Indice

Introduzione

"Una parola ho detto, due ne ho udito." (Sal 62,12)

Perché "due" città

1. La titolazione di questa mia lettera pastorale deve essere spiegata. Non è una titolazione presuntuosa, ardita, di memoria agostiniana. Presenta, invece, in modo semplice e pastorale una dualità che non è tanto di contrapposizione, ma di coesistenza. Mi riferisco alla "convivenza", nell’unico campo della città umana, del grano e della zizzania (Cfr Mt 13, 24-30).
Guardando, infatti, la città dell’uomo vediamo che essa mostra un volto bifronte. E’, così, la città che cresce ma che, su tanti piani s’involve; è la città delle multimedialità ma che si fa sempre più muta per una diffusa incomunicabilità; è la città dove nascono i bimbi che sognano, giocano ma che sono tristemente attesi da ingranaggi schiaccianti; è la città dove i giovani programmano la loro vita di amore e il loro futuro professionale, ma dove sono frustrati dalle crisi di lavoro e come parcheggiati nell’incertezza; è la città che declama, ed in modo assordante, la libertà ma che è subdolamente asservita, ed asservente, gestita da non pochi poteri occulti. é la città dalle leggi, sempre innovative e dalle mafie sempre più frenanti.
Non sono quindi due città distinte ma la "stessa città" dove opera questa doppiezza, questa conflittualità.
Mi riferisco, quindi, a due volti della stessa civitas. Ecco il preposto versetto biblico: "Una parola ho detto, due ne ho udite".
L’uomo quando rompe l’armonia di Dio entra nella doppiezza.
Il conflitto interiore dell’uomo si riflette nell’uomo "sociale". Paolo afferma: "Io acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra" (Rom 7, 22).

Una riflessione per discernere insieme

2. Le affermazioni del precedente paragrafo introduttivo intendo esplicarle in lettura biblica (Cap. I), storica (Cap. II), locale (Cap. III), puntualizzarle in alcune problematiche: cultura, politica, economia, multimedialità (Cap. IV) e riferirle all’impegno della Chiesa, oggi e qui, con particolare attenzione al volto "laicale" di essa (Cap. V), e concludendo, infine, nella luce della speranza.
La lettera tende ad offrire alla Chiesa di Cosenza-Bisignano un discernimento, nella luce della fede, del nostro vissuto sociale, e definire il rapporto tra fede e storia, tra la Chiesa e la città dell’uomo, per comporre vitalmente la coesistente e spesso sofferta dimensione del cristiano e del cittadino.
Tutto ciò per un impegno genuino, oggi, diffusamente carente, che si attui nell’autenticità evangelica senza integrismi, irenismi o, come spesso avviene, senza evasioni per un presunto spiritualismo.

Capitolo I: Le due città nella Bibbia

"Il Signore scese a vedere la città e la torre
che gli uomini stavano costruendo"

(Gn 11,5)

La comunione originaria e la nascita della città cainica

3. Dio creò l’uomo perché non fosse "solo" (Gn 2,18). Come potremmo pensare un uomo solo? Sarebbe un mostro, un assurdo. L’uomo è icona di Dio che, nel suo mistero, è comunione. Gesù che è nel seno del Padre (Cfr Gv 1,18) ci ha rivelato che Dio è unità-tripersonale. Infatti, se Dio non fosse Uno non sarebbe Dio, se non fosse Trino non sarebbe Amore, non sarebbe comunione.
L’uomo ebbe un aiuto simile a lui, la donna, per essere e vivere in comunione e per trasmettere la vita. "Dio - dice la Bibbia - creò l’uomo a sua immagine, ad immagine di Dio lo creò. Maschio e femmina li creò" (Gn 2,27).
Biblicamente, pure se non ci è dato un iter storico-anagrafico, non essendo questo l’intento del libro sacro, ci è presentato, tra le righe, un salto qualitativo di grande significato.
E' il transito drammatico dalla comunione alla confusione. é il frutto amaro del peccato. Infatti si dice che dalla comunione di Adamo con Eva, incrinata dal peccato nacque Caino e poi Abele.
Questa fragile comunione fu spezzata dalla gelosia che fu fratricida.
In questa rottura della comunione che era l’archetipo creativo, non, a caso, la Genesi dice che
"Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio" (Gn 4,17). Caino è il costruttore della prima città.
In questa città, in modo crescente, la "comunione" diviene sempre più "confusione". Anzi ne porta il nome.

Il lievito di Dio

4. La Bibbia dice che gli uomini delle origini si stabilirono nel paese di Sennaar, che è la parte Sud della valle del Tigri e dell’Eufrate, e precisamente Babilonia e si dissero: "Venite, costruiamoci una città ed una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome" (Gn 11,4)
Babele significa "Confusione". "Là il Signore confuse la lingua di tutta la terra ..." (Gn 11,9).
L’orgoglio della "città" che sfida il cielo genera confusione in tutti i rapporti sociali. La sordità alla Parola di Dio immette l’incomunicabilità tra gli uomini.
La Bibbia non dice, però, che la "città umana" è nativamente Babilonia.
Lo diviene quando sfida il cielo, quando presume l’autorealizzazione fuori della Parola di Dio che è fonte di verità, di fraternità, di giustizia, di speranza.
Alla sfida dell’uomo babelico, al fratricidio cainico Dio propone e dona la salvezza. Apre i mari della disperazione e del fallimento (Cfr Es 15,1-21).
C’è, così, nella Bibbia, già nell’Antico Testamento, la proposta riconciliatrice. Dentro la "città dispersa", la fedeltà a Dio cambia lo smacco in beatitudine.
"Nessuna breccia, nessuna incursione,
nessun gemito nelle nostre piazze.
Beato il popolo che possiede questi beni:
beato il popolo il cui Dio è il Signore"
. (Sal 144,14-15).
E l’uomo "salvato" da Dio si fa proposta, lievito, redenzione nella "città degli uomini".
Osservare la legge di Dio è fonte di saggezza sociale ed è modello provocatorio per la città distratta, deviata.
"Vedete, dice Mosè, io vi ho insegnato leggi e norme come il Signore mio Dio mi ha ordinato, perché le mettiate in pratica nel paese in cui state per entrare per prendere possesso.
Le osserverete dunque e le metterete in pratica perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio ed intelligente. Infatti quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E qual grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi espongo?"
(Dt 4,5-8).

5. Questo popolo è un segnale in mezzo a tutti i popoli. Così è per i cristiani che dobbiamo essere segno della "vicinanza di Dio a noi e di noi a Dio" e lievitare "nuova storia" nella inquietudine della città babelica, che rivive, anche, oggi, sotto tanti volti. Nella città "grande" cioè forte nei suoi apparati, offensiva dei deboli, dei giusti, Dio salva e vuole i giusti portatori di salvezza (Cfr Gn 18,23-32).
Le due città, appaiono così come i due risvolti della stessa tunica; quello figurante ed è la rivelazione di una città dove si costruisce secondo la legge di Dio e quello, nodoso, dai fili intrigati dove si costruisce secondo l’arbitrio e l’orgoglio dell’uomo.

La convivenza delle due città nei testi del Nuovo Testamento

6. Tale "convivenza" delle due città è indicata più espressamente e vitalmente nel Nuovo Testamento, particolarmente nell’Apocalisse che racchiude la visione della storia in profondità.
Questo libro vede la "prostituta famosa" e la bestia delle quali descrive la pretesa possanza; l’ebbrezza di sangue anche dei martiri di Gesù. E Giovanni dice: "Al vederla, fui preso da grande stupore. Ma l’angelo mi disse: "Perché ti meravigli? Io ti spiegherò il mistero della donna e della bestia che la porta, con sette teste e dieci corna" (Ap 17,6).
Esplica che le sette teste sono i volti della potenza di Roma, che le dieci corna sono dieci re (Ap 17,12) ed afferma: "Questi hanno un unico intento: consegnare la loro forza ed il loro potere alla bestia. Essi combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà, perché è il Signore dei signori e il Re dei re e quelli con Lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli" (Ap 17,14).
Sottolineo come questa "prostituta famosa" nel linguaggio dell’Apocalisse "simboleggi la città grande, che regna su tutti i re della terra".
Assieme a questa città "potente" quella degli oppressori di sempre, quella della corruzione, del sopruso, quella che uccide, l’Apocalisse mostra il volto della "civitas" santa.
La città si fa, quindi, dualità: c’è il volto babelico e quello della città secondo Dio, secondo l’Agnello.
E' Gerusalemme, città nella pace, non arroccata nelle sue presunte sicurezze, come Babilonia, ma aperta da dodici porte. E' il segno dell’accoglienza, della solidarietà, dell’universalità. Ed essa non incarna tanto la chiesa istituzione, società organizzata, ma la Chiesa mistero. é la città secondo lo Spirito di Dio. In essa non c’è alcun tempio. "Non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello" (Ap 21,22-23).
La valenza della Santità nella civitas è indicata con questa visione che la mostra aperta ed accogliente mentre è spesso soggiogata ed esclusa, e la vede luminosa mentre si tenta di oscurarla.
"Le nazioni cammineranno alla sua luce
e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza.
Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno,
poiché non vi sarà più notte.
E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni.
Non entrerà in essa nulla d’impuro,
né chi commette abominio o falsità,
ma solo quelli che sono scritti
nel libro della vita dell’Agnello"
(Ap 21,24-27).

L’agnello paradigma della città salvata

7. L’Agnello è il paradigma della redenzione di ogni costruzione umana. La potenza di Babilonia cade, la debolezza della croce, dono e perdono, rimane in eterno.
E' il cantico di Maria che contempla così la storia:
"ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi"
. (Lc 1,52-53).
Così con breve sintesi abbiamo colto la città dell’uomo, corrotta e disgregante quando si stacca dalla Verità e dall’Amore e s’inalbera nella sua efficienza, nella potenza delle sue conquiste; mentre in essa opera, pure, come fermento, inquietudine e proposta la novità della "debolezza" di Cristo, che si esprime nella vita e nell’opera dei credenti.
C’è una coesistenza tra le due città, ed appare da molte prove.
Sono i due lieviti della stessa città.
Il credente deve avere una sua presenza nel sociale, deve fare le sue scelte, svolgere una sua missione perché la città dell’uomo non si affermi come Babelica ma nella luce dell’Agnello che è il grande sconosciuto, o rifiutato, o, se considerato, colto al massimo con pietismo superfluo e non contemplato ed accolto come vincitore della storia e della città umana.
Il credente sa, esperimenta e testimonia che "Se il Signore non costruisce la città invano veglia il custode" (Sal 127,1).

Capitolo II: Le due città: separazione, scontro o incontro? Excursus storico

"Rendete dunque a Cesare quello che è di
Cesare e a Dio quello che è di Dio"

(Mt 22, 22-21)

Schema della riflessione storica

8. Sarebbe molto interessante poter offrire un serio excursus storico, che pur non compete ad una lettera pastorale, onde avere, riassuntivamente, illuminazione ed orientamento sul comportamento civico e politico del credente, oggi.
Lo farò, con brevità.
Tenterò sinteticamente questa pista: dalla Pentecoste alla sfida prometeica, dalle grandi paure e dalle sofferte attese del nostro tempo alla nuova Pentecoste, oggi, con il Concilio Vaticano II.
Esaminerò per voi questi punti:
a. il comportamento e l’insegnamento di Gesù nella vita socio-politica;
b. il comportamento della Chiesa primitiva;
c. tentativi successivi di traduzioni etiche e progetti storico-politici nella vita della Chiesa;
d. la tragicità dell’umanesimo contemporaneo nei suoi riflessi socio-politici
e. il Concilio Vaticano II e la città secolare.

Comportamento ed insegnamento di Gesù nella vita socio-politica

9. Gesù venne per donare all’uomo di sempre gli orizzonti della verità, della giustizia, della pace e questo in tutte le dimensioni. Gesù non contrappose il cielo alla terra, l’eterno al tempo, l’interiorità alla socialità, la comunità alla politica.
Tutto compose in unità vitale, questo anche nella Sua vita terrena. Nel Documento sul Rinnovamento della catechesi della Conferenza Episcopale Italiana al n. 60 si legge: "La catechesi metta particolarmente in luce i lineamenti della personalità di Gesù Cristo, che meglio lo rivelano all’uomo del nostro tempo; la sua squisita attenzione alla sofferenza umana, la povertà della sua vita, il suo amore per i poveri, i malati, i peccatori, la sua capacità di scrutare i cuori, la sua lotta contro la doppiezza farisaica, il suo fascino di capo e di amico, la potenza capovolgitrice del suo messaggio, la sua professione di pace e di servizio, la sua obbedienza alla volontà del Padre, il carattere profondamente spirituale della sua religiosità".
Questo volto di Gesù ci apre ad una contemplazione della Sua personalità.
Come si pone Gesù di fronte alla politica? Non mancarono tentativi di leggere la sua figura in chiave rivoluzionaria. Reimarus (+1768) sosteneva che Gesù fu un vero e proprio agitatore politico, messo a morte per questo dai Romani.
Negli anni ’30 anche R. Eisler riaffermò questa tesi, né è da trascurare qualche ricorrente interpretazione ideologica che lo mostra come pezza d’appoggio alle proprie opinioni.
Gesù sfuggì sempre e con decisione il tentativo di essere guardato come un restauratore politico.
Afferma Jeremias (Teologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia, 1972, vol. I, p. 90): "Secondo l’antica tradizione pre-pasquale, non solamente l’evento del battesimo e la rivelazione che l’accompagnò precedette la manifestazione pubblica di Gesù, ma la precedette anche un altro avvenimento del tutto diverso: il superamento della tentazione che lo spingeva ad un messianismo politico".
All’altro estremo c’è chi come Bultmann nega decisamente ogni dimensione politica nella vita di Gesù, affermando che "il cristianesimo primitivo ignora qualunque programma di trasformazione del mondo e non ha proposte da presentare per la riforma delle condizioni politiche e sociali".
E' questo un intimismo cristiano, non componibile con il mistero dell’incarnazione.
Possiamo dire che Gesù senza coinvolgimenti con nessun movimento politico-rivoluzionario del suo tempo ha predicato una dottrina che con sé ha portato conseguenze decisive nei riguardi della situazione sociale di allora e di sempre.
La trascendenza di Gesù, la sua divinità sono luce per la storicità. Lui è venuto non solo per un annuncio, ma per una redenzione compiuta nel suo mistero pasquale, di tutto l’umano.

Gesù nel suo contesto storico-politico

10. Anzitutto guardiamo come Gesù visse il suo contesto sociale e politico.
- Nacque a Betlemme per l’obbedienza di Maria e Giuseppe ad una legge civile: il decreto di Cesare Augusto, imperatore Romano, che ordinò il censimento (Cfr Lc 2,1.4)
- La sua nascita "scomodò" il Re Erode che pensava ad un concorrente nella regalità terrena. Questi dispose, da sanguinario, la strage degli innocenti; e Gesù, bambino, fu portato per questo, su parola dell’angelo, profugo in Egitto (Cfr Mt 2,13-14). Visse, quindi, anche, avendola subita, la violenza di un potere. Entrò nella vicenda della grande "sofferenza storica".
- Giovanni, il precursore, lo anticipò nel martirio perché disse la verità ad Erode. L’uomo di Dio è frequentemente zittito, eliminato perché il sopruso si nasconde e non accetta la verità (Cfr Mt 14,3-12)
- Gesù subì un processo sottomettendosi sia davanti al Sinedrio (Cfr Mc 14,53-65) sia davanti a Pilato (Cfr Mc 15,1-15)
- A Pilato che, durante il processo gli domandò se era Re, rispose: "Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù" (Gv 18,36). Ed ancora: "Si, io sono Re, ma sono nato e venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità" (Gv 18,37). Il Cristo rivela così la Sua Regalità che non è terrena. Egli trascende ogni regalità terrena, pur se tutto illumina, dimensiona ed orienta.
- Riconosce il potere civile, come servizio, e come riflesso dell’autorità di Dio per l’ordine sociale. A Pilato che, nel dialogo processuale, gli dice: "Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce" risponde: "Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto" (Gv 19,10-11).

Spunti essenziali del suo insegnamento sul piano sociale

11. Del suo insegnamento riferisco solo due testi evangelici che sono significativi. Il primo è quello che indica il potere come servizio e la vera grandezza nell’umiltà e dono di sé.
Racconta il Vangelo: "Sorse anche una discussione, chi di loro poteva essere considerato il più grande. Egli disse: ‘I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi, però, non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve. Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve’" (Lc 22,24).
Il secondo, intensamente illuminante, è nel contesto di un tentativo di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Gli domandarono: "E' lecito o no pagare il tributo a Cesare?" Gesù chiese che gli fosse mostrata la moneta del tributo e domandò loro "Di chi è questa immagine e l’iscrizione?" Gli risposero: "Di Cesare". Allora disse loro: "Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Cfr Mt 22,17-21).
Il credente "dona" il suo impegno oltre che il suo tributo, alla vita civica-sociale-politica, proprio perché ascolta e serve la Parola di Dio.

Il Regno di Dio nella "Città umana"

12. Riassuntivamente su questo punto concludo con una sintesi del Frosini che dice: "La buona novella è esattamente la venuta del Regno: con la sua inaugurazione cominciano i tempi nuovi, comincia la manifestazione della misericordia del Re verso tutti gli infelici della terra e tutti gli sconfitti della storia. La fine della sofferenza e delle ingiustizie sarà così il segno inconfondibile della venuta del Messia del poveri e degli sventurati.
Il Regno non è di questo mondo nel senso che non viene da questo mondo e che è portatore di una logica diversa, che smentisce tutte le logiche umane di potere, di successo, di ricchezza, di sopraffazione.
Ma già germina nella storia, già è presente in mezzo agli uomini. Non è di questo mondo, ma è in questo mondo. In esso l’autorità è servizio (Mt 20, 25-28), il perdono e la gratuità sono le leggi del rapporto tra gli uomini, la fraternità è lo statuto fondamentale, i poveri sono i privilegiati, l’oppressione è bandita.
Il Regno di Gesù è regno "eterno ed universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace" (Dalla Liturgia, Prefazio di Cristo Re).
E' in queste prospettive esaltanti che la politica cristiana troverà sempre la sua ispirazione, il suo fondamento e le sue finalità immanenti.
Il rifiuto della politica formale non coincide certo con il rifiuto della politica sostanziale. E si tratta di un campo vastissimo di potenzialità, di un patrimonio immenso di possibilità che domandano soltanto di essere attuate. Il male è colpito alla sua radice" (Cfr Frosini, Impegno cristiano. Per una teologia della politica, Paoline, 1992, pp. 64-65).

Il comportamento della Chiesa primitiva

13. Il libro degli Atti, che è il libro della Chiesa, mostra nell’opera degli Apostoli alcuni dati da considerare nel rapporto Chiesa-Società, politica-Istituzione.
- Il primo dato è la "libertà" dell’annunzio senza tattiche, senza linguaggi ammansiti, senza ammorbidimenti di convenevoli per evitare il rischio d’urto. Negli Atti, c’è la testimonianza della vera libertà per cui, ed è da considerare nell’oggi diplomatico e vellutato, la Parola per essere liberante "non è incatenata" (2 Tim 2,9) da vicende e da nessuno.
Il mondo delle politiche deve essere illuminato ma guai se cadiamo nei compromessi. Tradiremmo la Parola e lo Spirito. Ci vuole vigilanza sulle contropartite.
- Il secondo dato è che la "verità" genera persecuzioni. "Se voi foste del mondo, il mondo non vi odierebbe" (Gv 15,19). Nel libro degli Atti tintinnano molte catene e scorre tanto sangue di martiri. Ma sulla vicenda delle persecuzioni riecheggia una Parola chiara, programmatica, per ogni rapporto sociale, politico, ecc... E' la Parola di Pietro: "Bisogna ubbidire piuttosto a Dio, anziché agli uomini" (At 5,29). Nella rissa delle tante discussioni sociali c’è per il cristiano, anzitutto, soprattutto, sempre, l’obbedienza alla Parola.
- La prima comunità cristiana, nei gesti degli Apostoli e dei fratelli e sorelle di fede, non è assente dal vivere sociale. L’essere "nati dall’alto" non li stacca dallo storico né dal politico. Sono presenti concretamente "ai poveri, alle vedove nella distribuzione quotidiana" (At 6,1); traducono, nello Spirito di Dio, un modello di economia che è un paradigma raramente riproposto: "tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno" (At 2, 44-45) e così immettono un germe di novità nella visione dell’economia che è bene per ogni uomo e per tutti gli uomini.
- Guardano i bisogni strutturali ed agiscono. Un modello è la breve lettera a Filemone nella quale Paolo, dinnanzi ad Onesimo, schiavo, passato alla fede, dice a Filemone: "Ora, trattalo non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore" (Fm 1,16). Prima ed al di là della condizione, allora giuridica, della schiavitù, Paolo interviene come prima risposta "umanizzando" un rapporto. La fraternità in Cristo e da Cristo è la chiave per aprire rapporti nuovi, al di là, prima, fuori dalle leggi stesse. Questo è lievito evangelico. Da questo fermento è nata la "civitas: secondo il Vangelo.
- Ma, Paolo che annunzia il superamento della legge, quando è formalismo religioso, nella linea dell’incarnazione, si immette nella legge. Non è un "anarchico dello spirito" ma cammina nell’ordine sociale, mentre opera per purificarlo. E' interessante, come si difende di fronte a Festo. Dice: "Mi trovo davanti al tribunale di Cesare, qui mi si deve giudicare. Ai Giudei non ho fatto alcun torto, come tu sai perfettamente. Se dunque sono in colpa e ho commesso qualche cosa che meriti la morte, non rifiuto di morire; ma se nelle accuse di costoro non c’è nulla di vero, nessuno ha il potere di consegnarmi a loro. Io mi appello a Cesare" (At 25,10-11).
La prima Chiesa si pone come profezia per il mondo, in libertà, in verità ma si situa dentro il mondo, vivendo la carità, rispettando le leggi e maturando ogni liberazione.
- Tale comunità, guidata dagli Apostoli, mentre è aperta all’opera dello Spirito, orientata al "Regno che viene" è, proprio per questo, immessa nella storia. E la storia diviene la sua preghiera. Ma non tanto la storia astratta ma quella con i suoi volti, il suo vissuto, i suoi problemi.
Paolo ai Romani così scrive: "Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono, si attireranno addosso la condanna. I governanti, infatti, non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non avere da temere l’autorità? Fa il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo vero bene. Ma se fai il male, allora temi, poiché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo, dunque, dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto; a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto" (Rom 13,1-7).
E' questo un sintetico ma denso e luminoso trattato sull’autorità civile, sul ruolo, sul rispetto dovutole che immette i cristiani nell’impegno di buoni cittadini della terra.
Nella prima lettera a Timoteo esorta a pregare per l’autorità civile. "Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità" (1 Tim 2, 1-2).
Ed a Tito scrive, relativamente ai fedeli: "Ricorda loro di esser sottomessi ai magistrati e alle autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona; di non parlare male di nessuno, di evitare le contese, di essere mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini" (Tito 3, 1-2). In questo testo l’obbedienza alle autorità è nella vita di carità.
Anche Pietro esorta a questa saldatura tra amore di Dio, obbedienza alle autorità, e libertà del cuore. é un testo dinamico e concretamente spirituale: "State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governanti come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio. Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re" (1Pt 2,13-17).

Excursus successivo dei rapporti con il temporale, nella vita della Chiesa

14. La freschezza della Chiesa delle origini, dei primi secoli, rimane paradigmatica e modello, anche critico, dentro i successivi inquinamenti e traduzioni storiche.
La Chiesa che esce dalle persecuzioni, con l’editto di Milano (313), entra nella "libertà religiosa" e si trova con un rapporto mutato di fronte allo Stato. Essa fu ufficialmente riconosciuta accanto al paganesimo; anzi, a cominciare da Teodosio, il Cristianesimo divenne religione di Stato e sorge così la prima Chiesa imperiale. Se nei primi tre secoli "non era lecito essere cristiani" successivamente si rovesciò l’impostazione per cui "illecito era non essere cristiani".
Così sotto Giustiniano (+565) si ha un punto culmine nel cesaropapismo. Rivela Joseph Lortz (Storia della Chiesa, Paoline, 1958, p. 70): "Tutti i non battezzati furono privi di diritti e gli eretici come giuridicamente incapaci di ricoprire una carica. Con questo è già pronta, in linea di principio, quella concezione medievale, secondo la quale solo il cattolico era un cittadino perfetto e ogni attacco alla fede della Chiesa era anche un attacco allo Stato".
Emerse anche una concezione per cui lo Stato non aveva solo il dovere di proteggere la Chiesa ma anche quello di costringere gli eretici alla verità.
Questo insegnamento influì sulla purezza ed identità nei rapporti della Chiesa con il temporale, sino all’evo Moderno. Hanno contribuito alla sua purificazione nuove persecuzioni e tanti nuovi martiri ma specialmente la luce dello Spirito nella svolta del Concilio Vaticano II.
A nessuno sfugga il periodo in cui la Chiesa trasformò la sua dimensione universale in un universalismo tutto particolare, possiamo dire "specificatamente medievale" (Cfr Lortz, op. cit., p. 107) cioè l’universalismo del potere ecclesiastico- politico del papato medioevale.
E tutti ricordiamo la lotta delle investiture, l’influsso dei Pontefici nella politica europea, il periodo delle inquisizioni. Tutto questo sino all’evo moderno.
In questo arco di tempo, da Costantino all’evo moderno, la Chiesa scrive, però, pagine luminose nella sua vita con Santi di altissima levatura, nell’apertura alla missionarietà, nel magistero dei Papi ed in Concili Ecumenici di irripetibile valenza, nella sua mediazione sociale nella cultura, nell’arte. C’è stata grandezza ma non sempre purezza nei rapporti con la temporalità.
Questo periodo si suole chiamare "Cristianità".
Cito a modo di esempio una espressione di Innocenzo III (1198-1216) nel Sermo III in Consecratione Pontificis (P.L. 217, 665) che afferma: "Il Cristo in segno delle cose spirituali mi donò la mitra, e di quelle temporali, la tiara: la mitra come papa, la tiara come re".
Rivela Martelet: "Il tipo di sintesi dei due poteri al quale Innocenzo III si ricollega c’importa poco qui. Queste parole sono sufficienti a richiamare il senso tecnico che il binomio spirituale-temporale aveva preso nella teologia del medioevo" (La Chiesa ed il temporale in ‘La Chiesa del Vaticano II’, Vallecchi Firenze, 1965, p. 543).
Si spiega in questa lettura l’alto senso del nostro Papa Giovanni Paolo II che, in occasione del Giubileo, ha chiesto perdono per i peccati storici della Chiesa e ci ha chiesto una purificazione della memoria.

La tragicità dell’umanesimo contemporaneo nei suoi riflessi socio-politici

15. L’evo moderno è dominato da alcune tendenze precise che partono da una visione dell’uomo, della vita, della storia con conseguenti atteggiamenti etici e comportamentali, anche nella "costruzione" della "civitas", che, senza riferimenti trascendenti è divenuta o violenta o vuota o girante in se stessa.
Gradatamente vengono scardinati i riferimenti oggettivi dell’essere, non c’è più fonte né approdo.
C’è il passaggio che ha generato vuoto e sofferenza ed è quello dalla trascendenza all’immanenza, dall’oggettivo al soggettivo. L’uomo è il centro di tutto ma fuori di Dio. C’è stato un graduale smontaggio della visione cristiana della vita. Di questa non si tenta di correggere tanto gli errori umani ma a smontarne tutta la costruzione.
Si possono riconoscere le scalfitture graduali.
Il protestantesimo smontò la Chiesa come istituzione e guida, il razionalismo scalfì ogni rivelazione di Dio nella storia negando, di riflesso, ogni intervento salvifico.
Successivamente si lasciò l’uomo in maggiore solitudine, non solo senza la guida della Chiesa, non solo senza la Salvezza di Cristo, ma lo si chiuse nella sua pretesa autosufficienza.
Dal Dio inconoscibile (Kant) si passò al Dio assimilato nelle realtà visibili (Stato etico-razza-partito, ecc...) e, poi, all’inutilità di Dio stesso.
Se c’è, si è detto, Dio è ininfluente, è un opinione non la Verità. é l’uomo senza agganci restò nel vuoto e vive "come se Dio non ci fosse". Anche la "città dell’uomo" si costruisce fuori di Dio.
La ragione di tanto disagio nella città umana non è ascrivibile, quindi, solamente all’impatto con la nuova realtà "strutturale" ma al disorientamento esistenziale, al vuoto derivato dall’assenza di Dio nella vita dell’uomo.
Feuerbach scriveva presuntuosamente in questa linea: "La svolta della storia, sarà il momento in cui l’uomo prenderà coscienza che il solo Dio dell’uomo è l’uomo stesso. ‘Homo homini Deus’. L’essere assoluto, il Dio dell’uomo e l’essere stesso dell’uomo" (L’essenza del cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1960, p. 23).
Tale umanesimo ateo ha generato il dramma acuto dell’attuale disumanesimo. Per liberarsi da Dio l’uomo si è consegnato al vuoto e si è schiavizzato con tanti idoli.
"Partendo dalla libertà illimitata sono arrivato al dispotismo senza limiti", fa dire Dostoevskij nei "Demoni" a Cigalev, al tecnico della rivoluzione.
Ed annota Berdjaev: "Dove non c’è Dio non c’è neppure l’uomo. Si! L’avvenimento più importante del nostro tempo è che noi abbiamo perso l’uomo" (Cfr De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia, p. 64).

L’ethos imperante dell’oggi

16. E' molto importante, per capire anche i risvolti sociali del post.moderno e per cogliere quale presenza spetta ai credenti, esaminare l’ethos imperante di oggi.
A riguardo Monsignor Lorenzo Chiarinelli, Vescovo di Viterbo, nella sua relazione alla XLVII Assemblea Generale della CEI (Collevalenza 22-26 maggio 2000) ha rilevato che dalla crisi delle certezze della metafisica "prendono avvio il qualunquismo, la ghettizzazione e le emarginazioni, la crescente distanza tra ricchezza e povertà, il gioco vincente dei poteri occulti, reali o virtuali".
E continua: "Sul piano culturale il sec. XX ci consegna, globalmente, una stagione di basso profilo. Il crollo delle "ideologie" (con i suoi indubbi esiti positivi) sembra avere allentato la tensione intellettuale ed aperto il varco al "pensare debole", spesso all’acquiescenza o al qualunquismo o al nichilismo, o anche all’ "ipocrisia" del pensare.
Così le grandi dialettiche (da quelle fondative vita-morte, bene-male, verità-amore, a quelle dei comportamenti quotidiani che chiamano in causa libertà e dovere, soggettività e solidarietà, fede credente e prassi di vita, ecc...) hanno smesso i colori vivi ed hanno lasciato il posto a nuovi e diversi atteggiamenti: il relativismo senza inquietudini, la fruizione senza remore dell’immediato, la riduzione soggettivistica di ogni verità e di tutto ciò che è universale.
Mucci osserva: "L’uomo del post-moderno è l’uomo del consumo e dell’audiovisivo e di ogni gioco estetizzante che non riconosce un sapere privilegiato né nella filosofia né nella religione né nella scienza.
L’uomo post-moderno non rifiuta, con ciò, né la religione, né la scienza, né la filosofia, le considera altrimenti giochi linguistici, nel caleidoscopio pirotecnico di un sapere non più fonologico, ma pluralistico e dissipato" (L’assenza di Dio nel post-moderno, La Civiltà Cattolica 21-06-1997, n. 3138 p. 547).
Ed acutamente rileva: "Anche la religione diventa un appello soggettivo e gratificante, che testimonia l’insufficienza della fede a produrre una certezza superiore alla soggettiva speranza".
In un analisi molto puntuale, il teologo ortodosso Oliver Clement, in un articolo su Avvenire del 23 maggio 2000, parlando della "società secolarizzata" chiusa cioè alla terra, rileva: "Auschwitz, il gulag, la caduta del muro di Berlino hanno ucciso le grandi mitologie della politica e della storia.
Le immagini tradizionali di Dio, onnipotente, onnisciente ed eterno, sono crollate con il carnaio delle guerre mondiali, dei campi di sterminio, di genocidi, fame, epidemie"
Su questo sfondo di nichilismo, la società secolarizzata conosce, per reazione, un’ideologia diffusa, non costrittiva, ma che impregna gli spiriti, soprattutto attraverso la pubblicità ed i media. Tre temi sembrano più fondamentali: la ricerca individuale del piacere e del capriccio, l’eros, il cosmo. La ricerca del piacere o, meglio, della felicità, Seychelles e droghe, gay-pride e soprattutto rave-party ovvero la trance, assicurati dall’ecstasy e la danza frenetica fa conoscere una sorta di amore senza limiti, totalmente in fusione.
La biotecnologia, la decifrazione e domani la manipolazione del genoma umano, la credenza che tutte le malattie sono genetiche, danno un nuovo respiro al prometeismo scientista, permettendo una sorta di eugenetica al servizio di tutti i desideri".
E continua sul piano socio-politico: "La secolarizzazione ha effetti ambigui, temibili. Il neoliberalismo, il culto cieco del mercato e della Borsa, portano con sé un crescente contrasto con il Nord, votato ad un consumismo delirante, ed il Sud, misero, devastato dall’endemie (soprattutto l’Africa dove la miseria diventa massacro) e con l’Est, incerto e caotico".

Una prospettiva positiva nella Speranza

17. Il Papa, svelandoci la terza parte del segreto di Fatima, comunicato dalla Madonna, Madre del Signore e della Chiesa, ai tre pastorelli, ci ha dato di leggere il corso del secolo XX, con i molti cristiani, martiri delle varie dittature, solo perché testimoni di una "città vera" in alternativa a quella baldanzosa, dai soprusi violenti.
Si è verificato così nell’evo moderno come un rovesciamento.
La "città" cristianamente illuminata con la luce dell’Agnello dei primi secoli, smarritasi, poi, nelle pretese terrenistiche, pur se non in tutto né in tutti, è ritornata, possiamo dire, misterioso, in modo misterioso e provvidenziale. Dalla superbia della "città cainica" che emargina la Chiesa, si è passati ora all’azione profonda dei "credenti" nel ruolo non di gestori ma di servitori, non di costruttori di potere ma generatori di redenzione umano- sociale.
Il cristiano è cittadino secondo un modello di "città" per cui è immerso, non tanto in contrapposizione ma come fermento, per una lievitazione della stessa "città" secondo verità e giustizia, in modo che si attui non la città babilonica ma quella archetipa della "città Santa".
Non ci deve essere più lo scontro Chiesa-Stato ma deve esserci la Chiesa Sacramento di salvezza, anche per lo Stato, e per l’azione di tutti i suoi membri, specie i laici, che, perché credenti, sono membri dell’unica città terrena. La Chiesa così propone ai suoi membri anzitutto la redenzione personale, come cittadini, e poi l’impegno, come attori, mediatori non violenti ma propositivi di nuova giustizia e di nuovo ordine sociale-economico-culturale.

Il Concilio Vaticano II e la città secolare

18. Il Vaticano II è stato come una nuova Pentecoste per la Chiesa e per la Chiesa nel mondo.
Alla sua conclusione, nel discorso finale, Paolo VI (7 dicembre 1965), tra l’altro, ha detto: "Ma non possiamo trascurare un’osservazione capitale nell’esame del significato religioso di questo Concilio: esso è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento.
Questo atteggiamento determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli, nel secolo scorso ed in questo specialmente tra la Chiesa e la società profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa, è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio...".
Il Concilio Vaticano II ha aperto una via, nuova, proprio perché originaria nel rapporto tra Chiesa e comunità civile, ed ha connotato, con la purezza delle origini, il rapporto vitale del credente, cittadino del cielo, con il cittadino della terra.
I documenti del Concilio Vaticano sembrano riecheggiare l’antichissima e luminosa "Lettera a Diogneto" che afferma (Cfr cap. 5-6 - Funk, pp. 397-401): "I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri, partecipano a tutte le attività dei buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera".
"In una parola i cristiani sono nel mondo quella che è l’anima nel corpo. L’anima si trova in tutte le membra del Corpo e anche i cristiani sono sparsi nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo, ma non proviene dal corpo. Anche i cristiani abitano in questo mondo ma non sono del mondo".
E' il grande insegnamento di Gesù: "Voi siete nel mondo, ma non siete del mondo" (Cfr Gv 17,14).
Questo significa essere di Cristo, come Cristo. Rivela Bulgakov: "C’è una identità che permane tra la dimora di Cristo nel mondo ed il suo modo di essere nella Risurrezione e nell’Ascensione. Tale identità si esprime nella simultanea affermazione tanto del rimanere nel mondo quanto nella sua Ascensione al cielo: Cristo è così là come qui, fuori del mondo e nel mondo. L’umanità non perde Cristo neppure quando Egli sale al cielo e Cristo che ascende al cielo non interrompe il suo rapporto con l’uomo" (L’Agnello di Dio, Città Nuova, Roma, 1990, p. 459).
Così il cristiano: è l’uomo che "ha la patria nei cieli" (Cfr Fil 3,20) ma che vive già lo spirito della "città celeste" nella "città terrena".
E' questo che insegna il Concilio Vaticano II. Non contrappone le due città, non le mescola, confondendole. Pone invece una presenza dell’uomo "celeste" nella inquietudine terrestre. Scrive Evdokimov: "Ogni cristiano è invitato da Dio a vivere di fede: vedere ciò che non si vede, contemplare la sapienza di Dio nell’assurdità apparente della storia" (La novità dello Spirito, àncora, Milano, 1992, p. 250).
Il Concilio Vaticano II, partendo dalla trascendenza e profondità della vita cristiana presenta così in un dinamismo di purificazione e di azione, l’impegno del cristiano nella vicenda complessa della "città dell’uomo".
Riferendosi ai laici dice: "Nel pellegrinaggio della vita presente, nascosti con Cristo in Dio e liberi dalla schiavitù delle ricchezze, mentre mirano ai beni eterni, con animo generoso si dedicano totalmente ad estendere il Regno di Dio e ad animare e perfezionare con lo spirito cristiano l’ordine temporale" (AA, 4 g).
E nello stesso documento (7, b) spiega cosa è l’asserito "ordine temporale", dicendo: "Tutte le realtà che costituiscono l’ordine temporale, cioè i beni della vita, della famiglia, la cultura, l’economia, le arti e le professioni, le istituzioni della comunità politica, le relazioni internazionali e così via, come pure il loro evolversi e progredire, non soltanto sono mezzi con cui l’uomo può raggiungere il suo fine ultimo, ma hanno un "valore" proprio, riposto in esse da Dio, sia considerate in se stesse, sia considerate come fonti di tutto l’ordine temporale. "E Iddio vide tutte le cose che aveva fatto ed erano assai buone" (Gn 1,31).
Questa loro bontà naturale riceve una speciale dignità dal rapporto che esse hanno con la persona umana a servizio della quale sono state create.
Infine piacque a Dio unificare in Cristo Gesù tutte le cose, naturali e soprannaturali, "affinché egli abbia il primato sopra tutte le cose" (Col 1,18).
Questa destinazione, tuttavia, non solo non priva l’ordine temporale della sua autonomia, dei suoi propri fini, delle sue proprie leggi, dei suoi propri mezzi, della sua importanza per il bene dell’uomo, ma anzi lo perfeziona nella sua consistenza e nella propria eccellenza e nello stesso tempo lo adegua alla vocazione totale dell’uomo sulla terra".
Ed alla lettera d afferma: "E' compito di tutta la Chiesa aiutare gli uomini affinché siano resi capaci di ben indirizzare tutto l’ordine temporale e di ordinarlo a Dio per mezzo di Cristo".

Il cristiano "anima" delle terrene realtà

19. Nei capitoli seguenti svilupperò alcuni aspetti sopraindicati e conclusivamente vedremo quale comportamento seguire, oggi, nel nostro contesto umano-sociale.
E' importante per sfuggire, come già detto, evasione ed integrismo, ghetto ed assimilazione, cogliere bene che come cristiani, o meglio cittadini cristiani, abbiamo il dovere di una "presenza" che sia di redenzione e di animazione orientativa delle realtà terrene.
Nella "città dell’uomo"” si afferma, non di rado, l’alterigia babelica e regna la "confusione delle lingue", il cristiano deve mettere a fuoco il vero volto della "città" nella verità luminosa e forte della Pentecoste che tutto riconcilia.
Così i due volti della "città umana" che si inseguono, per l’opera paziente, nascosta ma profonda dei cristiani, specie dei laici, vengono riportati all’evidenziazione del vero volto della "civitas", quello dove "giustizia e pace si baceranno" (Sal 85,11).

Capitolo III: La Chiesa e la società cosentina di fronte alla "città dell’uomo"

"Se la città non è custodita dal Signore,
invano veglia il custode"
 
(Sal 126,1)

Volto e bisogni della Chiesa e della società cosentina

20. Questa mia lettera pastorale, com’è ovvio, è rivolta alla Chiesa Cosentina-Bisignanese, a tutti i suoi membri, presbiteri, diaconi, religiosi e religiose, laici, organizzati nelle varie aggregazioni ecclesiali e nei molteplici impegni pastorali, ed a tutti i fedeli, silenziosi, sofferenti ma membra vive del Cristo, cuore del mondo ed anima di ogni autentica città umana.
Mi rivolgo anche, rispettosamente, in un dialogo convinto e costruttivo al mondo cosiddetto "laico" della città e diocesi, alle autorità, alle molteplici istituzioni, al mondo dell’economia, della cultura, della politica per una proposta di valida sinergia perché la nostra "polis" sia accogliente, liberante e di vero servizio alla crescita della persona umana, vista nella sua integralità, che è il fine di ogni genuina socialità.
Per poterci impegnare tutti per la verità e la concordia dell’uomo, per una giustizia più piena, mi sembra necessario, partendo dalla intuizione delle "due città", fare, per quanto ci è dato, un esame della nostra situazione.

21. Lo faccio nella luce della fede, ma con dei riferimenti etici validi per tutti, anche per i non credenti o per quelli che si dicono tali, forse per reazione, o perché cercano traduzioni di fede più coerenti ed incidenti.
Esaminerò la situazione della nostra Chiesa, il suo tipo di presenza o di assenza nella città umana, e soprattutto annoterò dove mi pare appaia il volto babelico nella nostra polis e dove e come deve essere deposto il lievito "nuovo" per una città a misura di uomo e costruita su vera libertà e liberante solidarietà.
La nostra Chiesa cosentina-bisignanese è ricca di storia.
Ha avuto nel suo grembo uomini di valenza eccezionale ed universale. Mi basti citare San Francesco di Paola, Sant’Ugolino da Cerisano, i Beati Umile da Bisignano, Angelo d’Acri e Nicola da Longobardi, l’Abate Gioacchino da Fiore e tanti altri.
Questi nostri araldi di santità rivelano il terreno umano e credente della nostra terra. Assieme a loro vedo figure straordinarie di umanità, pensatori, uomini e donne di Chiesa altamente o silenziosamente impegnati nel servizio dell’uomo.
In questo secolo che si sta chiudendo ricordo le Venerabili Elena Aiello e Maria Teresa De Vincenti, i Venerabili Francesco Maria Greco e Bernardo Clausi, il Decano monsignor Gaetano Mauro fondatore degli Ardorini, don Carlo De Cardona, don Francesco Miceli e la sorella Elisa.
Anche su questo fronte, questi fratelli e sorelle, se così possiamo dire "appaiono" come eccezionalità; ma, nella nostra Chiesa c’è un fondo di Sanità morale, di forte ancoraggio alla fede che ci commuove e ci consola.
La nostra Chiesa ha, ancora, e ne sono convinto, tanta santità nascosta.
C’è il silenzio sofferto ed oblato di sante madri e padri, c’è la fatica umile e paziente di tanti lavoratori, la ricerca sincera e generosa di tanti giovani, il lavoro costante e nascosto di tanti preti, il fiorire di tante vocazioni.
C’è una vastità di aggregazioni ecclesiali, tanta buona volontà nei laici. Si propone, anche, il diaconato permanente.
Ma, assieme a questa positività è giusto guardare anche gli aspetti carenti e su cui convertirci nella luce del Grande Giubileo che stiamo celebrando.

22. I bisogni urgenti sono quattro:

- un forte recupero della "memoria" come collante di unità e d’impegno. Noi veniamo da una eterogeneità storica ed abbiamo, ancora, diversità memoriale.
La nostra Arcidiocesi è la fusione con una parte della già diocesi di Tropea e con quella di Bisignano. Certamente, poi, altro è la zona marina ed altro quella montana. Non c’è sinergia vera tra centro e periferia, tra la città capoluogo ed i vari e tanti poli che hanno un loro ethos. C’è da recuperare la "memoria" e porre le premesse di un cammino comune per il futuro;
- Una purificazione della fede onde non si confonda sentimento con verità, rifugi emotivi, festaioli, con l’evento liberante della Pasqua, una chiarificazione di fondo tra devozioni, tradizionalismi e libertà in Cristo;

- Un bisogno di unità dal profondo e nel concreto, tra tutti i membri del popolo di Dio ed all’interno di ogni vocazione. I preti devono essere di più presbiterio, i religiosi più profeti non singolarmente ma come "consacrati nell’unità", i movimenti o gruppi più aperti all’ascolto ed alla integrazione; le famiglie più "chiesa domestica" e "soggetti sociali";

- Una fede che non sia né intimistica né terrenistica ma talmente chiara che si traduca in impegno per l’uomo, che saldi interiorità e socialità, fede e storia, città celeste e città terrena, in una parola che esca dalle sagrestie ed entri nel mondo, nel vissuto dell’uomo, che sia compagnia della e nella storia, che sappia parlar nei tanti areopaghi umani.

Un grande progetto che può essere riassunto in una espressione pronunziata dal Papa Giovanni Paolo II nella sua visita in Calabria (ottobre 1984) e che ha preso da un nostro illustre condiocesano, Monsignor Antonio Lanza, Arcivescovo di Reggio Calabria, che nella lettera collettiva dell’Episcopato Meridionale, da lui redatta sulla questione sociale nel Mezzogiorno, scriveva che nel sud abbiamo bisogno di una "religione più pura e di una giustizia più vera".

Aprirsi ad una soggettività sociale

23. Guardando la realtà socio-politica del cosentino nel territorio della nostra Arcidiocesi, a cui mi rivolgo, si può annotare che non c’è omogeneità di progettualità per uno sviluppo "sostenibile" ed integrale dell’uomo.
C’è, quindi, frammentazione ma, soprattutto, nella nostra gente si nota un certo smarrimento, un tipico fatalismo e una rassegnazione, che sono, in fondo, abdicazioni al protagonismo, all’essere convintamene e solidarmente "cittadini".
Questo ha diverse esplicazioni.
Osservavo che la nostra Arcidiocesi non ha memoria comune.
Non ha, neppure, un ethos comune.
Ritengo, da esperienza pastorale, che ci siano per lo meno queste aree diversificate: la città di Cosenza, con la vicina Rende; l’area marina, le aree interne di matrice rurale ed, in un certo senso, chiuse nella propria identità, senza interazioni; l’area silana con una sua identità ma con la sua problematica e l’area del Savuto.
Ognuna di queste aree ha una sua storia, ha sue radici, i suoi condizionamenti ed, in fondo, prospettive che, in alcuni aspetti, sono componibili ed orientabili a quello che, oggi, dagli esperti, è chiamato lo "sviluppo del territorio".
Anche per la nostra Arcidiocesi ritengo possa dirsi quanto affermavo della Calabria nel Terzo Convegno Ecclesiale Regionale di Paola - 29 ottobre/1 novembre 1997 - (Cfr Atti, editoriale Progetto 2000, Cosenza, 1998, p. 141).
Sostenevo che la Calabria, certamente, risente del transito culturale, della gestione epocale dell’oggi che, come rileva il Concilio nella Gaudium et Spes ha un "complesso formidabile di nuovi problemi che stimola ad analisi e sintesi nuove" (GS 5).
La Calabria, oggi, è come sospesa.
Sta consumando un passaggio da una cultura primaria, tutto sommato a misura d’uomo, verso l’incerto, l’indefinito.
Questo comporta una crisi d’identità che non solo la livella, omologandola, ma la snatura rendendola dipendente sia nel suo sviluppo ma anche nella verniciatura di culture importate, sovrapposte.
Si rivela, comunque, una frammentazione su tutti i fronti. Non c’è coagulo su progettualità, identità, futuro.
Si evidenzia, per questo, una diffusa sfiducia ma anche un bisogno intenso di risposte, di senso. Ma, pare, comunque, che si possa dire che più che smarrita la Calabria sia in attesa.
Per aprire varchi e cammini, occorre passare da una cultura statica a dinamismi nuovi, da schemi stereopati e diffusi di concezione del potere ad un sussulto di socialità partecipata e liberata da forti condizionamenti, da atteggiamenti di attesa ad una cultura dell’impresa, della iniziativa, dai non pochi ghetti ambientali, politici, ad una solidarietà convinta ed arricchente".
Quanto suddetto vale per i soggetti sociali quali la famiglia, la scuola, la parrocchia, l’associazionismo, il volontariato, le istituzioni.
Vale, anche, e lo vedremo nel capitolo seguente per le realtà contestuali. Noi tratteremo delle più significative di esse, quali sono, la cultura, la politica, l’economia, la multimedialità.
Preme, quindi, avviare una interazione seria, costante tra le soggettività sociali e gli organismi dirigenziali della politica e quelli orientati, e talvolta disorientati, dell’economia e della comunicazione sociale.
Il transito dall’assistenzialismo passivo al protagonismo interagente, dalla cultura dell’attesa inutile a quella della iniziativa possibile può avvenire attraverso una maturazione e sinergia dei soggetti sociali.

La famiglia

24. Bisogna avviare un serio processo educativo. La famiglia che, pure, è un nostro grande valore, non può restare "chiusa" né, come oggi appare, "frustrata".
Essa è chiamata ad essere, secondo una felice intuinzione di E. Mounier, presente e desta al crocevia della storia per "interiorizzare il pubblico e socializzare il privato".
Al suo interno deve portare l’uomo nuovo, non omologato alle pressioni di un ethos massificante, ludico, evasivo ma capace di interrompere i circuiti della degenerazione morale e sociale.
L’educazione che la famiglia deve saper offrire è educazione alla vita, all’apertura ai valori, al senso della crescita e conquista e non della comoda fruizione di tutto.
Ma la famiglia non è scuola di vita in senso intimistico; deve, invece, divenire "soggetto sociale" onde si avvii per essa e per mezzo di essa una sana e concreta politica.
La famiglia appare la vera cenerentola della politica mentre dovrebbe esserne matrice e termine.
La famiglia "cristiana" poi, che è "Sacramento di Comunione" deve significare in miniatura il volto della "societas" illuminata nella opacità della "societas alienante".
Da una parte dovrebbe custodire la valorialità degli autentici rapporti ed aprirsi all’affido, all’adozione, all’accoglienza, associandosi con gli altri nuclei familiari per una politica per l’uomo.
Nella nostra Arcidiocesi questo è un potenziale "sopito", "sommerso" e, ne sono certo, che se emergesse, abbatterebbe tanti potentati, contrapponendosi, tra l’altro, a dei clans familistici che, quà e là, gestiscono a loro utile, la politica e, non di rado, usano le istituzioni.

La scuola

25. Altro luogo creativo o, purtroppo, distruttivo di socialità è la scuola. Già Niccolò Tommaseo sentiva di affermare che "la scuola se non è un tempio è una tana".
Ovviamente, non si tratta di radicalizzare la realtà.
Oggi, la scuola ha le sue difficoltà tra le quali emergono queste due: l’essere emarginata dalla politica che conta e dover essere "educante" in una società, per molti versi, diseducante.
Sono convinto, comunque, come ritengo sia nella coscienza di tutti, che la scuola ha un compito ineludibile nella costruzione di una nuova società.
La scuola impegna tutti i soggetti operanti in essa acchè divenga grembo di uomini nuovi, veri, liberi.
I giovani devono accostarla con rispetto in quanto è madre della loro crescita. I docenti non possono esaurire il loro compito nel trasmettere nozioni, nell’assolvimento di programmi ma nell’accompagnamento globale di umanità in formazione.
I giovani, oggi, sono soli. Lamentano di non avere modelli né guide.
Urge che la scuola sia spazio di relazioni interpersonali, per cui i giovani si sentano "ascoltati", "corretti" e "guidati".
La scuola, così, può essere la "coscienza critica" della società, la verifica di ogni novità, la purificazione di ogni stortura etica.
C’è una profonda interazione tra scuola e vita, tra scuola e società. Ecco perché bisogna puntare ad una scuola dalla e per la società.
Il pretestuoso conflitto tra "scuola pubblica" e quella che è chiamata "scuola privata" è molto ambiguo.
E' bene precisare, anzitutto, che ogni scuola, quando è seria, è pubblica, cioè ha un risvolto sociale. Conta qualificare diversamente la denominazione della scuola.
Invece che "pubblica" e "privata" è bene distinguere come "scuola statale" e "scuola libera".
E' ovvio, noi siamo contro lo statalismo e contro l’anarchismo.
Noi cattolici, non facciamo battaglie di rivendicazionismo utilitaristico ma per un servizio all’uomo.
Il problema sta alla radice. Ogni scuola dovrebbe essere "personalizzante" con metodi educativi nuovi, propositivi, dinamicamente verificati.
Per la scuola "libera" e per quanto ci compete "cattolica", conta molto che essa sappia essere, al passo dei tempi; che sappia veicolare i grandi ed irrinunciabili valori cristiani in intelligente "mediazione culturale" ed, infine, che, nella prossima configurazione dei "nuovi cicli" sappia essere propositiva, inventiva e, perché no, provocatrice.
Il volto delle "due città" si specchia in ogni aula scolastica.
Lì si vede quale fede c’è nell’uomo ed a quale uomo.
Nel nostro comprensorio, notando confortevolmente, tante scuole serie e tanti sforzi educativi, emerge, anche, un’esigenza che la scuola sia in continua sintonia e sinergia con il "sociale".
In essa si deve leggere il "sociale" nelle sue crisi di fondo, devono essere assunte le attese e purificate le devianze. In fondo appare il bisogno di una scuola "critica", che, cioè, per essere sacrario di verità e di libertà, setacci la valorialità dalle devianze, le profondità dalle sciattezze.
Una scuola, cristianamente ispirata, non è un luogo pietistico o moralistico ma una palestra dove il vangelo, annunziato in un cifrario umano, sia generatore della libertà che è figlia della verità (Cfr Gv 8, 32).

La parrocchia

26. Lo spazio più espressivo e, in un certo senso, più completo dove il cristiano si forma, si aggrega, si apre al mondo è la parrocchia.
La parrocchia che resiste al tempo e che è sempre più nuova, che deve essere sempre più vera, è la chiesa in un territorio, a "misura d’uomo". In essa, come in una famiglia, ci si riconosce l’un l’altro. Ci si chiama per nome, nel nome di Gesù, il Nome fuori del quale non è dato all’uomo essere salvi (Cfr Atti 4,12).
Essere riconosciuti e riconoscere è, in fondo, trovare la propria identità. Questa è la radice di ogni comunione e di ogni socialità.
La parrocchia intensivamente, se non estensivamente, celebra "tutto il mistero" di Cristo, il Signore.
E' luogo della Parola, fonte e cemento della comunità credente. Mentre annunzia, evangelizza, la parrocchia rivive ciò che proclama.
E', infatti, ancora il luogo dei "Santi Misteri", cioè della celebrazione dei sacramenti, dei quali vertice è l’Eucaristia, memoriale della Pasqua del Signore. Senza i sacramenti, eventi salvifici, la comunità credente correrebbe il rischio di farsi un aggregazione concettuale.
Il Cristianesimo non è un idea, e quindi un ideologia; è, invece, un evento. é il “Verbo fatto carne”, entrato, operante e trasfigurante la vicenda umana, personale e comunitaria, di un territorio e, di riflesso incidente nella storia in tutti la sua ampiezza.
La parrocchia annuncia, celebra, ma deve, soprattutto mostrare ciò che crede e che compie nella liturgia. La parrocchia, come d’altronde, tutta la Chiesa non predica con ciò che dice ma con ciò che è e con ciò che fa.
La testimonianza è la vitale esperienza di Cristo che ci ha detto: "Mi sarete testimoni sino agli estremi confini della terra" (At 1,8) che non vuol dire solamente una estensione missionaria dal punto di vista "locativa, ma come totalità ed integralità dell’umano".
La parrocchia, come d’altronde la Chiesa, non esiste per se stessa. Non gira su se stessa, non si gingilla in gratificazioni spiritualistiche né si chiude come una "rocca di difesa" in atteggiamenti polemici al mondo. Al contrario il suo areopago, e perché no, la sua voce, è la storia del proprio territorio e del mondo intero. "Andate in tutto il mondo ..." (Mc 16,15) è il comando e la spinta che ci ha dato e che ci dà Gesù, unico Salvatore di tutta la storia.
Da questo ridiscende che la parrocchia deve essere aperta al sociale. Il documento della CEI (Chiesa italiana e Mezzogiorno. Sviluppo nella solidarietà, 18.10.1989 n. 34) afferma: "La parrocchia non può ridursi solo al culto, e tanto meno all’adempimento burocratico delle varie pratiche. Bisogna che nasca una parrocchia comunità missionaria di credenti, che si ponga come "soggetto sociale" nel proprio territorio. Se la parrocchia è la chiesa posta in mezzo alle case degli uomini, essa vive ed opera profondamente inserita nella società umana e intimamente solidale con le sue aspirazioni e i suoi drammi. Deve, in una parola, essere la casa aperta a tutti e al servizio di tutti, o come amava dire Giovanni XXIII, la fontana del villaggio alla quale tutti ricorrono per la loro sete".
La parrocchia, in nome di Cristo, venuto per l’amore fatta giustizia e per la giustizia fatta amore, deve incontrare l’uomo nel suo vissuto, o come si dice "in situazione". Condivide dolori e gioie, ne assume i problemi, li discerne ed opera per essi. Non ha solamente un compito di accostamento all’uomo ma di redenzione, come animazione e liberazione, dei contesti, delle strutture dove l’uomo vive, soffre, e dove, spesso è offeso, manipolato.
Questo compito è di tutta la comunità e, ritengo, sia la grande conversione che dobbiamo fare.
Non si accosta, né si vive la parrocchialità per fuggire dal mondo o per guardarlo criticamente ma per entrare, insieme, in profondità, in signo crucis, nella vicenda umana.
La parrocchia è così una miniatura, sempre perfezionabile, della "nuova città", in quanto è comunità condividente, libera, povera e liberante. Una parrocchia, più parrocchie, se sono vere, serie, possono gestare una "nuova città".
Al contrario la parrocchia rifugio, intimista, evasiva, disimpegnata, impaurita rivela una evangelizzazione deficitaria ed una immaturità comunitaria ed uno snaturamento del vangelo.
La povertà si esprime per la società sia in forme di volontariato sia come voce profetica e nell’azione lievitante di ciascuno e di tutti.
Il volontariato è da incoraggiare. Non deve essere colto in contrapposizione al dovuto, alla giustizia. Ed in questo senso è il "lievito nuovo" nella "societas" del formalismo, del legalismo, delle lentezze. La parrocchia può e sa farsi, anche, promotrice di iniziative sociali sul piano educativo ed assistenziale.
Deve educare a questo, esprimersi in questo, essere segno di una "nuova città" e lievito per la sua maturazione.
In questa prospettiva si rivela necessario considerare il valore dell’associazionismo, dei vari gruppi. Le aggregazioni ecclesiali che sono dono dello spirito non sono per frantumare la parrocchia ma per animarla. Non si può tradurre la parrocchia nell’esperienza di un gruppo; deve, invece, essere il contrario. La diversità, poi, dei vari gruppi non deve mostrare una parrocchia "caleidoscopio" dove ci sono tante tessere che non danno mai una vera figurazione di essa.
La diversità dei vari gruppi, in fondo, è grazia. Se sottolinea un’aspetto, come ad esesempio la spiritualità, la catechizzazione, il servizio ecc... Questo lo è per tutti e perché l’unica missione viva della ricchezza di ogni esperienza e sia, per l’apporto di ogni gruppo, missionariamente integrale.
Un gruppo ecclesiale non può essere frammento di un vaso spezzato ma voce per l’armonia di un solo coro.
Così una parrocchia unita nella missione, illuminata dalla Parola, nutrita dai sacramenti, si presenta, secondo l’immagine di Gesù, come la "città collocata sopra un monte" (Mt 5,14) ed è stimolo alla "città nuova, vera, dentro la complessità della storia e la "babelicità" dei comportamenti o l’aridità del legalismo.
Il credente opera e soffre perché sa che "la lettera uccide, lo Spirito dà vita" (2 Cor 3,6).

Capitolo IV: I contesti più appariscenti

"Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono" 
(1 Ts 5,21)
"I miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie"
 
(Is 55,8)

Gli ambiti dell’evangelizzazione

27. Dopo aver considerato i soggetti sociali più importanti, guardiamo, ora, i principali terreni della mediazione evangelizzatrice nella città umana.
Sono terreni su cui possono allignare vari umanesimi, a secondo dei semi che vengono posti. La storia non è amorfa ma è figlia della libertà dell’uomo e si organizza a secondo dell’impianto valoriale che l’uomo le dona.
La storia non è fatalismo né un contenitore che preesiste all’uomo. La storia s’incanala a seconda delle nostre scelte, del logos che la illumina e dell’etica che la muove.
Per una analisi, pur se sommaria, di orientamenti, esaminiamo, quindi nel nostro contesto di umanesimo contemporaneo e meridionale-cosentino, quattro ambiti focali e vitali: la cultura, la politica, l’economia, la multimedialità, onde potere, dopo aver vista la situazione alla luce di un archetipo cristiano, indicare, nel capitolo seguente, le nostre scelte testimoniali ed operative.

La cultura

28. Il Concilio Vaticano II (GS n. 53) intende per "cultura" tutti quei "mezzi con i quali l’uomo affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza ed il lavoro; rende più umana la vita sociale sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andare del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano".
In questa articolata definizione la cultura è vista come coltivazione (donde il nome) di tutte le sane potenzialità umane per lo sviluppo del cosmo, per la crescita dell’ethos e dell’organizzazione sociale onde umanizzare la vita sociale ed attraverso la trasmissione delle grandi esperienze ed aspirazioni spirituali far progredire tutto il genere umano.
Ogni cultura presuppone una visione dell’uomo e del cosmo ed esige un impegno per un impianto di consequenziale trasformazione o sviluppo.
Per questo in un tempo, quale il nostro, di grandi mobilità e trasformazioni sia strutturali che concettuali la Chiesa è particolarmente attenta "ad evangelizzare le culture e ad inculturare la fede".
La fede, di per sé, non è una cultura ma si esprime dentro determinate culture e può essere generatrice di cultura. Per questo la Chiesa italiana parla di un "progetto culturale cristianamente illuminato".
Paolo VI, nell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi (1975) nn.18-19, relativamente alla suddetta evangelizzazione delle culture ed inculturazione della fede, afferma: "La Chiesa evangelizza allorquando, in virtù della sola potenza divina del Messaggio che essa proclama (Cfr Rom 1,16; 1Cor 1, 18; 2,4) cerca di convertire la coscienza personale ed insieme collettiva degli uomini, l’attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l’ambiente concreto loro propri. Strati dell’umanità che si trasformano: per la Chiesa non si tratta di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti d’interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo così: occorre evangelizzare, non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici, la cultura e le culture dell’uomo (...).
La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu per anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture".
Oggi, la divaricazione culturale si situa su questi due fronti: trascendenza o immanenza (cioè con Dio e fuori di Dio), autosufficienza di salvezza dell’uomo per i tanti mezzi che ha conquistato e conquisterà o accoglienza libera ed aperta dell’Evento salvifico che è l’ingresso del Verbo di Dio nella storia umana e che le ha impresso cammino e futuro radicalmente nuovi.
Questi sono i chiodi della croce culturale, particolarmente oggi.
L’uomo ha un Principio, un Fondamento, un Approdo o è chiuso nella sua solitudine o peggio, nella sua presunzione?
L’uomo è lo stesso nel suo essere e nel suo agire, nella sua progettualità e nella sua attuazione se c’è o non c’è Dio?
Ma, storicamente, in un tempo di "idolatrie" più che di ateismo conta chiarire se è possibile una convivenza umana veritiera fuori di Dio, se è possibile avere un etica, come si dice, "laica" e su quale fondamento.
Su questo snodo che configura l’ethos nella storia puntualizzo alcuni aspetti.
Mentre la cultura egemone, oggi, relega Dio, se c’è, ad un opinione soggettiva non cogliendolo incidente nell’ethos comune, tuttavia il Dio "evaso" o "relegato" nel suo mondo non significa che non è il Dio atteso.

Il ritorno del sacro

29. Tutti colgono un diffuso ritorno al "religioso" a cui dobbiamo essere attenti.
Il ritorno al "religioso", o al "sacro" non è, ancora, l’approdo alla fede, anche se può esserne una premessa. C’è, ancora, molta inquietudine, incertezza, nel vivere d’oggi e c’è un postulato di punti fermi, certi.
La stessa assenza di Dio si fa, misteriosamente, anche se incompiutamente, una sua presenza. Se pure c’è fame di Dio c’è, tuttavia, emergente una "riduttività" del suo mistero e della sua presenza.
E su questo punto noi Chiesa dobbiamo essere particolarmente vigili per non perdersi in una lettura "gnostica", orizzontale di Dio, che oggi, è la cultura dei cosiddetti "valori" che appartengono solo alla razionalità e non all’accoglienza della Parola che ci è data dall’Alto e che sola fonda e genera i veri valori.
Il Dio di Gesù non è una proiezione della nostra razionalità. Dal Dio inconoscibile, dal Dio assimilato siamo arrivati sottilmente a rovesciarne il mistero per cui è l’uomo che si crea Dio.
L’esigenza di un etica, oggi, sottilmente, fa di Dio una proiezione dell’uomo, non è un Tu, o meglio il "Tu", il Padre, che parla, agisce, salva.
E', al massimo, il Dio "idea", non il "Dio della storia" evento. Questo snaturamento avviene, ad esempio, nella New-age, nelle filosofie esoteriche, come ad esempio quella razionalistico-massonica, che scadono in un relativismo storico, che smontando il soprannaturale visto come "dommatismo", e non come è, Verità data, trascendente, trovano nella forza del razionale o nell’esigenza dell’inconscio un’idea di valorialità, proiezione dell’io o frutto del divenire storico.
Ma lo snaturamento del Dio trascendente ed operante nella storia c’è anche, in non pochi di quanti si dicono credenti, che hanno, perché non ben catechizzati, piuttosto una religione della paura, un atteggiamento fideistico di "abbandono immaturo" che non salda libertà e verità, devozione e fede, espressività e vita.
Lo stesso Concilio Vaticano II rivela con coraggio e chiarezza che "nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, in quanto per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione" (GS n. 19).
Questo c’impegna ad una seria evangelizzazione.
In un tempo serio non possiamo restare nel vago, nell’indefinito, alle vernici della fede.
Non possiamo supporre i cristiani, dobbiamo non solo battezzare ma formare all’autentica fede.
Il presupposto di un impegno culturale, cristianamente illuminato, è una maturità di fede, pensata, vissuta, testimoniata. Altrimenti restiamo fuori della storia, assenti ingiustificati o al massimo, presenti ipocriti, capaci solo di denunzia moralistica ed immersi nel doppio passo di un vago sentimento religioso e di un adattamento al mondo, alle mode di turno, al servizio dei due padroni (Cfr Mt 6,24).
Noi ben vediamo sotto i nostri occhi come il vuoto di Dio ne generi dei sostituti o dei surrogati.
La conseguenza della crisi di Dio è l’idolatria.
Così, dicevo (Cfr n. 15), si accentua la cultura dell’avere, del pragmatico, dell’utilitarismo, della convenienza, dell’immaginazione, del gioco emotivo-erotico, della cronaca senza verità, della suggestione senza genuina compassione.

Un bisogno di etica

30. E tuttavia l’uomo ha bisogno di etica. Domandiamoci: è possibile un’etica senza Dio?
Sento di affermare che l’esigenza è già un silenzioso e misterioso richiamo di Dio, ma che, da parte dell’uomo, non c’è riferimento se non si esce dal proprio "io", dalla propria autosufficienza. Bisogna trascendersi. Questo è, tra l’altro, il senso della parola di Gesù: "Chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà" (Mt 10,39).
Certamente non dobbiamo entrare nel vuoto della speranza, nella prassi acritica dello sfascio.
Come umili credenti sappiamo che Dio agisce nella storia, attende l’uomo, si manifesta secondo la sua iniziativa gratuita nel cuore di ognuno e nelle vicende di tutti.
C’è da osservare, anche, che non siamo in una cultura primitiva ma ormai evoluta e dai tanti postulati e che viviamo in una cultura post-cristiana. Per questo, tanti "valori" cristiani anche se non evidenziati come tali, sono assimilati e da tutti.
Anche il nostro impegno sul piano culturale, da credenti, ci deve trovare impegnati a dare le ragioni di fondo a tanti postulati dell’uomo contemporaneo e a lavorare, offrendo il fondamento, alle istanze comuni che remotamente sono frutto della civiltà cristiana. Questi postulati sono: il rispetto della persona umana e dei suoi diritti, le attenzioni alla vita, alla bioetica, alla famiglia ed alla sua naturalità, alla solidarietà tra gli uomini e tra i popoli, alla giustizia sociale ed alla pace.
Assieme ad una grande "speranza" nel Dio che viene anche nei ruoli e nelle angosce dell’uomo e che ha "vie che non sono le nostre" (Is 55,9) dobbiamo essere gli uomini che, in forza della fede, fondano tutto quanto, oggi, è declamato ma non è fondato e quindi, continuamente, compromesso.
Così dobbiamo riferire continuamente la libertà a verità; la tecnologia alla sapienza, l’uomo della fiction o della virtualità all’uomo della concretezza e della comunionalità.
Certo è un impegno di pazienza. Spesso possiamo sentirci emarginati. Ma, il Mysterium Crucis è la via dell’autentica semina, nel segreto dell’attesa.
La vicenda storica ha tempi lunghi e vie misteriose. Mentre sembriamo sconfitti, se siamo veri, è, allora, che il seme posto nel cuore della nostra storia lavora sotterra e si aprirà a vita nuova.
In questo senso ed in questa prospettiva è illuminante quanto afferma il Concilio Vaticano II: "La Buona novella di Cristo rinnova continuamente la vita e la cultura dell’uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori ed i mali, derivanti della sempre minacciosa seduzione del peccato. Continuamente purifica ed eleva la moralità dei popoli, con la ricchezza soprannaturale feconda dall’interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità spirituali e le doti di ciascun popolo. In tal modo la Chiesa, compiendo la sua missione, già con questo stesso fatto stimola e dà il suo contributo alla cultura umana e sociale, e mediante la sua azione, anche liturgica, educa l’uomo alla libertà interiore" (GS n. 58).
Se non siamo incidenti, nella pazienza e nella profondità della storia, è segno che non siamo veri.
Per questo, "progetto culturale cristianamente ispirato" significa verità ed integralità nell’evangelizzazione, significa conversione e presenza, senza pretese, nell’umiltà, nel provocante servizio di una profezia chiara e coraggiosa.
E' molto importante capire che tale impegno non è riservato a quanti sono capaci e chiamati alla cultura cosiddetta "alta" cioè da specialisti o tecnici ma è vocazione di tutti.
Tutti, vivendo ed operando secondo verità, creiamo cultura nuova.
Anche una mamma, educando secondo un progetto che discende da una visione dell’uomo fa cultura secondo il senso comune.
A questo livello i genitori, gli insegnanti, i catechisti, i presbiteri e così via sono facitori di cultura.
Questa si attua trasmettendo archetipi e motivazioni comportamentali e, nello spicciolo, essendo capaci di "correzione" sulle tante e diffuse devianze, mostrando dentro la continua e stillicida proposta disgregante, il rovescio positivo. La parola vera è medicina ad ogni patologia.
Per questo, diffusamente, non si tratta di trasmettere tanto la cultura dotta, concettuale ma quella del vissuto, della sapienza.
Noi, nel Sud, abbiamo un impianto sapienziale della vita.
Trasmettendolo con esso saremo "correttori" di un ethos falso e generatori di cultura sostanziale non manieristica ma di valenza vitale.
Su queste strade potrà avvenire che i semplici possono raddrizzare i cammini dell’uomo. Coglieremo così, attuandolo quanto proclamano i salmi:
"I giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti
Anche il tuo servo in essi è istruito
Per chi li osserva è grande il profitto"
(Sal 19,10-12).
"Perché tu salvi il popolo degli umili
ma abbassi gli occhi dei superbi"
(Sal 18,28).

La politica

31. Siamo tutti destinatari e protagonisti della politica. So bene che questa affermazione può creare reazione.
Diffusamente si ritiene che la politica è sporca; che quelli che la fanno operano per i loro affari, per avere potere.
Non è sempre così. Comunque, questa, pur se diffusa, patologia, dove c’è, è colpa di tutti e, certamente, non disimpegna anzi impegna di più per la sanità della politica. Giovanni Paolo II, nella Christifideles laici afferma: "Per animare cristianamente l’ordine temporale, nel senso di servire la persona e la società, i fedeli laici non possono affatto abdicare alla partecipazione della ‘politica’" (n. 42).
E la definisce così: "la molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune. Tutti e ciascuno hanno diritto e dovere di partecipare alla politica, sia pure con diversità e complementarietà di forme, livelli e responsabilità".
E prosegue: "Le accuse di arrivismo, di idolatria del potere, di egoismo e di corruzione che non infrequentemente vengono rivolte agli uomini del governo, del parlamento, della classe dominante, del partito politico; come pure l’opinione non poco diffusa che la politica sia un luogo di necessario pericolo morale, non giustificano minimamente né lo scetticismo né l’assenteismo dei cristiani per la cosa pubblica".
Ritengo che a livello storico siamo tutti d’accordo.
Quello che mi preme dire, specie per noi che veniamo ed, ancora, diffusamente rimaniamo, nella politica clientelare, nel culto di un leader, è, in concreto come dobbiamo agire, a riguardo.

Offro alcune indicazioni pratiche:

- Dobbiamo recuperare fiducia nella politica non confondendo la politica con i "partiti" o con alcuni uomini che la fanno, talvolta, interessatamente. I partiti, comunque, sono per la politica, ma la politica non si esaurisce in essi.
- Fare politica significa avere una visione del sociale e darsi uno spazio, o nel fare cultura, o nel volontariato, o nell’associazionismo sociale e nella utilizzazione retta di tutte le potenzialità che la democrazia offre.
- Ogni comunità credente deve essere capace di un "discernimento comunitario" sul cammino o sull’involuzione della politica; sentendosi, quindi, non spettatori ma coagenti. Una comunità credente, se è seria, può essere "coscienza critica" della politica locale.
- L’uomo è sociale, cioè politico, quando non si limita a guardare, a criticare ma quando sa, intelligentemente, pensare la storia del mondo, e più concretamente, della propria città, del proprio paese e proporre progetti di fondo. Il credente interpella continuamente l’uomo politico perché risponda alla sua vocazione, la ricarichi e la esprima per l’autentico bene comune.
- La Chiesa deve formare uomini che, con scelta libera, entrino nella politica attiva. Bisogna, a riguardo, incoraggiare i giovani.
- Una parola bisogna dirla sui partiti: attualmente nel nostro paese c’è un’inflazione dei partiti. Il moltiplicarsi dei partiti potrebbe avere una valenza democratica ma, spesso, indica carenza di linee omogenee e di prospettiva. La democrazia, nel nostro paese, è tormentata e, forse, malata.
- Deve essere scritta, senza faziosità né con i ricorrenti luoghi comuni, la storia della presenza dei cattolici nella vita politica del nostro paese.
- Nessuno, oggi, sogna più un partito unico d’ispirazione cristiana. E questo può essere positivo. Non conta, anzi, forse non può esserci un partito "cristiano"; conta, invece, che ci siano dei veri cristiani in politica.
- Il cristiano in politica oltre a sperare per il bene comune, in spirito di servizio, è attento alla difesa dei grandi valori della persona umana, della famiglia, della vita, della solidarietà, della giustizia e della pace.
- Nel cosentino, dobbiamo uscire dalla passività ed essere soggetti attivi e corresponsabili della nostra storia. Le parrocchie, pur non confondendosi con la comunità politica, non si nascondano ma con il proprio specifico si sentano impegnati a costruire un ordine sociale, valido. Lo specifico della chiesa è formare coscienze, preparare i giovani, testimoniare giustizia e legalità, pregare per il bene comune, essere voce profetica, sostenere chi non ha voce e proporre a tutti uno spirito di servizio che contrapponga nella "città dell’intrigo" modelli di impegno per l’uomo, per la vera libertà e per una autentica giustizia.
- La chiesa contempla ed opera per la "città nuova" che è generata ed animata non dalla sfida di Babele ma dall’accoglienza della Pentecoste.

L’Economia

32. Dove le "due città" evidenziano particolarmente la loro diversità e dove si divaricano decisamente è nello spazio dell’economia.
Il danaro come idolo possiamo dire, è il sacramento della città cainica; il mercato, impazzito, quando diviene il primo e l’ultimo pathos del vivere sociale è la missionarietà babelica.
Per i due volti della stessa "città umana" i modelli sono molto chiari.
Caino, avaro nel donare, uccide per la gelosia il fratello Abele che "dava" con generosità (Gn 4,3-4).
Nella città, illuminata dallo Spirito di Dio si accende un segno che rovescia l’idolo del "vitello d’oro" ed indica una via, purtroppo raramente vissuta, per la storia del mondo.
Il libro degli Atti afferma: "La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno" (At 4,32.34,35).
Il Giubileo biblico si esprimeva, concretamente, con la riconciliazione fraterna restituendo la terra a quelli che, in qualsiasi modo, l’avevano perduta. L’idea forza dell’annunzio biblico e giubilare era questa: tutto è per tutti.
Dice il Levitico: "Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini. Perciò, in tutto il paese che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per quanto riguarda il suolo" (Lv 25, 23-24).
E nel Deuteronomio: "Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città del paese che il Signore tuo Dio ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al suo fratello bisognoso" (Dt 15,7).
Gesù, modello dell’uomo nuovo e della "novità" della vita in tutti i suoi volti, anche quello sociale, nacque, visse, morì da povero. Fu vicino, con tenerezza commovente ai disgraziati della terra. Non aveva case, mentre gli uccelli hanno i loro nidi e le volpi le loro tane (Cfr Mt 7,26).
E ci mostrò, con chiarezza sconcertante, gli squilibri tra gli uomini derivanti dall’idolatria del danaro. Basta rileggere attentamente la parabola del ricco cattivo e del povero Lazzaro (Lc 16, 19-31).
Disse ai ricchi che si fondavano sul loro avere: "Guai a voi ricchi, perché avete già la vostra consolazione" (Lc 6,24).
E parlando ai suoi discepoli precisò: "In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli" (Mt 19,24).
E con molta chiarezza divaricò "le due città": "Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e a mammona (il danaro)" (Lc 16,13).
Ci insegnò con chiarezza che la vita non dipende dall’abbondanza dei beni (Cfr Lc 12,15) che la vita vale più del cibo (Cfr Mt 7,25) che non dobbiamo affannarci per il domani (Cfr Mt 7,34).
Come cogliere questo volto del Vangelo, oggi, come tradurlo nella società del comsumismo, della globalizzazione?
Ritengo su un triplice fronte:

a) in una testimonianza da donare;
b) in alcuni gesti da compiere;
c) in una profezia da proclamare "annunziando la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna" (2 Tim 4,2).

A. La testimonianza da donare è in un volto di Chiesa "povera" che non porta borsa né bisaccia (Cfr Lc 10,4).
Nelle nostre aree del cosentino, come d’altronde, in tutta la Calabria, la Chiesa si porta un retaggio, talvolta anche fondato, di essersi appoggiata ai ricchi.
Sento di affermare che sarebbe un bel segno giubilare se, come frutto dell’impegno di tutti, in Curia, nelle parrocchie, nessuno potesse più dire che, nei luoghi di Chiesa, si cercano soldi, inopportunamente, cioè fuori di una maturazione comunionale e di serie intenzioni di carità, di culto, di pastorale, di legittimo sostentamento del clero. (Cfr C.I.C., can. 222 § 1).
Nelle chiese dove c’è rumore di soldi, non c’è il silenzio del cuore per ascoltare Dio.

B. Tutti i credenti dovranno uscire dalla cultura dello spreco.
Non è cristiano cercare il di più, oltre il necessario. Coltivarsi smisuratamente sul piano dei comfort, del lusso, non è mostrare l’icona di Cristo povero.
Una rivoluzione, a riguardo, sarebbe che i veri credenti ci sapessimo liberare dal superfluo.
C’è una educazione alla solidarietà con chi soffre che inizia da bambini orientando al rispetto di tutto ed al superamento dell’ "usa e getta".
Non so se l’ethos dei telefonini, delle più macchine in una famiglia, della doppia o tripla casa, e spesso sfitta, sia sempre una testimonianza di libertà evangelica.
Chi sa mostrare che la sazietà dell’uomo è Dio, che le vere ricchezze sono nello spirito compie anche dei gesti che sono creativi di nuova cultura.
E' doveroso così pensare ai poveri, collaborare a quanto è organizzato per problemi seri: ad esempio l’antiusura, l’aiuto in momenti di grandi sciagure, di interventi urgenti, quali quelli agli immigrati che sbarcano nella nostra terra e bussano alla nostra umanità.
Il credente custode sa che riavrà quanto dona.
Gesù ci ha detto: "Date e vi sarà dato" (Lc 6, 38).
Conta, allora, educarsi alla cultura del dono, del volontariato, del dono degli organi post-mortem, aprirsi ad un intelligente servizio civile, alla scelta ben moderata, dell’obiezione di coscienza, alla seria attenzione ai popoli del Terzo mondo.
In questo senso è stato molto bello l’invito del Papa a collaborare per la riduzione del debito pubblico dei paesi poveri che, altrimenti, non si possono esprimere con libertà.
L’amore è inventivo sia nelle forme che nei modi per sviluppare la cultura del dono e della solidarietà.
Noi non possiamo celebrare l’Eucarestia se la "mensa di Dio" non si fa "mensa per gli uomini". Il "mangiatene tutti" è l’universalità dell’offerta di Dio che deve farsi apertura del nostro cuore al tutto ed a tutti, liberi da ogni calcolo e da ogni preoccupazione.
La povertà è, anzitutto, libertà interiore.
Conta saper usare i beni che abbiamo e l’uso più vero è farli entrare nel circuito dell’amore.

C. La profezia sulla dimensione economica, come "città secondo Dio" chiede oggi parole chiare, movimenti di opinione e sollecitazione a politiche nuove. Puntualizzo ciò in tre aspetti: la grande esigenza di lavoro; come porsi di fronte ai poteri forti; la globalizzazzione.
Il lavoro, nella nostra terra, è problema nodale. Conta, però, educare al lavoro, anziché al posto di lavoro; conta porre le premesse perché il lavoro, anzitutto, possa esserci. A riguardo è necessario una politica saggia, ben programmata.
Noi, nel nostro Sud, non possiamo riferirci a modelli che non si addicono alle nostre potenzialità e sostenibilità. Ovviamente non possiamo pensare che siamo condannati alla marginalità sociale.
Dobbiamo, invece, puntare ad una economia dentro uno sviluppo sostenibile. Un modello per la nostra economia pare sia quello delle tante, piccole realizzazioni più che i megaprogetti.
La nostra deve essere un economia diffusa, all’interno delle nostre risorse. Tutto ciò richiede iniziativa, creatività, coraggio sociale e libertà dai tanti freni che ci poniamo, talvolta per stasi di comodità, ma che divengono, poi blocchi sociali.
Le autorità non possono non porsi il problema del lavoro e devono incentivare e sostenere le iniziative, in una intelligente programmazione regionale che non si limiti a discutere, a recriminare, ma a porre le premesse e le contestualità perché la cultura del lavoro abbia il suo humus.
Spesso, tale crescita sociale è causata da una divaricazione tra investimenti e produzioni, tra bisogni e consumi, tra poteri chiusi e socialità diffusa.
I poteri chiusi, o come si è soliti chiamarli, "forti" sono quelli che fanno girare l’economia nel loro asse, che si preoccupano del loro profitto anziché della solidarietà.
Fare clan di sostegno entro i propri interessi è peccaminoso. é, peggio, ancora, chiedere l’ingresso in certi circuiti perché gli altri sopravvivano.
Questa è la cultura dell’individualismo che può esistere anche corporatizzato.
Il cristiano non entra in tali organismi illeciti, perché a-sociali, a-comunionali e cerca di spezzare gli ingranaggi.
Come pastore di questa chiesa, difensore dei poveri, esorto tutti a riflettere a riguardo.
Nella nostra città ci sono diversi gruppi sui quali conta offrire una riflessione. I gruppi finanziari, imprenditoriali sono necessari per creare sviluppo purché siano aperti e facciano circolare il benessere.
I gruppi lobbistici, invece, di sostegno corporativistico dei soci e che sono o politici, o ideologici, o di appartenenze più o meno segrete, sono rischiosamente disgreganti.
Come pastore esorto a non chiudersi, a non cercare autogratificazioni o appoggi che possono divenire illeciti quando evadono, penalizzano gli altri, specie i poveri.
La nostra città è a riguardo, purtroppo, come custodita da tante pseudo-sicurezze e di conseguenza è chiusa alla vera socialità e, nella luce di Cristo, affermo, che così si preclude un vero ed integrale sviluppo.
Lo sviluppo è come quello del corpo. Se è solo di un membro siamo nell’elefantiasi e, quindi, nella patologia.
Lo stesso dobbiamo riflettere su quel fenomeno che, oggi, prende il nome di "globalizzazione". Mentre può essere un dato positivo, se non è ben incanalata comporta dei forti rischi. La new economy, in fondo, è quella "forte" dell’incontro dei grandi gruppi finanziari, delle grandi lobbyes. Così si spengono le piccole economie. Si divarica la vita sociale, accrescendo i sempre più ricchi ed i sempre più poveri, i sempre più forti ed i sempre più deboli. Grandi studiosi dicono che se l’economia gira su se stessa ed ha come fine il profitto incontrollato è destinata ad esaurirsi.
Il senso vero dell’economia s’innerva sulla circolazione dei beni e sulla destinazione universale di essi ed ha un nome: "solidarietà".
Tutto questo i cristiani, liberi da qualsiasi dipendenza dobbiamo dirlo ed essere i provocatori di tale verità, onde generare libertà da tutte le dipendenze ed aprire a solidarietà.
La troppa ricchezza in mani di pochi crea maggiore povertà nel mondo. Se i ricchi, quelli veri e quelli chiusi, non si convertono non ci sarà mai giustizia per tutti.

La multimedialità

33. Nella costruzione o disgregazione della "città" ben compaginata e rivelatrice della "novità" che il Vangelo ha immesso nella storia umana hanno un influsso innegabile i mezzi della comunicazione sociale.
"L’avvento della società dell’informazione è una vera rivoluzione" (Pontificio Consiglio della cultura, Verso un approccio pastorale alla cultura, n. 9) "e le innovazioni impressionanti del XX secolo potrebbero essere state solo un prologo a ciò che porterà questo nuovo secolo" (Pontificio Consiglio Comunicazioni sociali, Etica nelle comunicazioni sociali, n. 2, 4 giugno 2000).
Il loro sviluppo tecnologico, il loro aggancio a mastodontici business economici, conducono la loro pur positiva valenza comunicativa, su vie non sempre costruttive.
L’etica della comunicazione sociale sta nei contenuti, che trasmettono, nello stile, nella misura della proposta che deve essere rispettosa della ricettività altrui.
Si potrebbe dire sinteticamente che la comunicazione sociale ha tre spazi intrinseci: informare, formare, aggregare.
L’informazione appartiene a quella che si chiama la "cronaca".
Ma la "cronaca" non è mai meccanica di fatti; è anche, e soprattutto, vicenda di libertà, di passionalità, di sofferenza, di limiti umani anche involontari. Ogni atto umano è sempre complesso. Evangelicamente comporta come primo atteggiamento il silenzio. Dice la Parola che Dio solo vede il cuore, l’uomo vede l’apparenza .
I mezzi di comunicazione non devono mai proporsi, come d’altronde fanno, come facitori di giudizio ma come annunciatori di un evento che tanto più è irrompente, violento, scomposto, tanto più merita rispetto e pudore nei confronti di chi è presentato a tutti. In questo senso dentro la notizia deve esserci il rispetto alla persona.
Questo vale su tutti i fatti che, purtroppo, raramente sono notizie e registrazioni del positivo mentre si pesca, spesso, più diffusamente nel tragico, nel piccante, nell’insolito etico e nel sensazionale emotivo.
I mezzi di comunicazione hanno, comunque, il fascinoso potere di portare il mondo nelle nostre case e, quindi, di aprirci a socialità, a dimensioni universali.
Da questo punto di vista hanno contribuito al superamento di una cultura chiusa, talvolta impermeabile.
E' ovvio che dobbiamo, se così posso dire, battezzare le potenzialità offerteci dai mass-media perché non subiamo passivamente ma educandoci al senso critico ci apriamo, anche, al senso sociale.
Altro aspetto dei mass media è la formazione, cioè la crescita della persona umana.
Ed anche in questo punto ci sono spazi di vero arricchimento, ci sono proposte conoscitive, dibattiti etici nel pluralismo delle idee che si presentano con molta valenza positiva.
Ma ci sono, anche, aspetti deformanti.
Il gioco all’effetto e qualche volta allo scoop apre delle falle, come rottura di una diga, dagli effetti devastanti.
I primi effetti che appaiono sono il rischio della manipolazione e della massificazione.
La manipolazione sta nella presentazione di una realtà paradossalmente "irreale", da "sogno", che non risponde mai al vissuto, nella immissione di un mondo virtuale, da fiction che violenta la ferialità, l’ordinaria esperienzialità umana, specie negli adolescenti.
La massificazione sta nel condizionamento dell’incidenza di modelli artefatti e che ispirano comportamenti e foggiano mode.
C’è un livellamento della personalizzazione, specie nei soggetti più fragili.
Si costruiscono idoli, assemblaggi emotivi dove il trovarsi non è nella categoria dell’essere profondo (comunicativo), ma in quella "massificante" della scarica di tanta solitudine, nevrosi e nella illusione di valere nella cultura, che talvolta, è quella del branco.
Rispettosamente dico che, a mio giudizio, appare, non di rado, la "libido" della massa, dove, pur tentando di emergere si è "numero", marionette di uno spettacolo, del circo delle illusioni celebrative e non di valori ma di scarica di tanto vuoto.
I mass-media possono essere anche un valore aggregante.
Ma tale aspetto è estremamente delicato. Infatti non rompono la solitudine ma, talvolta, la esasperano.
Così, ad esempio internet fa navigare, conoscere, ma non crea mai relazioni interpersonali. L’uomo non ha bisogno solo di immagine ma di comunione.
Quello che conta per i soggetti fruitori è essere se stessi per avere la forma della verità, in un discernimento di ciò che è suggestione e ciò che è profondità.
La civiltà dell’immaginazione spesso ci scarica dai contenuti e ci fa girare intorno all’apparenza.
Osserva il succitato documento Etica nelle comunicazioni sociali: "Le critiche spesso condannano la superficialità ed il cattivo gusto dei mezzi di comunicazione sociale, che, sebbene non costretti alla morigeratezza ed alla uniformità, non dovrebbero nemmeno essere volgari e degradanti; affermare che i mezzi di comunicazione sociale riflettono i gusti popolari non è certo una giustificazione in quanto essi esercitano una grande influenze in questi stessi gusti e hanno il dovere di raffinarli, non di degradarli.
Il credente sia un occhio puro su tutto, abbia un giudizio di verità unito a misericordia, possegga un antenna interiore che lo apre al mondo senza mondanizzarsi".
Ritengo valido che nelle comunità giovanili parrocchiali, si possono tentare, con degli esperti, tecnici, e maestri di morale dei cineforum, dei teleforum per "pensare" insieme, criticamente, cristianamente, su ciò che si vede.
E', anche, questo un modo per non subire ma per crescere.
Dobbiamo arrivare ad una ascetica della multimedialità. Non dobbiamo farci plagiare, non dobbiamo subire ed essere, anche, come cittadini credenti, critici, facendoci voce di disagio di esigenze.
La "città" della pace si costruisce così attivamente nella chiarezza della verità nella carità, della verità che deve essere "predicata sui tetti" (Mt 10,27) e della carità che allarga veramente i cuori.
I credenti dobbiamo, poi, sostenere usando i mezzi positivi che ci vengono offerti per una educazione valoriale.
Non si tratta di essere moralisti nè precludenti ma di essere "noi stessi".
In queste nuove frontiere il cristiano vigila, opera.
In fondo, al centro dell’etica dei mezzi di comunicazione sociale conta l’attenzione alla persona umana, l’apertura alla solidarietà, alla giustizia e la testimonianza che la verità vale più di tutte le ricchezze e che l’amore non può né deve essere spento dalle "grandi acque" cioè dalle irruzioni devastanti, talvolta degradanti ma, attraverso queste forme, deve crescere una umanità informata, formata, unita.

Capitolo V: Una sintesi di principi ed un "decalogo" operativo

"Lampada per i miei passi è la tua parola,
luce sul mio cammino.
Ho giurato, e lo confermo,
di custodire i tuoi precetti di giustizia"

(Sal 119, 105-106)

34. Con questa lettera vi ho introdotti a cogliere l’impegno del nostro essere cristiani nella e per la società.
Ho cercato di farlo anche attraverso una titolazione espressiva: le due città, che, come ho detto, non sono da intendere dicotonicamente, cioè in opposizione, quali, ad esempio, la città di Dio e la città dell’uomo, oppure, come spesso si dice: Chiesa e Stato.
Ho inteso invece i due volti della stessa città.
Gesù non ha voluto un Suo "regno terreno", dirimpettaio a quella della "città dell’uomo". Ha, invece, immerso nella "città dell’uomo" il lievito di Dio. Ha acceso nella complessità, talvolta nell’ambiguità della vita civica, economica, politica, la luce dello Spirito che è, in fondo, la luce dell’Agnello (Cfr Ap 21,23).

35. A conclusione delle tante riflessioni, con le quali abbiamo visto, biblicamente, i due volti della città umana, l’attuazione di tale incontro o scontro nella Chiesa primitiva, nel corso dei secoli e nell’oggi, vi propongo un Decalogo che offre, sinteticamente, alcuni principi di fondo ed altri operativi, onde essere presenza, lievito, fermento, volto della "città della giustizia" nel rischio babelico e sfrenato della comune città umana.

I. I credenti vivono nella città terrena
I cristiani, in quanto tali, non hanno una "città terrena" propria, diversa, staccata da quella degli altri. Vivono da cristiani nella città terrena che è di tutti. Non sono, quindi, dei rifugiati. Non fuggono dalla storia, non sono degli intimisti. Sono condividenti. Convivono con il positivo ed il negativo della "società civile". Sentono la loro identità dentro la storia, sono "segni" spesso del "contrario". Sono come l’anima dentro il corpo. Il loro compito è di levitazione della verità, della giustizia, della pace. I cristiani lo fanno con la loro testimonianza e con la loro azione nelle mediazioni proprie, possibili, come quelle della "cultura", degli orientamenti legislativi, delle scelte politiche, nel dimensionamento dell’economia mai colta come totalità dell’uomo. Le cose sono per l’uomo e non viceversa. Per il cristiano il potere è servizio, il servizio è dono, ed il dono può essere, anche, martirio.

II. I cristiani operano in uno Stato
Il cristiano non sogna, né opera per uno stato "confessionale" o per un tempo di "Cristianità". Il cristiano sa, anche, che la Chiesa non è una potenza terrena parallela allo stato.
Il suo spazio sociale è vivere, agire, dentro uno Stato laico. La maturazione storica, fondata anche sull’insegnamento cristiano, vuole che lo Stato sia "laico". Il compito della Stato è la promozione dei beni temporali comuni; è la tutela dell’uomo, di ogni sua libertà, compresa quella religiosa.
La laicità della Stato non significa "neutralità" di fronte ai valori veritativi ed etici.
L’obbligo della verità e della moralità impegna anche lo Stato laico, non nel senso hegeliano della comunità politica creatrice di valori e di norme morali. Nessuno Stato è tanto immorale, quanto quello che si "assolutizza" e si fa principio di etica.
Lo Stato non è la verità, né la giustizia, né la moralità; ma deve impostarsi in modo da difendere la verità, la giustizia, la moralità.
Deve sforzarsi di procurare "l’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono nei singoli membri, nelle famiglie e nelle associazioni il conseguimento più spedito e più pieno della loro perfezione" (GS 74).

III. I credenti vivificano la comunità con l’originalità del Vangelo
Entro la laicità dello Stato il cristiano singolo e le comunità dei credenti sono chiamati a verificare l’originalità e la fecondità della loro fede. Non fanno solamente "opera di supplenza", ma di animazione di ogni valore umano. La fede è un modo nuovo di essere, di pensare e di agire, mira per sua natura a creare una cultura ispirata ai valori cristiani per fare crescere la società in umanità, in giustizia, in pace.
Il sogno del cristiano nella città terrena, nella politica può essere quello di Maritain, che diceva: "Mai rinunceremo alla speranza di un nuovo ordine temporale d’ispirazione cristiana".
Si! Laicità ed ispirazione cristiana sono la tessera della presenza del cristiano nel mondo. Infatti "ispirazione cristiana" non significa affatto confessionalismo o rinuncia alla laicità delle cose.

IV. Presenti per salvaguardare la trascendenza della persona umana
Il fenomeno sociale cristiano fondato sulla meditazione della stessa Parola di Dio pone l’uomo, la persona umana, al centro di tutto l’edificio sociale e politico: tutta la persona, tutte le persone. Dice la Gaudium et Spes (nn. 65-76/b): "La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana".
Questo è il principio fondamentale del personalismo, da cui nascono, quello di sussidiarietà e quello di solidarietà.
Questo è un tratto distintivo, specialmente oggi, che colloca il pensiero sociale cristiano tra il rischio dell’individualismo (individuo non è lo stesso che persona), tipico di un invadente capitalismo selvaggio ed il collettivismo. L’uno e l’altro offendono l’uomo; il primo lo chiude in sé ed il secondo lo vanifica.
Chiedo, con convinta insistenza, che nella catechesi delle parrocchie, dei gruppi, dei giovani si studi il pensiero sociale cristiano, soprattutto attraverso le grandi encicliche sociali dei Pontefici, in questi ultimi cento anni.

V. Presenti per difendere la vita
Il cristiano non può accordarsi a visioni dell’uomo e della società d’ispirazione ideologiche riduttive, di matrice atee, radicalizzanti nei confronti della libertà che deve riferirsi sempre alla verità, o che marcano i "poteri forti" dell’economia, della gestione pubblica a discapito della solidarietà e della autentica condivisione.
Il cristiano difende la vita sin dal suo concepimento, sostiene la famiglia fondata sul matrimonio, secondo la Parola di Dio ed il diritto di natura; non sceglie mai metodi aggressivi, violenti; ama, invece, il dialogo, s’immette nella pazienza e persegue la pace. Il cristiano non è, per principio e per stile, intollerante con chi è di altra religione, razza o visione ideologica, anche politica, diversa.

VI. In difesa delle opinioni e per l’annuncio libero della fede
Il cristiano a tutti chiede di poter essere se stesso e lavora perché gli altri siano rispettati nelle loro opinioni.
Sa che opinione non è estravaganza, che diversità non è avversità.
Il cristiano non è un integrista. Noi esigiamo di poter liberamente esprimere la nostra visione dell’uomo e del mondo e sappiamo e vogliamo che ciò sia legittimo anche per chi ha altre visioni ideologiche, ovviamente nel reciproco rispetto, senza aggressività e senza saccenteria. L’umiltà profonda è il comportamento che smonta le pretese di zittirci.
Il cristiano non fa mai crociate ma riflette, dialoga, propone, genera opinione pubblica ed attende. La verità non s’impone: si propone e, soprattutto, si mostra.

VII. Fecondi anche se periferizzati
Il cristiano, abitando la città degli uomini, se si rivela per quello che è e, soprattutto, se, dicendo la verità, disturba, può essere emarginato. Addirittura può esperimentare che gli vengano negati i suoi diritti. é considerato come senza cittadinanza negli spazi inaccettabili dell’intrigo e delle consorterie varie.
Il momento in cui il credente, proprio perché tale, è periferico, allora partecipa alla croce del Signore ed è corredentore nella storia.
Ci sono momenti nei quali la presenza del credente è quella del silenzio crocifisso. Si attuerà, allora, la fecondità del "deserto" che ha valore di purificazione personale e di provocante misteriosa parola, eco di quella di Dio, in mezzo all’inconsulta rissa delle lingue.

VIII. I credenti si fanno carico della storia degli uomini
Il cristiano si fa carico della storia e della città umana nella preghiera. La sua preghiera è d’intercessione, secondo l’insegnamento biblico. I cristiani laici devono perseguire la loro santificazione nel loro inserimento nelle realtà temporali e nella loro partecipazione alle attività terrene (Cfr Christifideles laici, n. 17).
I cristiani nella vita civica sono testimoni dell’oltre di Dio che, però, non li astrae dalla terra ma li incarna nell’imitazione di Cristo. L’oltre di Dio illumina, purifica ed eleva il "qui" di quanto è terreno. Una profonda interiorità è sorgente di vera socialità.
Il cristiano, specie laico, è profeta di Dio dentro il vociare umano ed è come un faro nel disorientamento della città cainica.
Diviene "città collocata sopra un monte" (Mt 5,14) al posto della "torre di Babele" (Gn 11,9).
Il cristiano, specie laico, è il lievito per un nuovo impasto della storia non più con i fermenti della malizia e della perversità ma con quelli della verità liberante e dello spirito di dialogo e di riconciliazione.

IX. Una presenza politica
La costituzione Gaudium et Spes al n. 76 precisa: "E' di grande importanza, soprattutto in una società pluralistica, che si abbia una giusta visione dei rapporti con la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che esse compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori.
Come cittadini, guidati dalla propria coscienza, i cristiani possono impegnarsi ad entrare direttamente in politica e lo devono se sentono di avere tale vocazione; devono investire le loro risorse finanziarie per sviluppare l’economia e dare lavoro, se ne hanno la possibilità; devono testimoniare Cristo nella loro professione, devono usare responsabilmente, secondo coscienza, il loro diritto al voto; possono promuovere la circolazione, nella società, dei grandi principi del pensiero sociale della Chiesa.
Come parrocchie, gruppi, associazioni bisogna attivare una seria riflessione per un "discernimento comunitario" sulla vita socio-politica della propria comunità e sui flussi culturali e storici del proprio paese.
La fede quando è vera richiede di essere anche pensata per poter essere meglio tradotta.
Le mediazioni dei fedeli laici, nella realtà sociale e politica, infine, senza impegnare la Chiesa nel suo insieme sono di taglio oltrechè culturale anche politico, perché siano improntate leggi che non offendano l’uomo e non tradiscono i grandi valori che discendono dalla fede.

X. La scelta preferenziale dei poveri e degli ultimi
Entro tali possibilità e prospettive, il credente, sempre, comunque deve incontrare gli ultimi, i poveri, deve sostenere quelli che non hanno voce.
Due sono le icone evangeliche che meglio traducono l’impegno del cristiano nella città umana: quella di Emmaus, dovendo, noi come Gesù fare cammino con gli altri. é il dovere della "compagnia" e, quella del Buon Samaritano che è quella del curare le ferite dell’uomo "bastonato", provato.
Questa attitudine delle relazioni interpersonali, della "carità" alla persona, della "carità sociale" è il distintivo del credente. é la testimonianza che tutto è per l’uomo. é la fede che l’uomo, icone di Dio, è prima di tutto; è lo spirito per ogni iniziativa ed il terminale di ogni legge.

Conclusione

Concludo esortando alla Speranza

36. Quale speranza? Quella "viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce" (1 Pt 1,3-4) fondata sulla fedeltà di Dio che "rimane in eterno" e sulla risurrezione di Gesù dai morti.
Tale speranza che non delude, si compirà nei cieli ma già opera sulla terra.
Il Signore Gesù ci ha detto: "Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" (Mt 28,20).
La storia non ha le nostre sole forze. Anche la città umana non è costruita dalle sole leggi, dalle strutture, dagli apparati. C’è l’opera misteriosa dello Spirito.
Scrive Bulgakov (L’Agnello di Dio, Città Nuova, Roma, 1990, p. 457): "Con l’Ascensione non si conclude né si esaurisce l’opera dell’Incarnazione. Il Dio-Uomo salito al cielo, e assiso alla destra del Padre nella gloria, "torna" di nuovo nel mondo e la Gerusalemme celeste, la Città di Dio, discende dal cielo sulla terra. Il Signore possiede la creazione non solo dall’alto, come Dio, Creatore e Provvidenza, ma anche dal di dentro, quale Dio-Uomo, perché non è separato dalla terra, e quel legame interno è la sua vita nella Chiesa, è "ministero regale" che continua nel mondo.
Noi agiamo come se tutto dipendesse da noi e come se nulla dipendesse da noi. Ci è chiesta la fedeltà e l’attenzione a cogliere i "passaggi" di Dio, e le "attese dell’uomo".
Il "mondo nuovo" viene perché viene Colui che fa nuove tutte le cose. (2 Cor 5,17).
Una fede viva è generatrice di storia nuova. La fede si dinamizza come speranza e la speranza è canto di vita.
Sicchè, guardandoci attorno, dopo aver guardato in alto, possiamo escalamare con Isaia:

"In quel giorno si canterà questo canto ...
Abbiamo una città forte;
egli ha eretto a nostra salvezza
mura e baluardo.
Aprite le porte:
entri il popolo giusto che mantiene la fedeltà.
Il suo animo è saldo;
tu gli assicurerai la pace,
pace perché in te ha fiducia.
Confidate nel Signore sempre,
perché il Signore è una roccia eterna;
perché egli ha abbattuto
coloro che abitavano in alto;
la città eccelsa
l’ha rovesciata, rovesciata fino a terra,
l’ha rasa al suolo.
I piedi la calpestano,
i piedi degli oppressi, i passi dei poveri"
(Is 26,1-6).

Ci è chiesta una profonda conversione giubilare.
"Si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani" (Giona 3,8).
Allora la "città nuova" verrà senza che ce ne accorgiamo. Possiamo accoglierla e farla venire con i passi dei poveri.
"’Vieni Signore Gesù". E colui che attesta queste cose dice: "Si, verrò presto! Amen" (Ap 22,20).

Cosenza, 8 settembre 2000
Solennità della Madonna del Pilerio
Patrona dell’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano

† Giuseppe Agostino
Arcivescovo di Cosenza-Bisignano