una volta, la parola «anima» evoca l'intero essere umano. Non per
nulla si parla di un abbraccio, di uno stringersi quasi fisico: ormai Dio e
uomo sono in piena comunione e sulle labbra della creatura non può che
sbocciare la lode gioiosa e grata. Anche quando si è nella notte oscura, ci
si sente protetti dalle ali di Dio, come l'arca dell'alleanza è coperta dalle
ali del cherubini. E allora fiorisce l'espressione estatica della gioia:
«Esulto di gioia all'ombra delle tue ali». La paura si dissolve, l'abbraccio
non stringe il vuoto ma Dio stesso, la nostra mano s'intreccia con la forza
della sua destra (cfr. Sal 62, 8-9). 6. In una lettura del
Salmo alla luce del mistero pasquale, la sete e la fame che ci spingono verso
Dio, trovano il loro appagamento in Cristo crocifisso e risorto, dal quale
giunge a noi, mediante il dono dello Spirito e dei Sacramenti, la vita nuova
e l'alimento che la sostiene. Ce lo ricorda san Giovanni Crisostomo, che
commentando l'annotazione giovannea: dal fianco «usci sangue e acqua» (cfr.
Gv 19, 34), afferma: «Quel sangue e quell’ acqua sono simboli del Battesimo e
dei Misteri», cioè dell'Eucaristia. E conclude: «Vedete come Cristo congiunse
a se stesso la sposa? Vedete con quale cibo nutre tutti noi? E dallo stesso
cibo che siamo stati formati e veniamo nutriti. Infatti come la donna nutre
colui che ha generato con il proprio sangue e latte, così anche Cristo nutre
continuamente col proprio sangue colui che egli stesso ha generato» (Omelia
III rivolta al neofiti, 16-19 passim; SC 50 bis, 160-162). Udienza generale, 25 aprile 2001Giovanni Paolo II |
Festa degli amici di Dio - Salmo 149 1. «Esultino i fedeli nella
gloria, sorgano lieti dai loro giacigli». Questo appello del Salmo 149, che è
stato appena proclamato, rimanda ad un'alba che sta per schiudersi e vede i
fedeli pronti a intonare la loro lode mattutina. Tale lode è definita, con
un'espressione significativa, «un canto nuovo» (v. 1), cioè un inno solenne e
perfetto, adatto ai giorni finali, in cui il Signore radunerà i giusti in un
mondo rinnovato. Tutto il Salmo è percorso da un'atmosfera festosa.
Inaugurata già dall'alleluia iniziale e ritmata poi in canto, lode, gioia,
danza, suono dei timpani e delle cetre. La preghiera che questo Salmo ispira
è l'azione di grazie di un cuore colmo di religiosa esultanza. 2. I protagonisti del
Salmo sono chiamati, nell'originale ebraico dell'inno, con due termini caratteristici
della spiritualità dell'Antico Testamento. Per tre volte essi sono definiti
innanzitutto come hasidim (vv. 1.5.9), cioè «i pii, i fedeli», coloro che
rispondono con fedeltà e amore (hesed) all'amore paterno del Signore. La seconda parte del Salmo
desta meraviglia, perché è piena di espressioni belliche. Ci sembra strano
che, in uno stesso versetto, il Salmo metta insieme «le lodi di Dio nella
bocca» e «la spada a due tagli nelle loro mani» (v. 6). Riflettendo, possiamo
capire il perché: il Salmo fu composto per dei «fedeli» che si trovavano
impegnati in una lotta di liberazione; combattevano per liberare il loro
popolo oppresso e rendergli la possibilità di servire Dio. Durante l'epoca
dei Maccabei, nel II secolo a.C., i combattenti per la libertà e per la fede,
sottoposti a dura repressione da parte del
potere ellenistico, si chiamavano proprio hasidim, «i fedeli» alla Parola di
Dio e alle tradizioni dei padri. 3. Nella prospettiva
attuale della nostra preghiera questa simbologia bellica diventa un'immagine
dell'impegno di noi credenti che, dopo aver cantato a Dio la lode mattutina,
ci avviarne per le strade del mondo, in mezzo al male e all'ingiustizia.
Purtroppo le forze che si oppongono al Regno di Dio sono imponenti: il
Salmista parla di «popoli, genti, capi e nobili». Eppure egli è fiducioso
perché sa di aver accanto il Signore che è il vero Re della storia (v. 2). La
sua vittoria sul male è. quindi, certa e sarà il trionfo dell'amore. A questa
lotta partecipano tutti gli hasidim, tutti i fedeli e i giusti che con la
forza dello Spirito conducono a compimento l'opera mirabile che porta il nome
di Regno di Dio. 4. Sant'Agostino,
partendo dai riferimenti del Salmo al «coro» e ai «timpani e cetre»,
commenta: «Che cosa rappresenta un coro? Il coro è un complesso di cantori
che cantano insieme. Se cantiamo in coro dobbiamo cantare d'accordo. Quando
si canta in coro, anche una sola voce stonata ferisce l'uditore e mette
confusione nel coro stesso» (Enarr in Ps. 149: CCL 40.7,1-4). E riferendosi poi agli
strumenti utilizzati dal Salmista, si chiede: «Perché il Salmista prende in
mano il timpano e il salterio?» Risponde: «Perché non soltanto la voce lodi
il Signore, ma anche le opere. Quando si prendono il timpano e il salterio,
le mani si accordano alla voce. Così per te. Quando canti l'alleluia, devi
porgere il pane all'affamato, vestire il nudo, ospitare il pellegrino. Se fai
questo, non è solo la voce che canta, ma alla voce si armonizzano le mani, in
quanto con le parole concordano le opere» (ibid., 8,1-4). 5. C'è un secondo
vocabolo con cui sono definiti gli oranti di questo Salmo: essi sono gli
'anawim, cioè «i poveri, gli umili» (v. 4). Questa espressione è molto
frequente nel Salterio e indica non solo gli oppressi, i miseri, i
perseguitati per la giustizia, ma anche coloro che, essendo fedeli agli
impegni morali dell'Alleanza con Dio, vengono emarginati da quanti scelgono
la violenza, la ricchezza e la prepotenza. In questa luce si comprende che
quella dei «poveri» non è soltanto una categoria sociale ma una scelta
spirituale. Questo è il senso della celebre prima Beatitudine: «Beati i
poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli» (Mt 5, 3). Già il
profeta Sofonia si rivolgeva cosi agli 'anawim: «Cercate il Signore voi
tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini; cercate la giustizia,
cercate l'umiltà, per trovarvi al riparo nel giorno dell'ira del Signore»
(Sof 2, 3), 6. Ebbene, il «giorno
dell'ira del Signore» è proprio quello descritto nella seconda parte del
Salmo quando i «poveri» si schierano dalla parte di Dio per lottare contro il
male. Essi, da soli, non hanno la forza sufficiente, ne i mezzi, ne le
strategie necessarie per opporsi all'irrompere del male. Eppure la frase del
Salmista non ammette esitazioni: «Il Signore ama il suo popolo, incorona gli
umili ('anawim) di vittoria» (v.4). Si configura idealmente quanto l'apostolo
Paolo dichiara ai Corinzi: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e
disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1 cor 1,
28). Con questa fiducia «i figli di Sion» (v. 2), hasidim e 'anawim. cioè i
fedeli e i poveri, si avviano a vivere la loro testimonianza nel mondo e
nella storia. Il canto di Maria nel Vangelo di Luca - il Magnificat - è l'eco
del migliori sentimenti dei «figli di Sion»: lode gioiosa a Dio Salvatore,
azione di grazie per le grandi cose operate in lei dal Potente, lotta contro
le forze malvagio, solidarietà con i poveri, fedeltà al Dio dell'Alleanza
(cfr. Le 1, 46-55). Udienza generale, 23
maggio 2001 Giovanni Paolo II |
La fiducia in Dio nel Salmo 5 1. «Al mattino, ascolta
la mia voce; fin dal mattino t'invoco e sto in attesa». Con queste parole il Salmo
5 si presenta come una preghiera del mattino e per tanto si colloca bene
nella liturgia delle Lodi, il canto del fedele all'inizio della giornata. La
tonalità di fondo di questa supplica bensì segnata dalla tensione e
dall'ansia per i pericoli e le amarezze che stanno per sopraggiungere. Ma non
viene meno la fiducia in Dio, sempre pronto a sostenere il suo fedele perché
non inciampi nel cammino della vita. «Nessuno, se non la
Chiesa, possiede una tale fiducia» (Girolamo, Tractatus LIX in psalmos, 5,27:
PL 26,829). E sant'Agostino, richiamando l’ attenzione sul titolo che viene
premesso al Salmo, titolo che nella sua versione latina recita: «Per colei
che riceve l'eredità», spiega: «Si tratta dunque della
Chiesa che riceve in eredità la vita eterna per mezzo di nostro Signore Gesù
Cristo, in modo che essa possiede Dio stesso, aderisce a lui, e trova in lui
la sua felicità, secondo quanto sta scritto: "Beati i miti perché
possederanno la terra"" (Mt 5, 4). (Enarr. in Ps., 5: CCL38.1, 2-3). 2. Come spesso accade
nei Salmi di supplica rivolti al Signore per essere liberati dal male, tre
sono i personaggi che entrano in scena in questo Salmo. Ecco Innanzitutto
apparire Dio (vv. 2-7), il Tu per eccellenza del Salmo, a cui l'orante si
rivolge con fiducia. Di fronte agli incubi di una giornata faticosa e forse
pericolosa emerge una certezza. Il Signore è un Dio coerente, rigoroso nei
confronti dell'ingiustizia, alieno da ogni compromesso col male: «Tu non sei
un Dio che si compiace del male» (v. 5). Una lunga lista di
persone cattive - il malvagio, lo stolto, chi fa il male. Il bugiardo, il
sanguinario, l'ingannatore - sfila davanti allo sguardo del Signore. Egli è
il Dio santo e giusto e si schiera dalla parte di chi percorre le vie della
verità e dell'amore, opponendosi a chi sceglie «i sentieri che conducono
verso il regno delle ombre» (cfr. Pr 2, 18). Il fedele, allora, non si sente
solo e abbandonato quando affronterà la città, penetrando nella società e nel
groviglio delle vicende quotidiane. 3. Nei versetti 8-9
della nostra preghiera mattutina il secondo personaggio, l'orante, presenta
se stesso con un Io, rivelando che tutta la sua persona è dedicata a Dio e
alla sua «grande misericordia». Egli è certo che le porte del tempio, cioè il
luogo della comunione e dell'intimità divina, sbarrate per gli empi, sono
spalancate davanti a lui. Egli vi entra per
gustare la sicurezza della protezione divina, mentre fuori il male imperversa
e celebra i suoi apparenti ed effimeri trionfi. Dalla preghiera mattutina
nel tempio il fedele riceve la carica interiore per affrontare un mondo
spesso ostile. Il Signore stesso lo prenderà per mano e lo guiderà per le
strade della città, anzi gli «spianerà il cammino», come dice il Salmista con
un'immagine semplice ma suggestiva. Nell'originale ebraico questa serena
fiducia si fonda su due termini (hésed e sedaqàh): «misericordia o fedeltà»
da una parte, e «giustizia o salvezza» dall'altra. Sono le parole tipiche
per celebrare l'alleanza che unisce il Signore al suo popolo e ai singoli
fedeli. 4. Ecco, infine,
profilarsi all'orizzonte l'oscura figura del terzo attore di questo dramma
quotidiano: sono i nemici, i malvagi, che già erano sullo sfondo nei versetti
precedenti. Dopo il Tu di Dio e l’ Io dell'orante, c'è ora un Essi che indica
una massa ostile, simbolo del male del mondo (vv. 10-11). La loro fisionomia
è tratteggiata sulla base di un elemento fondamentale nella comunicazione
sociale, la parola. Quattro elementi -
bocca, cuore, gola, lingua - esprimono la radicalità della malizia insita
nelle loro scelte. La loro bocca è colma di falsità, il loro cuore macchina
costantemente perfidie, la loro gola è come un sepolcro aperto, pronta a
volere solo la morte, la loro lingua è seducente, ma «è piena di veleno
mortale» (Gc 3, 8). 5. Dopo questo aspro e
realistico ritratto del perverso che attenta al giusto. Il Salmista invoca la
condanna divina in un versetto (v. 11), che la liturgia cristiana omette,
volendo in tal modo conformarsi alla rivelazione neotestamentaria dell'amore
misericordioso, che offre anche al malvagio la possibilità della conversione. La preghiera del
Salmista conosce a questo punto una finale piena di luce e di pace (vv.
12-13), dopo l'oscuro profilo del peccatore appena disegnato. Un'onda di
serenità e di gioia avvolge chi è fedele al Signore. La giornata che ora si
apre davanti al credente, anche se segnata da fatiche e ansie, avrà sempre su
di sé il sole della benedizione divina. Il Salmista, che conosce
in profondità il cuore e lo stile di Dio, non ha alcun dubbio: «Signore, tu
benedici il giusto: come scudo lo copre la tua benevolenza" (v. 13). Udienza generale, 30
maggio 2001 Giovanni Paolo II |
Potenza di Dio nel creato – Salmo 28 1. Alcuni studiosi
considerano il Salmo 28 che abbiamo appena sentito recitare come uno del
testi più antichi del Salterio. Potente è l'Immagine che lo sostiene nel suo
svolgersi poetico e orante : siamo, infatti, di fronte al dispiegarsi
progressivo di una tempesta. Essa è scandita
nell'originale ebraico da un vocabolo, qol, che significa
contemporaneamente «voce» e «tuono». Perciò alcuni commentatori intitolano il
nostro testo «Il Salmo dei sette tuoni», dal numero di volte in cui risuona
in esso quel vocabolo. In effetti si può dire
che il Salmista concepisce il tuono come un simbolo della voce divina che,
col suo mistero trascendente e irraggiungibile, irrompe nella realtà creata
fino a sconvolgerla ed impaurirla, ma che nel suo intimo significato è parola
di pace e di armonia. Il pensiero va qui al
capitolo 12 del IV Vangelo, ove la voce che risponde a Gesù dal cielo viene
percepita dalla folla come un tuono (cfr. Gv 12, 28-29). Proponendo il Salmo 28
per la preghiera delle Lodi, la Liturgia delle Ore ci invita ad assumere un
atteggiamento di profonda e fiduciosa adorazione della Maestà divina. 2. Due sono i momenti e
i luoghi nei quali il cantore biblico ci conduce. Al centro (vv. 3-9) c'è
la rappresentazione della tempesta che si scatena a partire dalla «Immensità
delle acque» de! Mediterraneo. Le acque marine, agli
occhi dell'uomo della Bibbia, incarnano il caos che attenta alla bellezza e
allo splendore della creazione, fino a corroderla, distruggerla e abbatterla.
Si ha, quindi, nell'osservazione della tempesta che infuria, la scoperta
dell'immensa potenza di Dio. L'orante vede l'uragano spostarsi verso il nord
e piombare sulla terraferma. I cedri altissimi del monte Libano e del monte
Sirion, chiamato altre volte Hermon, sono schiantati dalle folgori e sembrano
balzare sotto i tuoni come animali impauriti. Gli scoppi si fanno vicini,
attraversano tutta la Terra Santa e scendono fino a sud, nelle steppe
desertiche di Kadesh. 3. Dopo questo quadro di
forte movimento e tensione siamo invitati a contemplare, per contrasto,
un'altra scena che è raffigurata in apertura e alla fine del Salmo (vv.1-2 e
9b-11). Allo sgomento e alla paura si contrappone ora la glorificazione
adorante di Dio nel tempio di Sion. C'è quasi un canale di
comunicazione che unisce il santuario di Gerusalemme e il santuario celeste:
in entrambi questi ambiti sacri c'è pace e s'innalza la lode alla gloria
divina. Al rumore assordante dei tuoni subentra l'armonia del canto
liturgico, al terrore si sostituisce la certezza della protezione divina. Dio
ora appare «assiso sulla tempesta" come «re per sempre» (v. 10), cioè
come il Signore e il Sovrano supremo di tutta la creazione. 4. Di fronte a questi
due quadri antitetici l'orante è invitato a compiere una duplice esperienza.
Innanzitutto egli deve scoprire che il mistero di Dio, espresso nel simbolo
della tempesta, non può essere catturato e dominato dall'uomo. Come canta il profeta
Isaia, il Signore, simile a folgore o a tempesta, irrompe nella storia
seminando panico nei confronti dei perversi e degli oppressori. Sotto l'intervento del
suo giudizio, gli avversar superbi sono sradicati come alberi colpiti da un
uragano o come cedri frantumati dalle saette divine (cfr. Is 14, 7-8). In questa luce è
evidenziato ciò che un pensatore moderno (Rudolph Otto) ha qualificato come
il tremendum di Dio, cioè la sua trascendenza ineffabile e la sua
presenza di giudice giusto nella storia dell'umanità. Questa vanamente si
illude di opporsi alla sua sovrana potenza. Anche Maria esalterà nel
Magnificat questo aspetto dell'agire di Dio: "Ha spiegato la potenza del
suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato
i potenti dai troni" (Lc 1,51-52a). 5. Il Salmo ci presenta,
però, un altro aspetto del volto di Dio, quello che si scopre nell'intimità
della preghiera e nella celebrazione della liturgia. E, secondo il pensatore
menzionato, il fascinosum di Dio, cioè il fascino che emana dalla sua
grazia, il mistero dell'amore che si effonde sul fedele, la sicurezza serena della
benedizione riservata al giusto. Perfino davanti al caos del male, alle
tempeste della storia, e alla stessa collera della giustizia divina, l'orante
si sente in pace, avvolto dal manto di protezione che la Provvidenza offre a
chi loda Dio e segue le sue vie. Attraverso la preghiera si conosce che il
vero desiderio del Signore consiste nel donare pace. Nel tempio è risanata la
nostra inquietudine e cancellato il nostro terrore; noi partecipiamo alla
liturgia celeste con tutti «i figli di Dio», angeli e santi. E sulla
tempesta, simile al diluvio distruttore della malvagità umana, s'inarca
allora l'arcobaleno della benedizione divina, che ricorda «l'alleanza eterna
tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra» (Gn 9, 16). E
questo soprattutto il messaggio che emerge nella rilettura
"cristiana" del Salmo. Se i sette «tuoni» del nostro Salmo
rappresentano la voce di Dio nel cosmo, l'espressione più alta di questa voce
è quella con cui il Padre, nella teofania del Battesimo di Gesù, ha rivelato
l'identità più profonda di lui quale «Figlio prediletto» (Mc 1, 11 e par.).
Scrive san Basilio: «Forse, e più misticamente, "la voce del Signore
sulle acque" echeggiò quando venne una voce dall'alto al battesimo di
Gesù e disse: Questi è il Figlio mio diletto. Allora infatti il Signore
aleggiava su molte acque, santificandole con il battesimo. Il Dio della
gloria tuonò dall'alto con l'alta voce della sua testimonianza... E puoi
anche intendere per 'tuono' quel mutamento che, dopo il battesimo, si compie
attraverso la grande "voce" del Vangelo» (Omelie sui Salmi:
PG 30,359). Udienza generale, 13 giugno 2001Giovanni Paolo II |
Inno alla provvidenza di Dio -
( Salmo 32 ) 1. Distribuito in 22 versetti,
tanti quante sono le lettere dell'alfabeto ebraico, il Salmo 32 è un canto di
lode al Signore dell'universo e della storia. Un fremito di gioia lo pervade
fin dal primi accenti: «Esultate, giusti, nel Signore: ai retti si addice la
lode. Lodate il Signore con la cetra, con l'arpa a dieci corde a lui cantate.
Cantate al Signore un canto nuovo, suonate la cetra con arte e acclamate»
(vv, 1-3). Questa acclamazione (tern'ah) è, quindi, accompagnata dalla musica
ed è espressione di una voce interiore di fede e di speranza, di felicità e
di fiducia. Il cantico è «nuovo», non solo perché rinnova la certezza nella
presenza divina all'interno del creato e delle vicende umane, ma anche perché
anticipa lode perfetta che si intonerà nel giorno della salvezza definitiva,
quando il Regno di Dio sarà giunto alla sua attuazione gloriosa. Proprio al
finale compimento in Cristo guarda san Basilio, il quale spiega così questo
passo. «Abitualmente si dice "nuovo" o ciò che è inusitato o ciò
che è nato da poco. Se tu pensi al modo stupefacente e superiore a ogni
immaginazione dell'incarnazione del Signore, canti necessariamente un canto
nuovo e insolito. E se percorri con la mente la rigenerazione e il
rinnovamento di tutta l'umanità, resa vecchia dal peccato, e annunzi i
misteri della risurrezione, anche allora canti un cantico nuovo e insolito»
(Omelia sul Salmo 32,2: PG 29, 327B). Insomma, secondo san Basilio l'invito
del salmista, che dice: «Cantate a Dio un canto nuovo», per i credenti in
Cristo significa: «Onorate Dio non secondo il costume antico della
"lettera", ma nella novità dello "spirito". Chi non
intende infatti la Legge esteriormente, ma ne riconosce lo
"spirito", costui canta un "cantico nuovo"» (ibid.) 2. L'inno, nel suo corpo
centrale, è articolato in tre parti che si compongono come una trilogia di
lode. Nella prima (vv. 6-9) si celebra la parola creatrice di Dio.
L'architettura mirabile dell'universo, simile ad un tempio cosmico, è
sbocciata e cresciuta non attraverso una lotta tra dèi, come suggerivano
certe cosmogonie dell'antico Vicino Oriente, ma solo sulla base dell'efficace
parola divina. Proprio come insegna la prima pagina della Genesi (cap. I):
«Dio disse,.. E tutto fu». Il Salmista, infatti, ripete: «Egli parla e tutto
è fatto, comanda e tutto esiste» (v. 9). Particolare rilievo l'orante riserva
al controllo delle acque marine, perché esse nella Bibbia sono il segno del
caos e del male. Pur con i suoi limiti, il mondo è però conservato
nell'essere dal Creatore che, come si ricorda nel libro di Giobbe, comanda al
mare di arrestarsi sul litorale della spiaggia: «Fin qui giungerai e non
oltre e qui si infrangerà l'orgoglio delle tue onde» (Gb38, 11). 3. Il Signore è anche il
sovrano della storia umana, come è affermato nella seconda parte del Salmo
32, nei versetti 10-15, Con vigorosa antitesi si oppongono i progetti delle
potenze terrene e il disegno mirabile che Dio sta tracciando nella storia. I programmi umani,
quando vogliono essere alternativi, introducono ingiustizia, male, violenza,
ergendosi contro il progetto divino di giustizia e salvezza. E nonostante i
successi transitori e apparenti, si riducono a semplici macchinazioni, votate
alla dissoluzione e al fallimento. Nel libro biblico dei Proverbi si dichiara
sinteticamente: «Molte sono le idee della mente dell'uomo, ma solo il disegno
del Signore resta saldo» (Pr 19, 21). Similmente il Salmista
ci ricorda che Dio dal cielo, sua trascendente dimora, segue tutti gli
itinerari dell'umanità, anche quelli folli e assurdi, e intuisce tutti i segreta
del cuore umano. «Dovunque tu vada, qualunque cosa tu compia, sia nelle
tenebre, sia alla luce del giorno, hai l'occhio di Dio che ti guarda»,
commenta san Basilio (Omelia sul Salmo 32,8 PG 29, 343A). Felice sarà il popolo
che, accogliendo la rivelazione divina, ne seguirà le indicazioni di vita,
procedendo sul suoi sentieri nel cammino della storia. Ciò che alla fine
permane è una cosa sola: «Il piano del Signore sussiste per sempre, i
pensieri del suo cuore per tutte le generazioni» (v. 11). 4. La terza e ultima
parte del Salmo (vv. 16-22) riprende da due nuove angolature il tema della
signoria unica di Dio sulle vicende umane. Da parte del potenti,
innanzitutto, invitati a non illudersi sulla forza militare degli eserciti e
della cavalleria. Da parte dei fedeli, poi, spesso oppressi, affamati e sul
ciglio della morte: essi sono invitati a sperare nel Signore che non li
lascerà precipitare nell'abisso della distruzione. Si rivela, cosi, la
funzione anche “catechetica" di questo Salmo. Esso si trasforma in un
appello alla fede in un Dio che non è indifferente all'arroganza dei potenti
e che è vicino alla debolezza dell'umanità, sollevandola e sostenendola se ha
fiducia, se a lui s'affida, se a lui eleva la supplica e la lode. «L'umiltà
di coloro che servono Dio - spiega ancora san Basilio - mostra come essi
sperino nella sua misericordia. Chi infatti non confida nelle proprie grandi
imprese, ne si aspetta di essere giustificato dalle sue opere, ha come unica
speranza di salvezza la misericordia di Dio" (Omelia sul Salmo 32,10 PG
29, 347A). 5. Il Salmo si chiude
con un'antifona che è entrata nella finale del noto inno Te Deum: «Signore,
sia su di noi la tua grazia, perché in tè speriamo» (v. 22). Grazia divina e
speranza umana s'incontrano e si abbracciano. Anzi, la fedeltà amorosa di Dio
(secondo il valore del vocabolo ebraico originale qui usato, hésed), simile a
un manto, ci avvolge, riscalda e protegge, offrendoci serenità e dando un
sicuro fondamento alla nostra fede e alla nostra speranza. Udienza generale, 8
agosto 2001 Giovanni Paolo II |
Malizia del
peccatore, bontà del Signore - (Salmo
35) 1. Ogni volta che si
apre una giornata di lavoro e di rapporti umani, due sono gli atteggiamenti fondamentali
che ciascun uomo può assumere: scegliere il bene, oppure cedere al male. Il
Salmo 35, poc'anzi ascoltato, presenta proprio questi due profili antitetici.
Da una parte, c'è chi fin dal 'giaciglio', da cui sta per levarsi, trama
progetti iniqui; dall'altra, c'è invece chi cerca la luce di Dio, 'sorgente
della vita' (cfr v. 10). All'abisso della malizia dell'empio si oppone
l'abisso della bontà.di Dio, fonte viva che disseta e luce che illumina il
fedele. Due sono, perciò, i tipi
d'uomo descritti dalla preghiera salmica or ora proclamata, e che la Liturgia
delle Ore ci propone per le Lodi del mercoledì della prima Settimana. 2. Il primo ritratto che
il Salmista ci presenta è quello del peccatore (cfr vv. 2-5). Al suo interno
- come dice l'originale ebraico - c'è 'l'oracolo del peccato ' (v. 2).
L'espressione è forte. Fa pensare a una parola satanica, che in contrasto con
la parola divina, risuoni nel cuore e nel linguaggio dell'empio. In lui il male sembra
connaturato con la sua realtà intima, così da fuoriuscire in parole e atti
(cfr vv. 3-4). Egli scorre le sue giornate a scegliere 'vie non buone ', dal
mattino presto, quando sta ancora 'sul suo giaciglio ' (v. 5), fino a sera
quando sta per addormentarsi. Questa scelta costante del peccatore deriva da
un'opzione che coinvolge tutta la sua esistenza e genera morte. 3. Ma il Salmista è
tutto proteso verso l'altro ritratto nel quale egli desidera specchiarsi:
quello dell'uomo che cerca il volto di Dio (cfr vv. 6-13). Egli innalza un
vero e proprio canto all'amore divino (cfr vv. 6-11), a cui fa seguire. In
finale, una supplice invocazione per essere liberato dal fascino oscuro del
male e avvolto per sempre dalla luce della grazia. Si snoda in questo canto
una vera e propria litania di termini, che celebrano i lineamenti del Dio
d'amore: grazia, fedeltà, giustizia, giudizio, salvezza, ombra protettrice,
abbondanza, delizia, vita, luce. In particolare, sono da sottolineare quattro
di questi tratti divini, espressi con vocaboli ebraici che hanno un valore
più intenso di quanto non risulti dalle traduzioni nelle lingue moderne. 4. C'è innanzitutto il
termine hésed, 'grazia', che è insieme fedeltà, amore, lealtà, tenerezza. E
uno dei termini fondamentali per esaltare l'alleanza tra il Signore e il suo
popolo. Ed è significativo che esso echeggi ben 127 volte nel Salterio, più
della metà di tutte le volte in cui questa parola ritorna nel resto
dell'Antico Testamento. C'è, poi, la 'emunáh che
deriva dalla stessa radice dell'amen, la parola della fede, e significa
stabilità, sicurezza, fedeltà inconcussa. Segue la sedaqáh, la 'giustizia',
che ha un significato soprattutto salvifico: è l'atteggiamento santo e
provvido di Dio che, attraverso il suo intervento nella storia, libera dal
male e dall'ingiustizia il suo fedele. Infine, ecco la mishpát, il
'giudizio', con cui Dio governa le sue creature, curvandosi sul poveri e
sugli oppressi e piegando gli arroganti e i prepotenti. Quattro parole
teologiche, che l'orante ripete nella sua professione di fede, mentre si avvia
per le strade del mondo, certo di avere accanto il Dio amoroso, fedele,
giusto e salvatore. 5. Ai vari titoli con cui esalta Dio, il Salmista aggiunge due immagini suggestive. Da un lato, l'abbondanza di cibo: essa fa pensare innanzitutto al banchetto sacro, che si celebrava nel tempio di Sion con le carni delle vittime sacrificali. Ci sono anche la fonte e il torrente, le cui acque dissetano non solo la gola riarsa, ma anche l'anima (cfr vv. 9-10; Sal 41,2-3; 62,2-6). Il Signore sazia e disseta l'orante, lo rende partecipe della sua vita piena e immortale. L'altra immagine è data
dal simbolo della luce: "Alla tua luce vediamo la luce" (v.10). È
una luminosità che si irradia quasi
"a cascata" ed è un segno dello svelamento di Dio al suo fedele.
Cosi era avvenuto a Mosé sul Sinai (cfr Es 34,29-30) e così accade al
cristiano nella misura in cui, "a
viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore,
viene trasformato in quella medesima immagine" (2 Cor 3,18). Nel linguaggio dei Salmi,
"vedere la luce del volto di Dio" significa concretamente
incontrare il Signore nel tempio, dove si celebra la preghiera liturgica e si
ascolta la parola divina. Anche il cristiano compie questa esperienza quando
celebra le lodi del Signore all'aprirsi della giornata, prima d'incamminarsi
per le strade non sempre lineari della vita quotidiana. Udienza generale, 22
agosto 2001 Giovanni Paolo II |
Il Signore,
re dell'universo – (Salmo 46) 1. "Il Signore,
l'Altissimo, è re grande su tutta la terra!". Questa acclamazione
iniziale è ripetuta in tonalità diverse all'interno del Salmo 46, che abbiamo
ora ascoltato. Esso si configura come un inno al Signore sovrano
dell'universo e della storia: "Dio è re di tutta
la terra .. Dio regna sul popoli" (vv. 8-9). Questo inno al Signore,
re del mondo e dell'umanità, come altre composizioni simili presenti nel
Salterio (cfr Sal 92; 95-98), suppone un'atmosfera celebrativa liturgica, Siamo,
perciò, nel cuore spirituale della lode d'Israele, che sale al cielo partendo
dal tempio, il luogo nel quale il Dio infinito ed eterno si svela e incontra
il suo popolo. 2. Seguiremo questo
canto di lode gioiosa nei suoi momenti fondamentali, simili a due onde che
avanzano verso la spiaggia del mare. Differiscono nel modo di considerare la
relazione tra Israele e le nazioni. Nella prima parte del Salmo, la relazione
è di dominazione: Dio "ci ha assoggettati i popoli, ha messo le nazioni
sotto i nostri piedi" (v. 4); nella seconda parte, invece, la relazione
è di associazione: "I capi dei popoli si sono raccolti con il popolo dei
Dio di Abramo" (v, 10), Si nota quindi un bel progresso. Nella prima
parte (cfr vv. 2-6) si dice: "Applaudite, popoli tutti, acclamate Dio
con voci di gioia!" (v. 2). Il centro di questo applauso festoso è la
figura grandiosa del Signore supremo, al quale si attribuiscono tre titoli
gloriosi: "altissimo, grande e terribile" (v. 3). Essi esaltano la
trascendenza divina, il primato assoluto nell'essere, l'onnipotenza. Anche il
Cristo risorto esclamerà: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in
terra" [Mt 28,18). 3. All'interno della
signoria universale di Dio su tutti i popoli della terra (cfr v. 4) l'orante
evidenzia la sua presenza particolare in Israele, il popolo dell'elezione
divina, "Il prediletto", l'eredità più preziosa e cara al Signore
(cfr v. 5). Israele si sente, quindi, oggetto di un amore particolare di Dio,
che si è manifestato con la vittoria riportata sulle nazioni ostili. Durante
la battaglia, la presenza dell'arca dell'alleanza presso le truppe di Israele
assicurava loro l'aiuto di Dio, dopo la vittoria, l'arca risaliva sul monte
Sion (cfr Sal 67,19) e tutti proclamavano: "Ascende Dio tra le
acclamazioni, il Signore al suono di tromba" (Sal 46,6). 4. Il secondo momento
del Salmo (cfr vv. 7-10) è aperto da un'altra onda di lode e di canto
festoso: "Cantate inni a Dio, cantate inni; cantate inni al nostro re,
cantate inni... cantate inni con arte!" (vv. 7-8). Anche ora si inneggia
al Signore assiso in trono nella pienezza della sua regalità (cfr v. 9).
Questo seggio regale è definito "santo", perché è inavvicinabile da
parte dell'uomo limitato e peccatore. Ma trono celeste è anche l'arca
dell'alleanza presente nell'area più sacra del tempio di Sion. In tal modo il
Dio lontano e trascendente, santo e infinito, si rende vicino alle sue
creature, adattandosi allo spazio e al tempo (cfr 1Re 8,27.30). 5. Il Salmo finisce con
una nota sorprendente per la sua apertura universalistica: "I capi dei
popoli si sono raccolti con il popolo del Dio di Abramo" (v. 10). Si
risale ad Abramo, il patriarca che è alla radice non solo di Israele ma anche
di altre nazioni. Al popolo eletto che da lui discende, è affidata la missione
di far convergere verso il Signore tutte le genti e tutte le culture, perché
Egli è Dio di tutta l'umanità. Da oriente ad occidente si raduneranno allora
a Sion per incontrare questo re di pace e di amore, di unità e dì fratellanza
(cfr Mt 8,11). Come sperava il profeta Isaia, i popoli tra loro ostili
riceveranno l'invito a gettare a terra le armi e a vivere insieme sotto
l'unica sovranità divina, sotto un governo retto dalla giustizia e dalla pace
(Is 2,2-5). Gli occhi di tutti saranno fissi sulla nuova Gerusalemme ove il
Signore "ascende" per svelarsi nella gloria della sua divinità.
Sarà "una moltitudine immensa, che nessuno può contare, di ogni nazione,
razza, popolo e lingua. Tutti... gridavano a gran voce: La salvezza
appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello" (Ap 7,9,10). 6. La Lettera agli Efesini vede la realizzazione di questa profezia nel mistero di Cristo redentore quando afferma, rivolta ai cristiani non provenienti dal giudaismo: "Ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita,... eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece. In Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia" (Ef 2,11-14). In Cristo dunque, la
regalità di Dio, cantata dal nostro Salmo, si è realizzata sulla terra nel
confronti di tutti i popoli. Così commenta questo mistero un'omelia anonima
dell'VIII secolo: "Fino alla venuta del Messia, speranza delle nazioni,
i popoli gentili non hanno adorato Dio e non hanno conosciuto chi Egli è. E
finché il Messia non li ha riscattati, Dio non ha regnato sulle nazioni per
mezzo della loro obbedienza e del loro culto. Adesso Invece Dio, con la sua
Parola e il suo Spirito, regna su di loro, perché le ha salvate dall'inganno
e se li è fatti amici" (Palestinese anonimo, Omelia arabo-cristiana
dell'VIII secolo, Roma 1994, p. 100). Udienza generale, 5
settembre 2001 Giovanni Paolo II |
"Preghiera del mattino nella sofferenza" Salmo
56,2.7-11 1. È una notte
tenebrosa, nella quale s'avvertono intorno belve voraci. L'orante è in attesa
che sorga l'alba, perché la luce vinca l'oscurità e le paure. È questo lo
sfondo del Salmo 56, proposto oggi alla nostra riflessione: un canto notturno
che prepara l'orante alla luce dell'aurora, attesa con ansia, per poter
lodare il Signore nella gioia (vv. 9-12). Il Salmo in effetti passa dal
lamento drammatico rivolto a Dio alla speranza serena e al ringraziamento
gioioso, quest'ultimo espresso con le parole che risuoneranno ancora in seguito,
in un altro Salmo (cfr Sal 107,2-6). In pratica, si assiste
al passaggio dalla paura alla gioia, dalla notte al giorno, dall'incubo alla
serenità, dalla supplica alla lode. È un'esperienza frequentemente descritta
nel Salterio: "Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco
in abito di gioia, perché io possa cantare senza posa. Signore, mio Dio, ti
loderò per sempre!" (Sal 29,12-13). 2. Due sono, dunque, i
momenti del Salmo 56 che stiamo meditando. Il primo riguarda l'esperienza del
timore per l'assalto del male che tenta di colpire il giusto (vv. 2-7). Al
centro della scena ci sono dei leoni in posizione d'attacco. Ben presto
questa immagine viene trasformata in un simbolo bellico, delineato con lance,
frecce, spade. L'orante si sente assalito da una sorta di squadrone della
morte. Intorno a lui c'è una banda di cacciatori, che tende trappole e scava
fosse per catturare la preda. Ma questa atmosfera di tensione è subito
dissolta. Infatti, già in apertura (v.2) appare il simbolo protettivo delle
ali divine, che concretamente richiamano l'arca dell'alleanza coi cherubini
alati, cioè la presenza di Dio accanto ai fedeli nel tempio santo dì Sion. 3. L'orante chiede
istantemente che Dio mandi dal cielo i suoi messaggeri, ai quali egli
attribuisce i nomi emblematici dì "Fedeltà" e "Grazia"
(v. 4), qualità proprie dell'amore salvifico di Dio. Perciò, anche se
rabbrividisce per il ruggito terribile delle fiere e per la perfidia dei
persecutori, il fedele nell'intimo rimane sereno e fiducioso, come Daniele
nella fossa dei leoni (cfr Dn 6,17-25). La presenza del Signore
non tarda a mostrare la sua efficacia, mediante l'autopunizione degli
avversari: questi piombano nella fossa che avevano scavato per il giusto (v.
7). Tale fiducia nella giustizia divina, sempre viva nel Salterio, impedisce
lo scoraggiamento e la resa alla prepotenza del male. Dalla parte del fedele
prima o poi si schiera Dio, che sconvolge le manovre degli empi facendoli
inciampare nei loro stessi progetti malvagi. 4. Giungiamo, così, al
secondo momento del Salmo, quello del ringraziamento (vv. 8-12). C'è un passo
che brilla per intensità e bellezza: "Saldo è il mio cuore, o Dio, saldo
è il mio cuore. Voglio cantare, a te voglio inneggiare: svegliati, mio cuore,
svegliatevi, arpa e cetra, voglio svegliare l'aurora" (vv. 8-9). Ormai
le tenebre si sono dileguate: l'alba della salvezza è resa vicina dal canto
dell'orante. Applicando a sé questa
immagine, il Salmista forse traduce nei termini della religiosità biblica,
rigorosamente monoteistica, l'uso dei sacerdoti egiziani o fenici che erano
incaricati di "svegliare l'aurora", cioè di far riapparire il sole,
considerato una divinità benefica. Egli allude anche all'uso di appendere e
velare gli strumenti musicali nel tempo del lutto e della prova (cfr Sal
136,2), e di "risvegliarli" al suono festivo nel tempo della
liberazione e della gioia. La liturgia, quindi, fa sbocciare la speranza: si
rivolge a Dio invitandolo ad avvicinarsi di nuovo al suo popolo e ad
ascoltare la sua supplica. Spesso nel Salterio l'alba è il momento
dell'esaudimento divino, dopo una notte di preghiera. 5. Il Salmo si chiude,
così, con un canto di lode rivolto al Signore, che opera con le sue due
grandi qualità salvifiche, già apparse con termini differenti nella prima
parte della supplica (v.4). Ora sono di scena, quasi personificate, la Bontà
e la Fedeltà divina. Esse inondano i cieli con la loro presenza e sono come
la luce che brilla nell'oscurità delle prove e delle persecuzioni (v. 11).
Per questo motivo il Salmo 56 si è trasformato nella tradizione cristiana in
canto del risveglio alla luce e alla gioia pasquale, che si irradia nel
fedele cancellando la paura della morte e aprendo l'orizzonte della gloria
celeste. 6. Gregorio di Nissa
scopre nelle parole di questo Salmo una sorta di descrizione tipica di ciò
che avviene in ogni esperienza umana aperta al riconoscimento della sapienza
di Dio. "Mi salvò infatti - egli esclama - avendomi fatto ombra con la
nube dello Spirito, e coloro che mi avevano calpestato sono stati
umiliati" (Sui titoli dei Salmi, Roma 1994, p. 183). Rifacendosi poi alle
espressioni che concludono il Salmo, dove è detto: "Innalzati sopra il
cielo, o Dio, su tutta la terra la tua gloria", egli conclude:
"Nella misura in cui la gloria dì Dio si estende sulla terra,
accresciuta dalla fede di coloro che vengono salvati, le potenze celesti,
esultando per la nostra salvezza, inneggiano a Dio" (ivi, p. 184). Udienza generale, 19
settembre 2001 Giovanni Paolo II |
"Azione di grazie per la salvezza del popolo" Salmo
47 1. Il Salmo che è stato
proclamato è un canto in onore di Sion, "la città del grande
Sovrano" (Sal 47,3), sede allora del tempio del Signore e luogo della
sua presenza in mezzo all'umanità. La fede cristiana lo applica ormai alla
"Gerusalemme di lassù", che è "la nostra madre" (Gal
4,26). La tonalità liturgica di
questo inno, l'evocazione di una processione festosa (cfr vv.13-14), la
visione pacifica di Gerusalemme che riverbera la salvezza divina, rendono il
Salmo 47 una preghiera che può aprire la giornata per renderla un canto di
lode, anche se qualche nube si addensa all'orizzonte. Per cogliere il senso
del Salmo, ci sono d'aiuto tre acclamazioni collocate all'inizio, al centro e
in finale, quasi a offrirci la chiave spirituale della composizione e ad
introdurci nel suo clima interiore. Ecco le tre invocazioni: "Grande è
il Signore e degno di ogni lode nella città del nostro Dio" (v. 2);
"Ricordiamo, Dio, la tua misericordia dentro il tuo tempio" (v.
10); "Questo è il Signore, nostro Dio in eterno, sempre: egli è colui
che ci guida" (v. 15). 2. Queste tre
acclamazioni, che esaltano il Signore ma anche "la città del nostro
Dio" (v. 2), inquadrano due grandi parti del Salmo. La prima è una
gioiosa celebrazione della città santa, la Sion vittoriosa contro gli assalti
dei nemici, serena sotto il manto della protezione divina (cfr vv. 3-8). Si
ha quasi una litania di definizioni di questa città: è un'altura mirabile che
si erge come un faro di luce, una fonte di gioia per tutti i popoli della
terra, l'unico vero "Olimpo" ove cielo e terra s'incontrano. È per
usare un'espressione del profeta Ezechiele - la cìttà-Emmanuele perché
"Dio è là", presente in
essa (cfr Ez 48,35). Ma attorno a Gerusalemme si stanno accalcando le truppe
di un assedio, quasi un simbolo del male che attenta allo splendore della
città di Dio. Lo scontro ha un esito scontato e quasi immediato. 3. I potenti della
terra, infatti, assaltando la città santa, hanno provocato anche il suo Re,
il Signore. Il Salmista mostra il dissolversi dell'orgoglio di un esercito
potente con l'immagine suggestiva dei dolori del parto: "Là sgomento li
ha colti, doglie come di partoriente" (v. 7). L'arroganza si trasforma
in fragilità e debolezza, la potenza in caduta e sconfitta. Lo stesso concetto è
espresso con un'altra immagine: l'esercito in rotta viene paragonato a
un'armata navale invincibile, su cui si abbatte un tifone causato da un
terribile vento d'oriente (cfr v. 8). Rimane, quindi, una certezza inconcussa
per chi sta all'ombra della protezione divina: l'ultima parola non è affidata
al male ma al bene; Dio trionfa sulle potenze ostili, anche quando sembrano
grandiose e invincibili. 4. Il fedele, allora,
proprio nel tempio celebra il suo ringraziamento al Dio liberatore. Il suo è
un inno all'amore misericordioso del Signore, espresso con il termine ebraico
hésed, tipico della teologia dell'alleanza. Siamo, cosi, nella seconda parte
del Salmo (cfr vv. 10-14). Dopo il grande canto di lode a Dio fedele, giusto
e salvatore (cfr vv. 10-12), si compie una specie di processione attorno al
tempio ed alla città santa (cfr vv. 13-14). Si contano le torri, segno della
sicura protezione di Dio, si osservano le fortificazioni, espressione della
stabilità offerta a Sion dal suo Fondatore. Le mura di Gerusalemme parlano e
le sue pietre ricordano i fatti che devono essere trasmessi "alla
generazione futura" (v. 14) attraverso il racconto che ne faranno i
padri ai loro figli (cfr Sal 77,3-7). Sion è lo spazio di una catena
ininterrotta di azioni salvatrici del Signore, che vengono annunciate nella
catechesi e celebrate nella liturgia, perché continui nei credenti la
speranza nell'intervento liberatore di Dio. 5. Bellissima
nell'antifona conclusiva una delle più alte definizioni del Signore come
pastore del suo popolo: "Colui che ci guida" (v. 15). Il Dio di
Sion è il Dio dell'Esodo, della libertà, della vicinanza al popolo schiavo in
Egitto e pellegrino nel deserto. Ora che Israele è stanziato nella terra
promessa, sa che il Signore non lo abbandona: Gerusalemme è il segno della
sua vicinanza, e il tempio è il luogo della sua presenza. Rileggendo queste
espressioni, il cristiano si eleva alla contemplazione di Cristo, il nuovo e
vivente tempio di Dio (cfr Gv 2,21), e si volge alla Gerusalemme celeste, che
non ha più bisogno di un tempio e di una luce esteriore, perché "il
Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio... la gloria di
Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello" (Ap 21,22-23). A questa rilettura
"spirituale" ci invita sant'Agostino, convinto che nei libri della
Bibbia "non vi è nulla che riguardi soltanto la città terrena, se tutto
ciò che di essa si riferisce, o per essa si adempie, simboleggia qualche cosa
che per allegoria possa essere riferito anche alla Gerusalemme celeste"
(Città dì Dio, XVII, 3, 2). Gli fa eco san Paolino di Nola, che proprio
commentando le parole del nostro Salmo esorta a pregare affinché
"possiamo essere ritrovati quali pietre vive nelle mura della Gerusalemme
celeste e libera" (Lettera 28,2 a Severo). E contemplando la saldezza e
compattezza di questa città, lo stesso Padre della Chiesa continua:
"Infatti colui che abita questa città si rivela come l'Uno in tre
persone... Di essa Cristo è stato costituito non solo fondamento, ma anche
torre e porta... Se dunque su di Lui si fonda la casa della nostra anima e su
di Lui si innalza una costruzione degna di così grande fondamento, allora la
porta d'ingresso nella sua città sarà per noi proprio Colui che ci guiderà nei
secoli e ci collocherà nel luogo del suo pascolo". Udienza generale, 17
ottobre 2001 Giovanni Paolo II |
CANTICI
Solo a Dio l'onore e la gloria - Cantico 1 Cr 29 1. «Sii benedetto.
Signore, Dio di Israele, nostro Padre» (1Cr 29, 10). Questo Intenso cantico
di lode, che il primo libro delle Cronache pone sulle labbra di Davide, ci fa
rivivere l'esplosione di gioia con cui la comunità dell'antica alleanza
salutò i grandi preparativi fatti in vista della costruzione del tempio,
frutto di un impegno comune del re e di tanti che si erano prodigati con lui.
Avevano quasi gareggiato in generosità, perché questo esigeva una dimora che
non era "destinata a un uomo, ma al Signore Dio» (1Cr 29,1). Rileggendo
dopo secoli quell'evento, il Cronista intuisce i sentimenti di Davide e
quelli di tutto il popolo, la loro gioia e la loro ammirazione per quanti
avevano dato il loro contributo: «Il popolo gioì per la loro generosità,
perché le offerte erano fatte al Signore con cuore sincero; anche il re
Davide gioì vivamente» (1Cr 29, 9). 2. Tale è il contesto in
cui nasce il cantico. Ma esso non si sofferma che brevemente sulla
soddisfazione umana, per porre subito al centro dell'attenzione la gloria di
Dio: «Tua, Signore, è la grandezza... tuo è il regno...». La grande
tentazione che sta sempre in agguato, quando si realizzano opere per il
Signore, è quella di mettere al centro se stessi, quasi sentendosi creditori
di Dio. Davide invece attribuisce tutto al Signore. Non è l'uomo, con la sua
intelligenza e la sua forza, l'artefice primo di quanto si è realizzato, ma
Dio stesso. Davide esprime così la profonda verità che tutto è grazia. In
certo senso, quanto è stato messo a disposizione per il tempio, non è che la
restituzione, oltretutto estremamente esigua, di quanto Israele ha ricevuto
nell'inestimabile dono dell'alleanza stipulata da Dio con i Padri. Nella
stessa linea Davide da merito al Signore di tutto ciò che ha costituito la
sua fortuna, sia in campo militare che politico ed economico. Tutto viene da
Lui! 3. Di qui lo slancio
contemplativo di questi versetti. Sembra che all'autore del Cantico non
bastino le parole, per confessare la grandezza e la potenza di Dio. Egli lo
guarda innanzitutto nella speciale paternità mostrata a Israele, «nostro
padre». E questo il primo titolo che esige la lode «ora e sempre». Nella
recita cristiana di queste parole non possiamo non ricordare che questa
paternità si è rivelata in modo pieno nell'incarnazione del Figlio di Dio. È
lui, e solo lui, che può parlare a Dio chiamandolo, in senso proprio e
affettuosamente, «Abbà» (Mc 14, 36). Al tempo stesso, attraverso il dono
dello Spirito, ci viene partecipata, la sua filiazione che ci rende «figli
nel Figlio». La benedizione dell'antico Israele per Dio Padre acquista per
noi l'intensità che Gesù ci ha manifestato insegnandoci a chiamare Dio «Padre
nostro». 4. Lo sguardo
dell'autore biblico si allarga poi dalla storia della salvezza al cosmo
Intero, per contemplare la grandezza di Dio creatore: «Tutto, nei cieli e
sulla terra, è tuo». E ancora: «Tu ti innalzi sovrano su ogni cosa». Come nel
Salmo 8, l'orante del nostro Cantico alza il capo verso la distesa sterminata
dei cieli, allarga poi lo sguardo stupito sull'immensità della terra, e tutto
vede sottoposto al dominio del Creatore. Come esprimere la gloria di Dio? Le
parole si accavallano, in una sorta di Incalzare mistico: grandezza, potenza,
gloria, maestà, splendore; e poi ancora forza e potenza. Tutto ciò che di
bello e di grande l'uomo sperimenta, deve essere riferito a Colui che è
all'origine di ogni cosa e tutto governa. L'uomo sa che quanto possiede è
dono di Dio, come sottolinea Davide proseguendo nei Cantico: «E chi sono io e
chi è il mio popolo, per essere in grado di offrirti tutto questo
spontaneamente? Ora tutto proviene da te; noi, dopo averlo ricevuto dalla tua
mano, te l'abbiamo ridato» (1Cr 29, 14). 5. Questo sfondo della
realtà come dono di Dio, ci aiuta a coniugare i sentimenti di lode e di
riconoscenza del Cantico con l'autentica spiritualità «offertoriale» che la
liturgia cristiana ci fa vivere soprattutto nella celebrazione eucaristica. È
quanto emerge dalia duplice preghiera con cui il sacerdote offre il pane e il
vino destinati a diventare il Corpo e Sangue di Cristo: «Dalla tua bontà
abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell'uomo, lo
presentiamo a te perché diventi per noi cibo di vita eterna». La preghiera è
ripetuta per il vino. Analoghi sentimenti sono suggeriti sia dalla Divina
Liturgia bizantina che dall'antico Canone Romano, quando nell'anamnesi eucaristica
esprimono la consapevolezza di offrire in dono a Dio le cose da Lui ricevute. 6. Un'ultima
applicazione dì questa visione di Dio è compiuta dal Cantico guardando
all'esperienza umana della ricchezza e del potere. Entrambe queste dimensioni
erano emerse mentre Davide predisponeva il necessario per costruire il
tempio. Poteva essere una tentazione per lui stesso quella che è una
tentazione universale: agire come se si fosse arbitri assoluti di ciò che si
possiede, farne motivo di orgoglio e di sopruso verso gli altri. La preghiera
scandita in questo Cantico riporta l'uomo alla sua dimensione di «povero» che
tutto riceve. I re di questa terra non sono allora che immagine della
regalità divina: «Tuo è il regno. Signore». I facoltosi non possono dimenticare
l'origine del propri beni: «Da te provengono ricchezza e gloria». I potenti
devono saper riconoscere in Dio, la sorgente «di ogni grandezza e potere». Il
cristiano è chiamato a leggere queste espressioni, contemplando con esultanza
Cristo risorto, glorificato da Dio «al di sopra di ogni principato e
autorità, di ogni potenza e dominazione» (Ef 1,21). Cristo è il vero Re
dell'universo. Udienza generale, 6 giugno 2001Giovanni Paolo II |
Dio castiga e salva - TOBI LODA E RINGRAZIA IL SIGNORE I. «Io esalto il mio Dio
e celebro il re del ciclo» (Tb 13, 9). Chi pronuncia queste parole, nel
Cantico or ora proclamato, è il vecchio Tobi, del quale l'Antico Testamento traccia
una breve storia edificante, nel libro che prende il nome dal figlio Tobia.
Per comprendere pienamente il senso di questo inno, occorre tenere presenti
le pagine narrative che io precedono. La storia è ambientata tra gli
israeliti esiliati a Ninive. Ad essi guarda l'autore sacro, che scrive molti
secoli dopo, per additarli ai fratelli e sorelle di fede dispersi tra un
popolo straniero e tentati di abbandonare le tradizioni del Padri. Il
ritratto di Tobi e della sua famiglia è offerto così come un programma di
vita. Egli è l'uomo che, nonostante tutto, rimane fedele alle norme della
legge, e in particolare alla pratica dell'elemosina. Su di lui si abbatte la
sventura con il sopraggiungere della povertà e della cecità, ma non viene
meno la sua fede. E la risposta di Dio non tarda a venire, attraverso
l'angelo Raffaele, che guida il giovane Tobia in un rischioso viaggio,
avviandolo a un matrimonio felice e infine guarendo il padre Tobi dalla
cecità. Il messaggio è chiaro: chi fa il bene, soprattutto aprendo il cuore
alle necessità del prossimo, è gradito al Signore, e anche se viene provato,
sperimenterà alla fine la sua benevolenza. 2. È su questo sfondo che prendono tutto il loro risalto le parole del nostro inno. Esse invitano a guardare in alto, a «Dio che vive in eterno? », al suo regno che «dura per tutti i secoli». Da questo sguardo portato su Dio si sviluppa un piccolo disegno di teologia della storia, in cui l'Autore sacro cerca di rispondere all'interrogativo che il Popolo di Dio disperso e provato si pone: perché Dio ci tratta così? La risposta fa appello insieme alla giustizia e alla misericordia divina: «Vi castiga per le vostre ingiustizie, ma userà misericordia a tutti voi » (v. 5). Il castigo appare così come una sorta di pedagogia divina, in cui tuttavia l'ultima parola viene sempre riservata alla misericordia: «Egli castiga e usa misericordia, fa scendere negli abissi della terra, fa risalire dalla grande Perdizione» [v. 2). Ci si può dunque fidare in maniera assoluta di Dio, che non abbandona mai la sua creatura. Ed anzi, le parole dell'inno conducono a una prospettiva, che attribuisce un significato salvifico alla stessa situazione di sofferenza, facendo dell'esilio un' occasione per testimoniare le opere di Dio: «Lodatelo, figli di Israele, davanti alle genti: egli vi ha disperso in mezzo ad esse per proclamare la sua grandezza » (vv.3-4). 3. Da quest'invito a
leggere l'esilio in chiave provvidenziale la nostra meditazione può
allargarsi alla considerazione del senso misteriosamente positivo che assume
la condizione di sofferenza quando è vissuta nell'abbandono al disegno di
Dio. Già nell'Antico Testamento diversi passi delineano questo tema. Basti
pensare alla storia narrata dal libro della Genesi su Giuseppe venduto dai
fratelli (cfr. Gn 37, 2-36) e destinato ad essere in futuro il loro
salvatore. E come dimenticare il libro di Giobbe? Qui è addirittura l'uomo
innocente che soffre, e non sa darsi spiegazione del suo dramma, se non
affidandosi alla grandezza e sapienza di Dio (cfr. Gb 42, 1-6). Per noi che leggiamo
cristianamente questi passi antico-testamentari, il punto di riferimento non
può che essere la croce di Cristo, nella quale trova una risposta profonda il
mistero del dolore del mondo. 4. Ai peccatori che sono
stati castigati per le loro ingiustizie (cfr. v. 5), l'inno di Tobi rivolge
un appello alla conversione e apre la prospettiva meravigliosa di una
«reciproca» conversione di Dio e dell'uomo: a Convertitevi a lui con tutto il
cuore e con tutta l'anima, per fare la giustizia davanti a Lui; allora Egli
si convertirà a voi e non vi nasconderà il suo volto» (v. 6), E molto
eloquente questo uso della stessa parola «conversione» - per la creatura e
per Dio, sia pure con diverso significato. Se l'Autore del Cantico
pensa forse ai benefici che accompagnano il «ritorno» di Dio, ossia il suo
rinnovato favore verso il popolo, noi dobbiamo soprattutto pensare, alla luce
del mistero di Cristo, al dono che consiste in Dio stesso. Di lui, prima ancora che
dei suoi doni, l'uomo ha bisogno. Il peccato è una tragedia non tanto perché
ci attira i castighi di Dio, quanto perché respinge Lui dal nostro cuore. 5. Ed è perciò al volto
di Dio considerato come Padre che il Cantico Indirizza il nostro sguardo,
invitandoci alla benedizione e alla lode: «È lui il Signore, il nostro Dio,
lui il nostro Padre» (v. 4). Si sente qui il senso
della speciale «figliolanza» che Israele sperimenta come dono di alleanza e
che prepara il mistero dell'Incarnazione del Figlio di Dio. Allora, in Gesù, risplenderà
questo volto de! Padre e verrà rivelata le sua misericordia senza limiti.
Basterebbe pensare alla parabola del Padre misericordioso narrata
dall'evangelista Luca. Alla conversione del figlio prodigo non corrisponde
solo il perdono del Padre, ma un abbraccio di infinita tenerezza,
accompagnato dalla gioia e dalla festa: «Quando era ancora lontano, il padre
lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc
15, 20). Le espressioni del
nostro Cantico sono nella linea di questa commovente immagine evangelica. E
ne scaturisce il bisogno di lodare e ringraziare Dio: «Ora contemplate ciò
che ha operato con voi e ringraziatelo con tutta la voce; benedite il Signore
della giustizia ed esaltate il re dei secoli» (v. 7). Udienza generale, 25
luglio 2001 Giovanni Paolo II |
" Il Signore, creatore del mondo, protegge il suo
popolo" (Lettura:
Gdt l6,l-2a. 13-15) 1. Il Cantico di lode or
ora proclamato (Gdt 16,1-17) è attribuito a Giuditta, un' eroina che divenne
il vanto di tutte le donne di Israele, perché a !ei toccò esprimere la
potenza liberatrice di Dio in un momento drammatico della vita del suo
popolo. Di questo suo cantico, la liturgia delle lodi ci fa recitare solo
alcuni versetti. Essi invitano a fare feste, cantando a voce spiegata,
suonando timpani e cembali, per dare lode al Signore "che stronca le
guerre" (v. 2). Quest'ultima
espressione, che definisce il vero volto di Dio amante della pace, ci immette
nel contesto in cui l'inno è nato. Si tratta di una vittoria conseguita dagli
Israeliti In modo del tutto sorprendente, ad opera di Dio che interviene per
sottrarli alla prospettiva di una disfatta imminente e totale. 2. L'Autore sacro
ricostruisce questo evento a distanza di secoli per offrire a fratelli e
sorelle di fede, tentati dallo scoraggiamento in una situazione difficile, un
esempio che li possa rincuorare, E ricorre cosi a quanto era capitato a
Israele quando Nabucodonosor, irritato per l'Indisponibilità di questo popolo
di fronte alle sue mire espansionistiche e alle sue pretese idolatriche,
aveva inviato il generale Oloferne col preciso compito di piegarlo e
annientarlo. Nessuno doveva resistere a lui. che rivendicava gli onori dì un
dio. E il suo generale, condividendone la presunzione, aveva deriso
l'ammonimento, che pur gli era pervenuto, a non attaccare Israele, perché
sarebbe stato come attaccare Dio stesso. In fondo, l'Autore sacro
vuoi ribadire proprio questo principio, per confermare nella fedeltà al Dio
dell'alleanza i credenti del suo tempo: occorre fidarsi di Dio. Il vero
nemico che Israele deve temere, non sono i potenti di questa terra, ma
l'infedeltà al Signore. E questa che lo priva della protezione di Dio e lo
rende vulnerabile. Quando è fedele, invece, il popolo può contare sulla forza
stessa di Dio, "mirabile nella potenza e invincibile" (v. 13), 3. Questo principio
viene splendidamente illustrato da tutta la storia di Giuditta. La scena è
quella dì una terra di Israele ormai invasa dai nemici. Emerge dal cantico la
drammaticità di questo momento; "Calò Assur dal monti, giù da
settentrione, calò con le torme del suoi armati, il suo numero ostruì i
torrenti, i suoi cavalli coprirono i colli" (v, 3). È sottolineata con
sarcasmo l'effimera tracotanza del nemico: "Affermò di bruciare il mio
paese, di stroncare i miei giovani con la spada, di schiacciare al suolo i
miei lattanti, di prendere come preda i miei fanciulli, di rapire le mie
vergini" (v. 4). La situazione descritta
nelle parole dì Giuditta è simile ad altre vissute da Israele, in cui la
salvezza era arrivata quando sembrava non esserci più via di scampo. Non era
stata così anche la salvezza dell'Esodo, nel transito prodigioso attraverso
il Mar Rosso? Anche ora l'assedio da parte di un esercito numeroso e potente
toglie ogni speranza. Ma tutto ciò non fa che evidenziare la potenza di Dio,
che sì manifesta protettore invincibile del suo popolo. 4. L'opera di Dio emerge tanto più
luminosa, in quanto egli non ricorre ad un guerriero o ad un esercito. Come
una volta, al tempo di Debora, aveva eliminato il generale cananeo Sisara per
mezzo di Giaele, una donna (cfr Gdc 4, 17-21), ora si serve di nuovo di una
donna inerme per venire in aiuto al popolo in difficoltà. Forte della sua
fede, Giuditta si avventura nell'accampamento nemico, ammalia con la sua
bellezza il condottiero e lo sopprime in modo umiliante. Il Cantico
sottolinea fortemente questo dato: "II Signore onnipotente li ha resi
innocui per mano di una donna! Poiché non cadde il loro capo contro giovani
forti, ne figli di titani lo percossero, ne alti giganti l'oppressero, ma
Giuditta, figlia di Merari, lo fiaccò con la bellezza del suo volto"
(Gdt 16, 5-6). La figura di Giuditta
diventerà poi archetipo che permetterà non solo alla tradizione ebraica, ma
anche a quella cristiana, di sottolineare la predilezione di Dio per ciò che
è considerato fragile e debole, ma che proprio per questo è scelto per
manifestare la potenza divina. Ella è una figura esemplare anche per
esprimere la vocazione e la missione della donna, chiamata al pari dell'uomo,
secondo i suoi tratti specifici, a svolgere un ruolo significativo nel
disegno di Dio. Alcune espressioni del libro di Giuditta passeranno, più o
meno integralmente, nella tradizione cristiana, che vedrà nell'eroina ebrea
una delle prefigurazioni di Maria. Non si sente forse un'eco degli accenti di
Giuditta, quando Maria nel Magnificat canta- "Ha rovesciato i potenti
dai troni, ha innalzato gli umili" (Lc 1, 52)? Si comprende dunque come
la tradizione liturgica, familiare ai cristiani sia d'Oriente che
d'Occidente, ami attribuire alla madre di Gesù espressioni riferite a
Giuditta, come le seguenti: "Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu
magnifico vanto d'Israele, tu splendido onore della nostra gente" (Gdt
15,9). 5. Partendo
dall'esperienza della vittoria, il cantico di Giuditta si conclude con un
invito a innalzare a Dio un canto nuovo, riconoscendolo "grande e
glorioso". Nello stesso tempo si ammoniscono tutte le creature a restare
sottomesse a Colui che con la sua parola ha fatto ogni cosa e con il suo
spinto le ha plasmate. Chi può resistere alla voce di Dio? Giuditta lo
ricorda con grande enfasi: di fronte al Creatore e Signore della storia, i
monti sulle loro basi sussulteranno, le rocce si struggeranno come cera (cfr
Gdt 16,15). Sono metafore efficaci per ricordare che ogni cosa è
"nulla" di fronte alla potenza di Dio. E tuttavia questo cantico di
vittoria non vuole atterrire, ma consolare. Dio Infatti pone la sua potenza
invincibile a sostegno di chi gli è fedele: "A coloro che hanno il tuo
timore, tu sarai sempre propizio" (Ibid.). Udienza generale, 29
agosto 2001 Giovanni Paolo II |
"Dio libera e raduna il suo popolo nella gioia" - Cantico: Ger 31,10-14 1. "Ascoltate,
popoli, la parola del Signore, annunziatela alle isole più lontane" (Ger
31,10). Quale notizia sta per essere data con queste solenni parole di
Geremia, che abbiamo ascoltato nel Cantico or ora proclamato? Sì tratta di
una notizia consolante, e non a caso i capitoli che la contengono (cfr
30-31), sono qualificati come "Libro della consolazione".
L'annuncio riguarda direttamente l'antico Israele, ma fa già in qualche modo intravedere
il messaggio evangelico. Ecco il cuore di questo
annuncio: "II Signore ha redento Giacobbe, lo ha riscattato dalle mani
del più forte di lui" (Ger 31,11). Lo sfondo storico di queste parole è
costituito da un momento di speranza sperimentato dal popolo di Dio, a circa
un secolo da quando il Nord del Paese, nel 722, era stato occupato dalla
potenza assira. Ora, al tempo del profeta, la riforma religiosa del re Giosia
esprime un ritorno del popolo all'alleanza con Dio e accende la speranza che il
tempo del castigo sia finito. Prende corpo la prospettiva che il Nord possa
tornare alla libertà e Israele e Giuda si ricompongano in unità. Tutti, anche
le "isole più lontane", dovranno essere testimoni di questo evento
meraviglioso: Dio, pastore di Israele, sta per intervenire. Lui che ha permesso la
dispersione del suo popolo, ora viene a radunarlo. 2. L'invito alla gioia è
sviluppato con immagini che coinvolgono profondamente. È un oracolo che fa
sognare! Delinea un futuro in cui gli esiliati "verranno e
canteranno", e ritroveranno non soltanto il tempio del Signore, ma anche
tutti i beni: il grano, il mosto, l'olio, i nati dei greggi e degli armenti.
La Bibbia non conosce un astratto spiritualismo. La gioia promessa non
riguarda soltanto l'intimo dell'uomo, giacché il Signore si prende cura della
vita umana in tutte le sue dimensioni. Gesù stesso non mancherà di
sottolineare questo aspetto, invitando i suoi discepoli a fidarsi della
Provvidenza anche per le necessità materiali (cfr Mt 6,25-34). Il nostro
Cantico insiste su questa prospettiva: Dio vuole rendere felice l'uomo
intero. La condizione che egli prepara per i suoi figli è espressa dal
simbolo del "giardino irrigato" (Ger 31,12), immagine di freschezza
e fecondità. Il lutto si converte in festa, sì è saziati di delizie (cfr v.
14) e colmati dì beni, tanto che viene spontaneo danzare e cantare. Sarà una
gioia incontenibile, una letizia di popolo. 3. La storia ci dice che
questo sogno non si è avverato allora. Ma non certo perché Dio sia venuto
meno alla sua promessa: di questa delusione è stato responsabile ancora una
volta il popolo, con la sua infedeltà. Lo stesso libro di Geremia si incarica
di dimostrarlo con lo sviluppo di una profezia che si fa sofferta e dura, e
conduce progressivamente ad alcune delle fasi più tristi della storia di
Israele. Non solo gli esiliati del Nord non ritorneranno, ma la stessa Giudea
sarà occupata da Nabucodonosor nel 587 a. C. Cominceranno allora giorni
amari, quando, sulle rive di Babilonia, si dovrà appendere la cetra ai salici
(cfr Sal 136,2). Non potrà esserci nell'animo una disposizione a cantare per
la soddisfazione degli aguzzini; non si può gioire, se si è strappati a forza
dalla patria, la terra dove Dio ha posto la sua dimora. 4. E tuttavia l'invito
alla gioia che caratterizza questo oracolo non perde di significato. Resta
salda, infatti, la motivazione ultima su cui esso poggia, e che è espressa
soprattutto da alcuni intensi versetti, che precedono quelli proposti nella
Liturgia delle Ore. Occorre averli ben presenti, mentre si leggono le
espressioni di gioia del nostro Cantico. Essi descrivono in termini vibranti
l'amore di Dio per il suo popolo. Additano un patto
irrevocabile: "Ti ho amato di amore eterno" (Ger 31,3). Cantano
l'effusione paterna di un Dio che chiama Efraim suo primogenito e lo copre di
tenerezza: "Essi erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le
consolazioni; li condurrò a fiumi d'acqua per una strada diritta in cui non
inciamperanno; perché io sono un padre per Israele" (Ger 31,9). Anche se
la promessa non ha potuto per allora essere realizzata a causa
dell'incorrispondenza dei figli, l'amore del Padre resta in tutta la sua
toccante tenerezza. 5. Questo amore
costituisce il filo d'oro che unisce le fasi della storia di Israele, nelle
sue gioie e nelle sue tristezze, nei suoi successi e nei suoi fallimenti. Dio
non viene meno al suo amore, e lo stesso castigo ne è espressione, assumendo
un significato pedagogico e salvifico. Sulla roccia salda di
questo amore, l'invito alla gioia del nostro Cantico evoca un futuro di Dio
che, pur differito, prima o poi verrà, nonostante tutte le fragilità degli
uomini. Questo futuro si è realizzato nella nuova alleanza con la morte e
risurrezione di Cristo e con il dono dello Spirito. Esso, tuttavia, avrà il
suo pieno compimento al ritorno escatologico del Signore. Alla luce di tali
certezze, il "sogno" di Geremia rimane una reale opportunità
storica, condizionata alla fedeltà degli uomini, e soprattutto una meta
finale, garantita dalla fedeltà di Dio e già inaugurata dal suo amore in
Cristo. Leggendo dunque questo
oracolo di Geremia, dobbiamo lasciar riecheggiare in noi l'evangelo, la bella
notizia promulgata da Cristo, nella sinagoga di Nazareth (cfr Lc 4,16-21). La
vita cristiana è chiamata ad essere un vero "giubilo", che solo il
nostro peccato può insidiare. Facendoci recitare queste parole di Geremia, la
Liturgia delle Ore ci invita ad ancorare la nostra vita a Cristo, il nostro
Redentore (cfr Ger 31,11) e a cercare in Lui il segreto della vera gioia
nella nostra vita personale e comunitaria. Udienza generale, 10
ottobre 2001 Giovanni Paolo II |