LA FINE DELLA VITA: INTERROGATIVI E PROBLEMATICHE
A riproporre in tutta la sua
drammaticità il problema delle decisioni da assumere sulla fine della vita è
stato recentemente il caso Welby. Parlo di “fine della vita” e non di
eutanasia, perché considero quest’ultima solo un aspetto di una problematica
più ampia e complessa, che spesso viene affrontata sulla base di proprie
aprioristiche convinzioni e sulla base della propria appartenenza a
determinati schieramenti o ideologie. Credo che per affrontare valutazioni
in questo campo - che comporta sì aspetti medici e sanitari ma ancor più
filosofici, etici e religiosi - sia necessario un atteggiamento riflessivo,
una particolare predisposizione all’ascolto quale presupposto per un vero e
costruttivo dialogo che non sia influenzato dalla demagogia o dalle
manifestazioni di piazza e, non ultima, una buona conoscenza dei termini che
vengono utilizzati - e comunemente accettati - quando si tratta di questi
argomenti.
Ritengo pertanto opportuno prima di esprimere qualsiasi considerazione,
riportare una specie di vocabolario che aiuti a meglio capire ciò di cui
stiamo parlando.
Eutanasia: è un vocabolo di origine greca (letteralmente significa “buona
morte”). Storicamente la parola si riferiva all’aiuto offerto al morente
perché il trapasso avvenisse nel modo più sereno possibile.
Oggi indica un’azione o un’omissione che, per struttura propria e per
deliberata intenzione, pone termine alla vita di una persona, su sua
richiesta esplicita (eutanasia volontaria), per ridurre sofferenze
considerate disumane o perché la vita non è più ritenuta meritevole di
essere vissuta.
Quando la richiesta è presunta si parla di eutanasia non volontaria, cioè
praticata su soggetti che non sono in grado di esprimere un consenso, come
bambini malformati o malati psichici gravi.
Talvolta si parla anche di eutanasia involontaria quando si toglie la vita,
senza il suo consenso, un soggetto che sarebbe in grado di esprimerlo,
perché la sua coscienza è solo lievemente compromessa.
Eutanasia attiva: si tratta di un gesto che pone in essere attivamente la
causa che procura la morte; consiste cioè nel mettere fine alla vita di un
malato terminale con un’azione volontaria diretta: per esempio,
somministrando un farmaco letale.
Eutanasia passiva: è l’omissione di un intervento che impedisce la morte;
consiste cioè nell’interrompere la vita di un malato terminale sospendendo
un farmaco che gli è necessario per sopravvivere oppure non iniziando una
terapia atta a prolungargli la vita.
Suicidio assistito: si ha quando l’operatore sanitario non agisce in prima
persona nel togliere la vita al malato, ma gli fornisce dietro sua richiesta
le conoscenze e gli strumenti tecnici perché egli possa procedere da solo.
Ecco perché si parla di suicidio (seppur “assistito”) e non di omicidio qual
è invece l’eutanasia.
Accanimento terapeutico: consiste in un prolungamento eccessivo di cure
dolorose dalle quali non ci si può attendere un miglioramento delle
condizioni di vita.
Cure palliative: consistono nell’assistenza attiva e totale dei pazienti
terminali quando la malattia non risponde più alle terapie e il controllo
del dolore, dei sintomi, degli aspetti emotivi e spirituali e dei problemi
sociali diventa predominante.
Testamento biologico: si tratta di un documento con cui il malato esprime
chiaramente la propria volontà in materia di trattamenti medici, in modo che
venga rispettata anche quando egli non sarà più in grado di comunicarla.
Consenso informato del paziente: deve essere acquisito dal medico prima di
iniziare attività diagnostica e/o terapeutica, come previsto dall’art. 32
(Acquisizione del consenso)de Codice di Deontologia Medica:” Il medico non
deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione
del consenso informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta
nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle
prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze
delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione
inequivoca della volontà della persona ... Il procedimento diagnostico e/o
il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per
l'incolumità della persona, devono essere intrapresi solo in caso di estrema
necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far
seguito una opportuna documentazione del consenso. In ogni caso, in presenza
di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico
deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo
consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona, ove non
ricorrano le condizioni di cui al successivo articolo ...
Per quanto riguarda l’eutanasia il
magistero della Chiesa ribadisce con tutta fermezza “che niente e nessuno
può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione
che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante.
Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un
altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente
o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né
permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di
un’offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di
un attentato contro l’umanità" (Dichiarazione sull’eutanasia della
Congregazione per la Dottrina della Fede - 5 maggio 1980). La ragione per la
quale la Chiesa condanna con tanta forza l’eutanasia attiva è riposta nel
significato stesso della vita, che dà senso anche alla morte. La vita della
persona umana è un assoluto, ha in sé valore di fine, è quindi indisponibile
in tutte le fasi del suo divenire, dalla concezione alla morte; la vita non
può mai avere ragione di mezzo, non se ne può mai fare un uso strumentale.
Pertanto la soppressione diretta della vita innocente è sempre
intrinsecamente disonesta, e non può essere ammessa in nessun caso, neppure
per raggiungere un fine buono, quale sarebbe alleviare le sofferenze di un
moribondo.
Vale anche la pena di ricordare che il Codice di Deontologia Medica (il cui
ultimo aggiornamento è stato fatto nel 2006) afferma all’art. 36
(Eutanasia): “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare
né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte.”
Il magistero della Chiesa definisce accanimento terapeutico quegli
«interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché
ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché
troppo gravosi per lui e per la sua famiglia».
Nessuno è tenuto all’uso di tutte le tecnologie disponibili per prolungare
il morire o per ritardare la morte: il diritto di rifiutare terapie
sproporzionate, anche vitali, è oggi ampiamente riconosciuto, in quanto non
rispettoso della dignità della persona. Anche per questo tema, il Codice
sopra ricordato recita all’art. 14 (Accanimento diagnostico - terapeutico):
“Il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti, da cui non si
possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un
miglioramento della qualità della vita”.
Le cure palliative hanno carattere interdisciplinare e coinvolgono il
paziente, la sua famiglia e la comunità in generale. In questo senso la cura
palliativa è un richiamo al più antico e basilare concetto di cura:
provvedere alle necessità dei pazienti ovunque si trovino: in casa o
all’ospedale.
Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire come un
processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o differire la
morte, ma quello di garantire sino alla fine la migliore qualità di vita,
alleviando le sofferenze.
La medicina delle cure palliative è, e rimane, un servizio alla salute. Non
dunque una medicina per morenti, quasi un aiuto a morire, ma una medicina
per l’uomo che rimane essere vivente fino alla morte.
Per concludere: la morte è da sempre un argomento che suscita angoscia. In
ogni epoca, sia nella pratica sia nella riflessione, è difficile affrontare
questa realtà; tuttavia bisogna riconoscere che oggi si è realizzato un
cambiamento. Nel passato la morte era più integrata nella vita ordinaria:
più frequentemente si moriva in casa, attorniati dai propri familiari. Al
giorno d’oggi la morte è piuttosto diventata un tabù, che si tenta di
isolare e di esorcizzare in diversi modi: rimovendola dai discorsi ordinari,
occultandola negli ospedali, banalizzandola o facendone spettacolo
attraverso i mezzi di comunicazione. A questi aspetti che definirei
filosofici, si aggiunge oggi anche quello relativo alle possibilità offerta
dalla scienza e dalla medicina di prolungare la vita: aspetto che comporta
una serie di interrogativi a cui la società (Stato, Chiesa, Comunità
scientifica, Organizzazioni sociali e umanitarie, ecc. per gli aspetti di
competenza) è tenuta a dare risposta.
Gianni Omodei