Editoriale

di Gianni Omodei

 

 

 

LA FINE DELLA VITA: INTERROGATIVI E PROBLEMATICHE

A riproporre in tutta la sua drammaticità il problema delle decisioni da assumere sulla fine della vita è stato recentemente il caso Welby. Parlo di “fine della vita” e non di eutanasia, perché considero quest’ultima solo un aspetto di una problematica più ampia e complessa, che spesso viene affrontata sulla base di proprie aprioristiche convinzioni e sulla base della propria appartenenza a determinati schieramenti o ideologie. Credo che per affrontare valutazioni in questo campo - che comporta sì aspetti medici e sanitari ma ancor più filosofici, etici e religiosi - sia necessario un atteggiamento riflessivo, una particolare predisposizione all’ascolto quale presupposto per un vero e costruttivo dialogo che non sia influenzato dalla demagogia o dalle manifestazioni di piazza e, non ultima, una buona conoscenza dei termini che vengono utilizzati - e comunemente accettati - quando si tratta di questi argomenti.
Ritengo pertanto opportuno prima di esprimere qualsiasi considerazione, riportare una specie di vocabolario che aiuti a meglio capire ciò di cui stiamo parlando.
Eutanasia: è un vocabolo di origine greca (letteralmente significa “buona morte”). Storicamente la parola si riferiva all’aiuto offerto al morente perché il trapasso avvenisse nel modo più sereno possibile.
Oggi indica un’azione o un’omissione che, per struttura propria e per deliberata intenzione, pone termine alla vita di una persona, su sua richiesta esplicita (eutanasia volontaria), per ridurre sofferenze considerate disumane o perché la vita non è più ritenuta meritevole di essere vissuta.
Quando la richiesta è presunta si parla di eutanasia non volontaria, cioè praticata su soggetti che non sono in grado di esprimere un consenso, come bambini malformati o malati psichici gravi.
Talvolta si parla anche di eutanasia involontaria quando si toglie la vita, senza il suo consenso, un soggetto che sarebbe in grado di esprimerlo, perché la sua coscienza è solo lievemente compromessa.
Eutanasia attiva: si tratta di un gesto che pone in essere attivamente la causa che procura la morte; consiste cioè nel mettere fine alla vita di un malato terminale con un’azione volontaria diretta: per esempio, somministrando un farmaco letale.
Eutanasia passiva: è l’omissione di un intervento che impedisce la morte; consiste cioè nell’interrompere la vita di un malato terminale sospendendo un farmaco che gli è necessario per sopravvivere oppure non iniziando una terapia atta a prolungargli la vita.
Suicidio assistito: si ha quando l’operatore sanitario non agisce in prima persona nel togliere la vita al malato, ma gli fornisce dietro sua richiesta le conoscenze e gli strumenti tecnici perché egli possa procedere da solo. Ecco perché si parla di suicidio (seppur “assistito”) e non di omicidio qual è invece l’eutanasia.
Accanimento terapeutico: consiste in un prolungamento eccessivo di cure dolorose dalle quali non ci si può attendere un miglioramento delle condizioni di vita.
Cure palliative: consistono nell’assistenza attiva e totale dei pazienti terminali quando la malattia non risponde più alle terapie e il controllo del dolore, dei sintomi, degli aspetti emotivi e spirituali e dei problemi sociali diventa predominante.
Testamento biologico: si tratta di un documento con cui il malato esprime chiaramente la propria volontà in materia di trattamenti medici, in modo che venga rispettata anche quando egli non sarà più in grado di comunicarla.
Consenso informato del paziente: deve essere acquisito dal medico prima di iniziare attività diagnostica e/o terapeutica, come previsto dall’art. 32 (Acquisizione del consenso)de Codice di Deontologia Medica:” Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà della persona ... Il procedimento diagnostico e/o il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l'incolumità della persona, devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso. In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo articolo ...

Per quanto riguarda l’eutanasia il magistero della Chiesa ribadisce con tutta fermezza “che niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di un’offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità" (Dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede - 5 maggio 1980). La ragione per la quale la Chiesa condanna con tanta forza l’eutanasia attiva è riposta nel significato stesso della vita, che dà senso anche alla morte. La vita della persona umana è un assoluto, ha in sé valore di fine, è quindi indisponibile in tutte le fasi del suo divenire, dalla concezione alla morte; la vita non può mai avere ragione di mezzo, non se ne può mai fare un uso strumentale. Pertanto la soppressione diretta della vita innocente è sempre intrinsecamente disonesta, e non può essere ammessa in nessun caso, neppure per raggiungere un fine buono, quale sarebbe alleviare le sofferenze di un moribondo.
Vale anche la pena di ricordare che il Codice di Deontologia Medica (il cui ultimo aggiornamento è stato fatto nel 2006) afferma all’art. 36 (Eutanasia): “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte.”
Il magistero della Chiesa definisce accanimento terapeutico quegli «interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia».
Nessuno è tenuto all’uso di tutte le tecnologie disponibili per prolungare il morire o per ritardare la morte: il diritto di rifiutare terapie sproporzionate, anche vitali, è oggi ampiamente riconosciuto, in quanto non rispettoso della dignità della persona. Anche per questo tema, il Codice sopra ricordato recita all’art. 14 (Accanimento diagnostico - terapeutico): “Il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”.
Le cure palliative hanno carattere interdisciplinare e coinvolgono il paziente, la sua famiglia e la comunità in generale. In questo senso la cura palliativa è un richiamo al più antico e basilare concetto di cura: provvedere alle necessità dei pazienti ovunque si trovino: in casa o all’ospedale.
Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire come un processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma quello di garantire sino alla fine la migliore qualità di vita, alleviando le sofferenze.
La medicina delle cure palliative è, e rimane, un servizio alla salute. Non dunque una medicina per morenti, quasi un aiuto a morire, ma una medicina per l’uomo che rimane essere vivente fino alla morte.
Per concludere: la morte è da sempre un argomento che suscita angoscia. In ogni epoca, sia nella pratica sia nella riflessione, è difficile affrontare questa realtà; tuttavia bisogna riconoscere che oggi si è realizzato un cambiamento. Nel passato la morte era più integrata nella vita ordinaria: più frequentemente si moriva in casa, attorniati dai propri familiari. Al giorno d’oggi la morte è piuttosto diventata un tabù, che si tenta di isolare e di esorcizzare in diversi modi: rimovendola dai discorsi ordinari, occultandola negli ospedali, banalizzandola o facendone spettacolo attraverso i mezzi di comunicazione. A questi aspetti che definirei filosofici, si aggiunge oggi anche quello relativo alle possibilità offerta dalla scienza e dalla medicina di prolungare la vita: aspetto che comporta una serie di interrogativi a cui la società (Stato, Chiesa, Comunità scientifica, Organizzazioni sociali e umanitarie, ecc. per gli aspetti di competenza) è tenuta a dare risposta.

Gianni Omodei